di Davide Zotto
Il nostro amico Davide Zotto ci manda un’altra lettura di tempi di guerra: il fronte italiano nel maggio 1915, visto dalla parte austriaca, dalle pagine di Fritz Weber, Tappe della disfatta (ed. or. 1933).
In questi giorni in cui si commemora l’inizio della prima guerra mondiale ho scelto un brano dell’inizio del conflitto, ma quello cominciato circa un anno dopo, sul fronte italiano, nella zona di Lavarone. Il punto di vista è quello di un tenente di artiglieria austriaco, Fritz Weber (1895-1972, secondo la voce di wikipedia Italia). Arruolato nel maggio del ’15 in previsione dell’attacco italiano, Weber venne destinato al forte di Verle. Fece la guerra combattendo prima sul fronte trentino, in seguito sull’Isonzo, poi sul Piave e infine visse la ritirata attraverso la Slovenia. Pubblicò le sue memorie di guerra sotto il titolo Das Ende einer Armee nel 1933, il libro venne tradotto e pubblicato in Italia nel ’35 dall’editore Corticelli, con il titolo Tappe della disfatta; dal ’65, con la stessa traduzione e lo stesso titolo, è nel catalogo Mursia in perenne ristampa. L’edizione che ho io dovrebbe essere del 2012.
Nelle pagine che ho scelto, c’è la descrizione dei primi colpi di artiglieria e dei primi morti che Weber vede in guerra, lasciando in lui il senso dell’assassinio. Mi sembra che nel brano ci sia una contrapposizione tra il cannone, macchina insensibile, e l’uomo che rimane turbato per i morti. Soprattutto nell’ultima parte del libro racconta gli stenti e la mancanza di mezzi degli ultimi mesi di guerra quando l’impero era prossimo al collasso. Molto interessanti sono le pagine dedicate a Caporetto e quelle della ritirata e al ritorno a Vienna.
Due cadaveri in mezzo all’erba e alle rocce, di Fritz Weber
Quando, una settimana fa, ricevetti l’ordine di partire per il Trentino, correva a Vienna la voce che, sulla frontiera italiana, tenevamo pronti trecentomila uomini.
Percorrendo la strada che va da Chiesa di Lavarone al forte Verle, m’imbattei però in alcuni muratori, in due pattuglie di gendarmi e un colonnello, un vecchio signore con bastone e mantello nero, il quale mi assicurò che sarebbe stata cosa irragionevole concentrare per la difesa tante truppe in una località com’era la linea del Lavarone, quando distogliere più uomini dello stretto necessario dal fronte russo avrebbe potuto rappresentare per noi un indebolimento fatale.
Il punto di vista del colonello era incontrastabile. Ma potevamo intanto resistere? […]
Sette forti di recente costruzione, tutti in cemento armato, ci proteggono da un attacco italiano. […] Questi forti dovevano avere, nel piano del generale [Von Hötzendorf], il preciso e unico scopo di arginare, per tre settimane, l’impeto del nemico contro gli altipiani. Quindi, sarebbe toccato a noi passare all’offensiva.
Le cose stanno, però, diversamente. Non abbiamo quassù alcuna massa d’attacco, ragione per cui, anche se riusciremo, in qualche modo, a resistere al primo urto nemico, le tre settimane d’attesa diventeranno mesi, forse anni. […]
I giorni passano, uno uguale all’altro: servizio nelle torri corazzate, lunghe conversazioni con i compagni, brevi punte d’esplorazione fino alla frontiera.
Degl’italiani neppure l’ombra, almeno in apparenza.[…] Una mattina un gruppo di persone lascia la locanda di Vezzena, dirigendosi verso l’Italia: sono l’oste, la sua famiglia, le guardie di finanza e i carabinieri del posto di frontiera. […]
Un pomeriggio, mentre me ne sto seduto in compagnia del volontario Ludwig Trenker su uno spalto del forte, all’ombra di una torretta, squilla l’allarme. Voci eccitate risuonano nei corridoi. Ci precipitiamo giù per le scale, chiudendo dietro di noi la porta di ferro. Nel lungo corridoio delle casematte sono radunati tutti gli uomini liberi dal servizio. Gli ufficiali stanno a destra.
