di Giannarosa Vivian
Giannarosa Vivian ha letto l’autobiografia di Agatha Christie e ce ne ripropone le parti relative agli anni della prima guerra mondiale. È il periodo in cui la ventenne Agatha Miller lavora come infermiera in un ospedale di Torquay, sulla costa del Devon, che accoglie anche i feriti dal fronte; si sposa prendendo il cognome di Christie; quando viene destinata a un monotono lavoro nel dispensario, comincia a pensare le sue storie poliziesche e crea Hercule Poirot. E gli ultimi mesi della guerra li passa a Londra, alle prese con le incombenze di una giovane donna che si trova a mandare avanti una casa.
1. Prima del 1913 non si era avuta alcuna premonizione della guerra, ricorda Agatha Christie nell’autobiografia che scrisse tra il 1950 e il 1965 e che uscì postuma nel 1977 (An Autobiography, Collins, London), tradotta l’anno dopo in italiano col titolo La mia vita (traduzione di Maria Giulia Castagnone, Mondadori, Milano 1978).
«Gli ufficiali di marina a volte scuotevano il capo e mormoravano “Der Tag”, ma l’avevamo già udito con tanta frequenza negli ultimi anni da finire per non prestarvi più attenzione. Poteva forse essere un ottimo spunto per un romanzo di spionaggio, ma la realtà era un’altra. Nessun paese sarebbe stato tanto pazzo da far guerra a un altro, tranne che in posti come la frontiera di nord-ovest o qualche angolo dimenticato» (p. 229). Questa la convinzione diffusa tra la gente.
L’accenno al romanzo di spionaggio rimanda al mestiere di scrittrice di romanzi polizieschi che renderà Agatha Christie la più letta nel mondo, ma a 23 anni – questa la sua età nel 1913 – non aveva ancora scelto cosa fare da grande. Sapeva solo, e con certezza, che cosa non sarebbe mai diventata: pittrice, ballerina, cantante lirica, scienziata.
Per tutto l’anno 1913 e l’inizio del 1914 i corsi di Pronto Soccorso e di Infermiera a domicilio si erano intensificati – sei lezioni teoriche, una giornata di visite a domicilio con un’assistente sanitaria, qualche esercitazione pratica –, e le ragazze che vi si iscrivevano con entusiasmo si esercitavano bendandosi reciprocamente braccia e gambe, le più audaci tentavano addirittura qualche fasciatura alla testa.
L’ospedale più vicino era quello di Torquay, la cittadina sulla costa del Devon nei cui paraggi sorgeva Ashfield, la villa dove Agatha era nata e viveva con la madre Clara Boehmer e la nonna paterna. Una grande casa per tre donne sole: il padre Fred Miller era morto nel 1901; la sorella Madge dopo il matrimonio si era trasferita nel Cheshire; il fratello Monty era da tempo arruolato nell’esercito di sua maestà di stanza nell’Africa sudorientale.
«Quando nella lontana Serbia fu assassinato un arciduca, nessuno si impressionò molto. La cosa non ci riguardava, e nei Balcani c’era sempre qualcuno che veniva eliminato in quel modo. Alla grande maggioranza degli inglesi sembrava impossibile che l’Inghilterra potesse essere coinvolta nella vicenda» (p. 231).
Ma subito dopo l’assassinio cominciarono ad addensarsi all’orizzonte grosse nubi «foriere di tempesta» e si diffuse la voce che si era prossimi alla guerra: troppo difficile comunque credere che succedesse a una nazione civile. «La gente comune e in generale tutti, tranne forse qualche ministro o qualche grosso funzionario del Ministero degli Esteri, erano lontanissimi dall’idea. Non erano che chiacchiere di politicanti, dicerie… si sa, la gente si monta facilmente e fa di ogni cosa un dramma. E poi, una mattina, si seppe che l’incredibile era realmente accaduto. L’Inghilterra era in guerra» (p. 232).
Era il 4 agosto 1914.
2. Lo scoppio della guerra coincide per Agatha con l’inizio del fidanzamento con Archibald Christie, un giovane aviatore – era stato tra i primi a prendere il brevetto e a volare, stante che il suo numero di matricola era il 105 o il 106 – in forza nei Flying Corps, uno dei primi contingenti a essere mobilitati. Per ora il matrimonio è rimandato a data da destinarsi. Ad Agatha non resta che aspettare le cartoline che le arrivano dal fronte francese, «quel tipo allora in uso nelle forze armate su cui erano già stampate frasi come STO BENE, SONO ALL’OSPEDALE, da cui cancellare o lasciare, a seconda del messaggio che si voleva comunicare, senza che fosse possibile apportare alcuna aggiunta» (p. 234).
3. Nei locali del Municipio di Torquay dove è stato allestito l’ospedale in cui la ragazza lavora come infermiera volontaria saranno sistemati i feriti man mano che giungono dal fronte. In attesa del loro arrivo – e succederà terribilmente presto – le volontarie avvolgono bende e riempiono cesti di tamponi di garza: alcune attività sono utili, nota Agatha, altre assolutamente inutili, ma tutte aiutano a passare il tempo.
Una delle decisioni più stupide concepite da mente militare è quella di rifocillare i feriti che arrivano alla stazione ferroviaria, uomini sofferenti che avevano già ricevuto sufficiente cibo e bevande durante il viaggio da Southampton, e che adesso desiderano un’unica cosa: essere stesi su barelle, sistemati in ambulanza e essere portati immediatamente in ospedale.
In corsia il personale specializzato era costituito da otto infermiere professioniste, ricorda Agatha. Ai compiti di infermiera volontaria erano state destinate soprattutto signore di mezz’età, essendo le ragazze più giovani giudicate inadatte. Le ausiliarie del servizio di pulizia tenevano in ordine l’edificio, lavavano i pavimenti e lucidavano gli ottoni. C’erano infine le addette al servizio mensa, al quale gruppo chiedeva di essere assegnata chi non se la sentiva di fare l’infermiera.
«La signora Acton, un’energica matrona, ufficiale superiore del servizio volontario, fungeva da capo-infermiera. Bravissima nel far rispettare la disciplina, era riuscita a impostare l’organizzazione in modo assai soddisfacente. L’ospedale era in grado di accogliere duecento pazienti. Tutto il personale era schierato a ricevere il primo contingente di feriti. Il momento non mancava di una certa comicità. La signora Spragge, una gentildonna di aspetto fine, moglie del sindaco, il generale Spragge, si avanzò a riceverli, cadde simbolicamente in ginocchio davanti al primo ricoverato, che era entrato camminando tranquillamente sulle sue gambe, gli fece cenno di sedersi sul letto e, come obbedendo a un rito, gli tolse gli stivali. L’uomo la guardava esterrefatto, a maggior ragione quando presto appurammo che non si trattava di un ferito, ma di un epilettico. Dovette sicuramente risultargli incomprensibile la ragione per cui quell’altera signora, nel bel mezzo del pomeriggio, si fosse messa a togliergli gli stivali» (p. 235).
Inizialmente Agatha viene destinata al servizio di pulizia e con grande zelo si dedica alla lucidatura degli ottoni, ma dopo soli cinque giorni è promossa al ruolo di infermiera. Molte delle signore volontarie in ospedale mancano di qualsiasi esperienza pratica, sembra che la loro unica propensione sia quella esercitata in ambito domestico, ovvero alla pietà e alla compassione. La loro idea di assistenza ospedaliera evoca immagini di cuscini premurosamente sprimacciati, bicchieri d’acqua sul comodino, parole di conforto, non certo padelle e orinali da svuotare, né vomito da sciacquare, né puzza di ferite in suppurazione.