Silenzio di tomba. Con voce tremante, il comandante legge un dispaccio. Soltanto qualche parola staccata giunge fino a me: «…dalle 18 di questa sera stato di guerra con l’Italia… il nemico sta per entrare a Castel Tesino… attacchi si attendono da un momento all’altro… Comandante supremo…». Un lungo silenzio. Quindi un ordine:
– Rompete le righe!
Sono le 18. Le ombre avvolgono lentamente le conche boscose e le valli che stanno davanti al forte. Sulle cime del Mandriol e del Pizzo Leve, però, batte ancora il sole.
Sono libero dal servizio. Potrei stendermi sul letto per leggere o dormire. Invece, insieme con l’aspirante Wolf, non mi muovo dalla torretta-osservatorio e scruto le verdi colline, le foreste di pini, divenute adesso «paese nemico», e il bianco nastro della strada che corre verso l’Italia.
Nulla. Nessuno scoppio lacera la grande pace, nessun movimento di uomini è percepibile. […]
Improvvisamente alcuni uomini fanno irruzione nel locale [il corpo centrale].
– Che cosa succede?
– Allarme per i serventi agli obici. C’è l’ordine di aprire il fuoco.
Il grande momento è, dunque, giunto. Mi affretto a risalire sulla torretta-osservatorio. Il sergente mi dice che sul Pizzo Leve è apparsa la fanteria italiana.
Segnali d’allarme.
– Cupola 13!
Calcoli silenziosi. La gigantesca volta d’acciaio che ci sovrasta si alza, rotea, si abbassa sulla sua corona di rulli. Qualcuno grida delle cifre: «Direzione… alzo… inclinazione…». Sulle scalette brillano alcune lampadine. Il capo pezzo manovra i congegni di punteria. Lancette e aste si spostano, la bocca del mostro si abbassa silenziosamente, la culatta scivola su un lato. Una granata scompare nella camera di scoppio, mentre vien collocato il cartoccio.
In questo preciso attimo una strana impressione s’insinua in me. Penso che le cinque persone le quali, me compreso, si trovano nella torretta, stanno per commettere un delitto terribile. L’uomo vicino all’affusto tiene in pugno la morte. Quello che sta per accadere non potrà venir mai più cancellato.
Un tuono: il primo colpo è partito!
Segnali di allarme.
– Fuoco!
Uno strappo alla cordicella, un rombo fragoroso. Il pezzo rincula, per tornare poi in posizione di sparo. La culatta viene aperta e un fumo irritante esce dalla camera di scoppio.
Il dado è tratto. Irreparabilmente. Il caporal maggiore Aschenbrenner si volge verso di me, sorridendo. Nuove cifre. I congegni di punteria girano. Un altro ordine.
– Fuoco!
Una granata sibila non so dove. Aschenbrenner guarda col cannocchiale: egli è il solo che possa vedere quello che sta succedendo fuori. L’angolo sinistro della sua bocca è contratto, un occhio chiuso, come se stesse facendo profonde riflessioni.
A un tratto grida:
– Corrono, corrono!
– Dove? Chi?
Accosto l’occhio all’oculare. Una macchia ondeggia davanti a me per qualche attimo. Poi riesco a distinguere delle rocce, dei ciuffi d’erba e due masse nere. Uomini!
A lenti passi discendo nelle casematte. Ho l’impressione di aver commesso un delitto.
Durante la cena, il comandante tiene un lungo discorso. Dalle sue labbra escono molte parole gravi, ma io vedo soltanto i due cadaveri su Pizzo Leve, in mezzo all’erba e alle rocce.
Nota. Tratto da Fritz Weber, Tappe della disfatta (1933), trad. di Renzo Segala (1935), Mursia, Milano 2012, pp. 14-22. (d.z.)