«Così le idealiste rinunciarono al loro compito con celerità, giustificandosi col fatto che non avevano mai pensato che sarebbero state chiamate a compiere simili incombenze. Il loro posto venne preso da giovani donne meno delicate» (p. 235).
Agatha e un’altra ragazza devono occuparsi di due file di dodici letti ciascuna, e dipendono dall’infermiera professionale Bond, energica e bravissima, ma del tutto priva di tempo e di pazienza per insegnare alle volontarie l’abc: dalla pratica della sterilizzazione degli strumenti, alle modalità di medicazione, alla somministrazione dei medicinali.
«Ricevevamo bidoni interi di materiale per le medicazioni già pronto per l’uso, ma ignoravamo persino che le bacinelle ricurve servivano a contenere le bende sporche, mentre nei catini dovevano essere sistemate quelle ancora da utilizzare» ricorda con amarezza (p. 236). Dopo una settimana le ragazze cominciano a capirci qualcosa, ma l’infermiera Bond, in preda a una crisi di nervi, nel frattempo ha rinunciato. Viene sostituita dall’infermiera Anderson, altrettanto brava e in più dotata di pazienza e acume: nel giro di qualche giorno riesce a individuare tra le volontarie quelle che vale la pena di preparare al lavoro in corsia, distinguendole da quelle «capaci solo di riferire se l’acqua bolle». Agatha non è schizzinosa, sa inserirsi bene nel lavoro, e ritiene che quello dell’infermiera sia un mestiere gratificante: se non si fosse sposata, dice, l’avrebbe scelto come professione della vita.
4. L’ambiente ospedaliero rispecchia la scala gerarchica vigente nella società, con la differenza che mentre nella vita privata i medici di famiglia li si manda a chiamare quando uno sta male, si seguono le prescrizioni date ma talvolta le si può anche discutere (spesso il medico è un amico di famiglia), in tempo di guerra l’esperienza dell’ospedale è altra cosa. Agatha impara presto a mettersi sull’attenti e restare immobile, «appendi-asciugamani umano», deve aspettare impassibile che il dottore si lavi le mani e lasci cadere l’asciugamano sul pavimento con evidente disprezzo dei presenti. Rivolgere la parola a un dottore è segno di presunzione; porgergli uno strumento su sua richiesta senza rispettare l’ordine gerarchico – infermiera, caposala, dottore – quella è vera insubordinazione.
5. Dal fronte i feriti arrivano sempre più numerosi, assistiti sommariamente dalle unità di primo soccorso, con bendaggi mal eseguiti e la testa formicolante di pidocchi. Per questo era diventata consuetudine tra le giovani volontarie salutarsi al momento del cambio turno con un «tutti puliti e pettinati» e agitare con aria trionfante lo speciale pettine a denti fitti.
Oltre che meno schizzinose, le giovani volontarie sono meno impressionabili e meno caritatevoli delle anziane. Non si fanno prendere dal panico quando vedono la colonnina di mercurio di un termometro salire a 40 gradi se il malato ha l’aspetto sano e rubizzo, perché ormai conoscono il trucco del calorifero. Riconoscono le diverse calligrafie, quindi non somministrano diete speciali al solo leggere l’indicazione scritta a mano sulla cartella agganciata ai piedi del letto del paziente. Quando si trasferiscono i malati da una parte all’altra della città per le radiografie o per le sedute di fisioterapia, le volontarie sono preparate a rispondere a richieste del tipo andare a comprarsi le stringhe delle scarpe se, guarda caso, accanto al negozio del calzolaio c’è un pub aperto.
Il primo intervento in sala operatoria cui Agatha assiste la mette in crisi: sembra che le pareti ondeggino, si sente svenire. Viene sopraffatta dalla vergogna. La capoinfermiera Anderson però si rivelerà inaspettatamente gentile: capita a tutti la prima volta, le dice. Ma poi bisogna sforzarsi di fare in modo che non succeda più.
La volta seguente l’intervento sarà molto più breve e meno complicato, dopo di che tutto filerà liscio anche se «quel taglio col bisturi era la cosa che mi disturbava di più; una volta terminato, potevo tornare a guardare e seguivo l’operazione senz’altri contraccolpi. La verità è che si finisce per abituarsi a tutto» (p. 240).
6. Erano trascorsi solo tre mesi dalla partenza di Archie per il fronte al momento della prima licenza in occasione del Natale, ma in quei tre mesi le esperienze dei due innamorati erano state tali – la morte di amici, il senso di provvisorietà, il cambiamento di ambiente e di stile di vita – da farli diventare quasi due estranei. L’idea di sposarsi, che fino a poco tempo prima tutti e due avevano accarezzato seppure tra alti e bassi, con l’entrata in guerra era diventata a loro avviso irrealizzabile. Salvo apparire improvvisamente l’unica sensata – in un periodo privo di senso – la vigilia di Natale del 1914. Si decidono al gran passo dall’oggi al domani tra l’incredulità delle famiglie, un obiettivo che si rivelerà una corsa a ostacoli: trovare nel giro di ventiquattr’ore la licenza matrimoniale, i soldi per comprarla, un sacerdote, due testimoni. Nessun parente è presente alla cerimonia celebrata a Clifton, vicino a Bristol, la cittadina viveva la famiglia di lui. Per la sposa «niente vestito bianco, niente velo, nemmeno un abitino elegante; indossavo un normalissimo abito a giacca, completato da un cappellino di velluto viola e non avevo avuto neanche il tempo di lavarmi le mani e la faccia» (p. 245). Il giorno di Santo Stefano gli sposi tornano a Londra, e da lì Archie riparte per la Francia. Non si rivedranno per i prossimi sei mesi.
«Inferrrmiera! mi apostrofò lo scozzese, arrotando la r come tutti i suoi compaesani e battendo sulle sbarre ai piedi del letto con un bastoncino.
Ehi, cosa ne dite? – gridò rivolto agli occupanti degli altri letti. – L’infermiera Miller si è sposata. E adesso come si chiama?»
«Christie» è la risposta di Agatha, che non cambierà mai il cognome nonostante il divorzio, per mantenere indissolubile con i suoi lettori il legame di un’intera vita.
7. Col passare dei mesi la guerra giunge a un punto morto. L’inverno 1914-15 è molto freddo, la maggior parte dei feriti è colpita da congelamento agli arti. I feriti che tornano dal continente sono sempre tantissimi, anche se in Francia ormai hanno installato ospedali da campo efficienti. Agatha continua ad amare il suo lavoro, le vengono affidate sempre maggiori responsabilità.
I ricordi del passato che si stagliano netti nella memoria, e che vengono rievocati nell’autobiografia hanno talvolta un risvolto umoristico. Per un episodio drammatico – una gamba amputata portata all’inceneritore assieme a una giovane e inesperta infermiera, in evidente difficoltà tra tutto quel sangue – ce ne sono altri che strappano un sorriso.
È il caso del sergente analfabeta che chiede ad Agatha di scrivergli su commissione le lettere d’amore, solo che le chiede di preparane sempre tre copie «una per Nellie, una per Jessie e una per Margaret». Quando Agatha gli chiede se non sarebbe meglio variare almeno un po’ il contenuto, tanto per imbrogliare le carte, il sergente risponde che grazie ma non occorre, le tre ragazze abitano in città diverse. «Ogni lettera cominciava: “Spero che questa mia ti trovi come ha lasciato me, anche se un po’ più in salute” e terminava: “Tuo finché l’inferno non si geli”» (p. 247).
8. Nell’estate 1915 Archie ottiene un congedo di tre giorni, si incontreranno a Londra. Non furono giornate serene, ricorda Agatha, lui era molto teso, preoccupato per le sorti della guerra.
«Avevamo già subito molte perdite, anche se noi inglesi eravamo ben lontani dal pensare che la guerra, anziché finire a Natale come avevamo ottimisticamente previsto, sarebbe durata ancora quattro anni. Quando lord Derby, infatti, lanciò la sua campagna per l’arruolamento volontario per un periodo di tre anni o per la durata del conflitto, il termine parve a tutti ridicolmente eccessivo» (p. 254). In quei tre giorni Archie non vuole pensare alla guerra, non ne vuole parlare né in generale né per la parte che lo riguarda.
Quello stesso anno Agatha si ammala e resta a casa per un lungo periodo. Quando torna al lavoro, in ospedale hanno aperto un nuovo reparto, il dispensario, quella che sarebbe diventata la sua casa per i due anni successivi.
9. In che cosa consisteva il nuovo lavoro? Doveva fare l’assistente delle due responsabili – la moglie del farmacista, un tale dottor Ellis, e un’amica di nome Eileen Morris. Il dispensario chiudeva alle sei, i turni di lavoro erano due, o la mattina o il pomeriggio. Un netto miglioramento generale, viene da dire, anche perché ciò le avrebbe permesso di prepararsi all’esame di tecnico farmacista per poter diventare a sua volta assistente di un ufficiale medico o di un farmacista. Solo che Agatha insiste sulla sua vocazione di infermiera e giura che tornerebbe volentieri in corsia.
La vita nel dispensario, che all’inizio le pare interessante, ben presto prende un ritmo monotono. L’attività torna frenetica solo quando arriva dal fronte un nuovo gruppo di pazienti: allora servono medicine e unguenti, bisogna preparare lozioni e riempire barattoli.
Le cose che Agatha impara in quel periodo sono tante, e non tutte hanno a che fare con la tavola periodica e il peso atomico. Impara che la medicina non è immune dalle mode, e che in fatto di cure ogni medico ha le sue personali predilezioni, simpatie che a volte rasentano la mania. Per non parlare dei rapporti conflittuali tra medici e farmacisti. Il suo percorso di studio della chimica e della fisica la porta a contatto con fenomeni quali esplosioni, ustioni, avvelenamenti, intossicazioni. Tutto le tornerà utile in futuro, e non certo nell’ambito della professione farmaceutica.
«Una farmacia, quando si penetra dietro le quinte, è una rivelazione». Mentre in ospedale ogni preparato era dosato con la massima cura (per amore di precisione, ma anche per l’estrema attenzione e concentrazione delle infermiere volontarie consapevoli della propria preparazione dilettantesca) qualsiasi farmacista in possesso di laurea, secondo Agatha, ama agire con estrema disinvoltura, e questo lo porta a realizzare preparati ogni volta leggermente diversi per colore o sapore: uno sciroppo più o meno aromatizzato alla menta, una lozione dal colore rosa più o meno intenso, «un po’ come una cuoca provetta che è talmente sicura di sé da non aver più bisogno di attenersi alla lettera della ricetta» (p. 258). E talvolta commette errori anche seri.
L’introduzione del sistema metrico decimale in Gran Bretagna non migliora di certo la situazione. «Bisogna dire che il sistema metrico decimale non era molto amato né dai dottori né dai farmacisti», nota l’autrice (p. 260). Chi lo trova particolarmente ostico, nel fare i calcoli sarà spesso incerto tra la dose dell’un per cento e quella dell’un per mille. E il pericolo grave, sostiene Agatha, è che nel sistema decimale ogni errore viene moltiplicato per dieci.
10. È alla monotona routine del dispensario che si deve la nascita della scrittrice Agatha Christie. Mentre un’infermiera ha sempre qualcosa da fare, nel dispensario lei può trascorrere interi pomeriggi di inattività, completamente sola, nel silenzio degli androni. Comincia a pensare seriamente di scrivere un romanzo poliziesco, e per prima cosa sceglie il tipo di morte da mettere in scena. Abbastanza naturale che, circondata com’è di sostanze tossiche, Agatha decida per una morte da avvelenamento. Tocca poi ai personaggi principali: la vittima e l’assassino. E infine i personaggi secondari, e il quando il dove e il perché. A forza di pensare, ogni tanto perde il filo del discorso. A questo punto se ne va in laboratorio a preparare le bottiglie di soluzione ipoclorosa per l’indomani, così da avvantaggiarsi sul lavoro.
Ma dove trova l’ispirazione per creare i suoi personaggi? Agatha si guarda intorno in tram, in treno, al ristorante. Si imprime bene nella memoria brani di conversazione, nomi, gesti, abiti, tipi di barbe, colore dei capelli, fogge di abiti. Una sorta di data base. Naturalmente tutto può essere modificato a piacere, all’occorrenza.
Da dove traeva ispirazione per le sue storie Agatha? Dice lei stessa che le piaceva ascoltare con attenzione le conversazioni in metropolitana o al tavolo di una sala da tè, studiare un volto particolarmente espressivo, pacifico o misterioso che fosse, sfogliare un giornale e farsi catturare dai dettagli di una vicenda di cronaca. Partiva da qui per immaginare romanzi che iniziassero proprio con quel dialogo appena udito, storie che prendessero le mosse da quell’esatto gesto che l’aveva colpita, o da quello sguardo.
Quanto alla figura dell’investigatore, il problema stava nel definire un personaggio che fosse nuovo e al tempo stesso tradizionale, sorprendente ma anche rassicurante. Ed ecco il colpo di genio: sarà un investigatore belga, uno dei tanti espatriati che in questi anni di guerra attraversano la Manica, un ufficiale di polizia in pensione, buon conoscitore del crimine, maniaco dell’ordine, della simmetria e delle forme quadrate (che preferisce rispetto alle tonde). Alla fine Agatha trova che il nome adatto per un omino meticoloso, di bassa statura, baffuto e calvo, sia Hercule. Il cognome Poirot è invece una folgorazione che la colpisce all’improvviso, dal nulla. O forse è un ricordo che riaffiora a distanza di tempo dalla lettura di un quotidiano.
Il primo romanzo poliziesco Poirot a Styles Court, che sarà pubblicato nel 1920, prende forma tra i momenti liberi dal lavoro nel dispensario dell’ospedale, e la vita in famiglia nella casa natale di Ashfield dove abita mentre il marito Archie è in guerra. Quando è vicina alla conclusione, Agatha se ne va in vacanza per quindici giorni a Dartmoor, nel Devon. Prenota una camera nel grande edificio triste e semivuoto dell’hotel di Hay Tor, e lì passa le mattine a scrivere. Pranza leggendo un libro. Nel pomeriggio ore e ore a camminare nella brughiera parlottando a voce bassa, tra sé e sé, intenta a costruire i dialoghi calandosi nei vari personaggi. Torna in albergo per la cena, poi un sonno che a volte dura anche dodici ore.
11. Dopo quasi due anni che non si vedono, Archie torna a Londra per la seconda licenza. Nella settimana che trascorrono insieme in una New Forest che l’autunno tinge di splendidi colori, nessuno dei due parla del proprio lavoro, lui si limita solo ad accennare alla possibilità di ritrovarsi di nuovo insieme entro breve tempo. E infatti improvvisamente ritorna in patria e viene assegnato al Ministero dell’Aeronautica, a Londra. Da parte sua Agatha cerca, non senza difficoltà, di abituarsi all’idea di fare la moglie, mettere su casa e famiglia. Per un po’ vivono in una stanza d’albergo, poi cominciano a guardarsi intorno in cerca di un appartamento ammobiliato. All’inizio le pretese sono alte, ben presto sono costretti a ridimensionarle. Siamo ancora in guerra, dopo tutto.
L’appartamento al numero 5 di Northwick Terrace, zona St. John’s Wood (inutile andare a cercarlo, fu abbattuto in seguito), viene rievocato nei particolari: due stanze spaziose, arredate in modo simpatico anche se un po’ trascurato, un piccolo bagno e un cucinino. L’edificio vecchiotto aveva tuttavia un aspetto imponente, circondato all’esterno da un piccolo giardino. Elemento determinante nella scelta, il prezzo: solo due ghinee e mezzo alla settimana. Con loro abita anche l’attendente di Archie, un tal Bartlett, che Agatha definisce «una specie di Jeeves in carne e ossa, assolutamente perfetto» (p. 268), un ex valletto abituato a prestare servizio nei palazzi dei nobili, che i casi della guerra avevano condotto al servizio di quello che chiamava «Colonnello Christie».
Con il cambiamento di casa e di città e l’assunzione di nuove responsabilità, Agatha esordisce nel ruolo di giovane moglie al momento disoccupata. Per tenersi impegnata progetta di seguire un corso di stenografia e contabilità, anche se per il momento è già abbastanza impegnata in una materia che potremmo chiamare «economia domestica». Gliela insegna la portinaia, signora Woods, un donnone allegro e affettuoso che all’occorrenza fa qualche servizio per gli inquilini.
Quando Archie porta a casa dal nuovo lavoro le razioni di cibo che gli spettano, le due donne si emozionano nel trovarsi sul tavolo un pezzo di manzo enorme, tagliato dal macellaio dell’Aeronautica in modo abominevole: poteva essere qualsiasi parte dell’animale, costata, lombata, girello. Una cosa vergognosa. Evidentemente l’attenzione era stata posta soltanto al controllo del peso prescritto: era il pezzo di carne più grosso che Agatha avesse visto dall’inizio della guerra. Nel forno del cucinino non sarebbe entrato di sicuro, e così lo dovette cucinare la signora Woods e fecero a metà. Nel riceverlo in dono la soddisfazione della portinaia è grande: da un cugino droghiere riesce a procurarsi burro, zucchero, margarina in quantità, ma per la carne è un problema. «Prima di tutto la famiglia» è la convinzione della signora Woods. «Nella vita quello che conta è conoscere la gente giusta» quella di Agatha.
Durante la prima guerra mondiale la classe lavoratrice era decisamente favorita rispetto ai cosiddetti ricchi, per il fatto che quasi in ogni famiglia c’era un cugino, un amico, un fratello che lavorava nel settore degli alimentari. Questa è l’impressione di Agatha. Nessuno, o quasi, viveva delle sole razioni concesse per regolamento; per chi aveva un parente droghiere c’era sempre l’aggiunta di un mezzo chilo di burro o di un vaso di marmellata. Prima di tutto la famiglia, appunto.
La giovane sposa non aveva dimestichezza con i fornelli, nonostante avesse frequentato come molte ragazze della sua età un corso di cucina. La cosa più importante per chi fa da mangiare, dice Agatha, è la pratica quotidiana, saper cucinare bene i piatti semplici. Durante il corso le avevano insegnato i soufflé, le crostate, il filetto in crosta e altri manicaretti che ora, in tempo di guerra, erano del tutto irrealizzabili, quasi offensivo nominarli.
In molti quartieri di Londra erano state aperte sedi delle Cucine Nazionali dove si vendevano cibi già confezionati, cotti da cuochi professionisti che riuscivano a rendere presentabili anche piatti realizzati con materie prime di bassa qualità, e assolvevano così al compito di sfamare la popolazione. Nei ricordi di Agatha resta incancellabile la “minestra di sabbia e ghiaia” con cui si iniziava il pasto, fatta con un certo dado per brodo del quale l’autrice preferisce non citare la marca.
12. Per riempirsi le giornate Agatha si iscriverà per davvero a un corso di stenografia e contabilità. Gente a Londra ne conosceva parecchia, ma con la guerra l’aveva persa di vista. Anche l’aspetto economico aveva il suo peso, d’altronde, e il reddito dei giovani coniugi Christie in questi tempi non era dei migliori. Forse è sciocco lasciarsi condizionare nelle amicizie dalla differenza di disponibilità economica, pensa Agatha, ma in realtà è così. Si aggiunga la solitudine che prova lontano dalle colleghe, dall’ospedale, dalle consuete occupazioni. Le manca la casa di Ashfield, gli oggetti cui era abituata. «Le radici non si inventano in un giorno, ma crescono in noi fino ad assumere, a volte la forza distruttiva dell’edera», scrive (p. 271).
Arriva il giorno che, durante una lezione, l’insegnante che era uscito improvvisamente dall’aula rientra annunciando: «Basta scuola per oggi. La guerra è finita!».
«Sembrava incredibile. Non c’erano stati segni premonitori, niente che impedisse di pensare che la guerra sarebbe continuata per altri sei mesi o un anno. In Francia la linea del fronte non aveva subito mutamenti rilevanti; quello che si conquistava un giorno lo si perdeva il giorno dopo. Per strada, dov’ero uscita completamente intontita, mi si parò dinanzi una delle scene più incredibili a cui mi sia capitato di assistere, tanto che la ricordo ancora con un lieve senso di paura. Le strade erano invase da donne che ballavano. È difficile che le donne inglesi si abbandonino a manifestazioni del genere, molto più consone alla mentalità francese e a una città come Parigi. Eppure, erano lì che ridevano, gridavano, ballavano e saltavano, scatenate in un’orgia di gioia selvaggia e quasi brutale. Mi sentii afferrare dal panico; se in mezzo a loro fosse capitato un tedesco, l’avrebbero sicuramente fatto a pezzi. Sembravano tutte ubriache e probabilmente qualcuna lo era sul serio. Si muovevano barcollando, tra urla e grida. Archie era già a casa quando arrivai» (p. 272).
Agatha è sotto choc per le scene a cui ha appena assistito, il marito è imperturbabile. «Ma tu te l’aspettavi, così all’improvviso?» chiede lei. E lui risponde «Oh, la voce circolava da un pezzo ma eravamo stati invitati a non far circolare la notizia».
Adesso si tratta di decidere cosa fare del futuro, dice. In realtà, Archie sa benissimo cosa vuole per il suo futuro: trovare un impiego nella City, dove ha già adocchiato un paio di posti di lavoro che fanno per lui.
Epilogo
Finita la guerra, al numero 5 di Northwick Terrace la vita continua come sempre, con l’unica eccezione del prezioso attendente Bartlett che viene smobilitato quasi subito, probabilmente su pressione esercitata da un qualche duca ansioso di riprenderselo a servizio. Al suo posto arriverà un certo Verrail, un uomo che Agatha definisce «indescrivibile». È un incapace, completamente impreparato. «Non ho mai visto una tal quantità di polvere, grasso e ditate come quella che si era accumulata sull’argenteria, sulle stoviglie e sulle posate di casa nostra. Quando venne congedato, tirai un sospiro di sollievo» si lamenta (pp. 272-73).
Con il congedo del terribile Verrail e l’assunzione al suo posto della cameriera-bambinaia Jessie incaricata di badare alla neonata figlia Rosalind; col nuovo lavoro di Archie presso una ditta nella City; con la decisione di Agatha di intraprendere la carriera di scrittrice professionista e un contratto con la casa editrice Bodley Head, per i coniugi Christie si chiudono gli anni della guerra e inizia una nuova fase della vita, insieme ancora per qualche anno.
M. Giovanna Lazzarin dice
Ho sempre pensato alla passione storica come la passione di un-una detective che va alla ricerca della verità su un evento per lo più luttuoso (ma dov’è mai la verità?). Questo bel testo di Giannarosa Vivian su Agatha Chistie lo conferma, ma aggiunge una nota di leggerezza e ironia da cui gli storici avrebbero da imparare e anch’io con loro.