di Silvio Guarnieri
Ripubblichiamo l’articolo che Silvio Guarnieri scrisse in “compianto per i morti del Vajont” all’indomani della catastrofe, e fu pubblicato per la prima volta su "l’Unità" il 20 ottobre 1963.
Longarone, con le sue frazioni di Rivalta, Pirago, Villanova, Faè, tutte distribuite lungo la strada nazionale Alemagna, nell’ultimo tratto della strettoia sul cui fondo scorre il Piave prima dello slargo nell’ampia e festosa vallata che da Belluno porta sino a Feltre, godeva di una condizione di privilegio nei confronti degli altri piccoli centri di questa parte meridionale della nostra provincia; soprattutto nei confronti dei comuni più periferici, come l’Alpago, la zona di Arsiè, quella di Alano, ma anche di altri che, rispetto ad esso, avrebbero potuto considerarsi più favoriti dalla natura, dalla loro posizione: per una maggiore quantità di terra a loro disposizione, e più fertile e più accessibile, e per più lunga durata di tepore del sole nei lunghi e rigidi mesi invernali.
Poiché Longarone si distingueva per un più vigoroso senso di dignità dei suoi abitanti, per la loro capacità di iniziativa, per le sue sette industrie, per la sua amministrazione di sinistra, – una delle tre nel complesso dei sessantanove comuni dell’intera provincia; ed anche quella parte della popolazione che sul posto non aveva, non trovava lavoro ed emigrava, in Germania, in Svizzera, in Francia, o magari addirittura in Australia o nel Canadà, era formata quasi esclusivamente da operai specializzati, in buona parte da gelatai, i quali perlopiù lavoravano in proprio, gestori di un bar, sicuri ormai di una clientela e di un credito.
E Longarone e gli altri paesi vicini si caratterizzavano anche per il loro aspetto lindo, pulito, ordinato; per qualche casa padronale di più antica o più recente costruzione, per le molte case nuove dall’aspetto civile e spesso persino accondiscendente ad una certa civetteria, come di chi tenga a ben figurare; ed anche quelle vecchie erano rimesse a nuovo, magari anche solo ridipinte a colori freschi, vivaci; così i negozi, i caffè, gli esercizi erano sistemati ed arredati modernamente, anche in omaggio ai non molti villeggianti estivi od al passante meno frettoloso, ma soprattutto con il gusto di essere al passo con i tempi, di non sfigurare, per dare testimonianza, per affermare una conquistata sicurezza, un pur modesto benessere.
Restavano semmai qualche gruppo di case, qualche nucleo isolato dal più compatto abitato a ricordare la lunga vicenda di questo recente benessere, nella loro grigia modestia, al margine della povertà; e per esse, un lungo ma evidente filo legava Longarone anche alle borgate, ai paesi più alti, di mezza montagna o di montagna, infine anche ad Erto, a Casso, situati lassù, sopra il lago del Vajont, di fronte al monte Toc. E se la sua economia era già in trasformazione, se specialmente i giovani si sentivano sostenuti da una nuova disinvoltura, da una nuova fierezza, come chi quasi d’un tratto si rende conto di avere nelle mani la propria fortuna; anche questa spavalderia, anche questa fierezza erano ancora improntate, restavano legate per vie segrete ma fonde, non cancellabili, alla fatica di generazioni che lentamente, tenacemente quelle terre intorno agli abitati, sulle falde della montagna, sin dove il pendio lo permetteva, avevano disboscato e conquistato alla coltivazione palmo a palmo, dalle quali avevano tratto la prima forza di un’indipendenza, a conservarle con un sacrificio non più rimunerato, senza contare le ore del proprio lavoro, il peso di una fatica troppo grave. L’occupazione in fabbrica, l’emigrazione costituivano ormai più sicura e continua fonte di guadagno; ma ancora, quando lo potessero, anche l’operaio, anche l’emigrante conservavano la proprietà della terra, magari soltanto di due, tre ettari, od anche meno, appena qualche pertica; di dove erano partiti, cui dovevano il primo nutrimento.
E il loro costume, il loro carattere erano rimasti fondamentalmente legati a quella tradizione contadina; ad una concezione della vita aspra, fondata sul sacrificio e sulla rinuncia; in cui ogni passo in avanti deve essere ben calcolato, previsto in tutti i suoi elementi, in cui ogni illusione, ogni errore, ogni capriccio sono inevitabilmente, crudamente scontati; restava in loro il senso che da generazioni e generazioni quel che si era raggiunto era frutto e risultato solo della propria capacità, del proprio impegno; perché, soprattutto, dal di fuori, da chi può, da chi ha il potere ed il prestigio mai viene un aiuto, ma solo semmai un’imposizione, un’esigenza; ed anche i vicini, anche coloro che condividono il tuo destino non ti possono aiutare, non ti possono dare una concreta solidarietà, troppo costretti nella loro preoccupazione, in una necessaria difesa, temendo magari anche il gesto impulsivo, generoso come un’inutile, anzi come una dannosa dispersione.
Poteva accadere, soprattutto ai più giovani, od anche a quelli per i quali il guadagno aveva toccato una misura persino insperata, di voler rompere, di voler uscire da questo costume, da questa tradizione, di volerla smentire con gesti, con atti di una spavalda ed estrosa dissipazione; ma anche questa rappresentava infine una sorta di rivalsa, una vendetta, quasi a compenso di un lungo, troppo duro passato, a scacciare ed a cancellare un ricordo che era di sé, della propria infanzia, e, più sù, della esistenza dei genitori, dei nonni. Poi anch’essi tornavano a più controllata e calcolata disciplina; poiché sopratutto erano sostenuti da un’accanita volontà di conquistare la loro vita, di formarla a proprio piacimento, a propria scelta; e quindi dalla volontà di esistere per qualcosa, dalla necessità di fare, di contare; infine da una celata speranza; una speranza che il più spesso non osava manifestarsi, perché troppo trepida, perché infine ritenuta avventata. E si esprimeva nella famiglia, negli affetti famigliari.
In questi nostri paesi in cui il mondo, tutto il resto del mondo, appare ostile, quasi inteso all’agguato, ad approfittare della tua debolezza, a coglierti in fallo, a schiacciarti ed a condannarti, la famiglia costituisce l’unica difesa, l’unico porto certo, stabilisce con gli altri, con altre persone, l’unico rapporto di fiducia, di generosità. Ogni uomo eredita dal proprio padre, dalla propria madre, dai più vecchi, dalle generazioni passate un patrimonio; un patrimonio di gesti, di abitudini, di abilità, di destrezza, una disposizione a tutti i lavori; su loro si educa, apprende, diventa uomo, acquista una sicurezza di sé; e queste virtù, queste doti trasmette ai figli, le vuole riprese dai figli; quando può, per quanto può, arricchite, completate, adattate ai tempi; ed i figli rappresentano per lui quel passo avanti, un altro passo avanti, magari quello ch’egli fu impedito di fare. La famiglia, la moglie, i figli lo riscattano della sua fatica, dei suoi sacrifici, infine lo affermano e gli danno una fisionomia; per essi egli si sente uomo, capace di protezione e di generosità; anche se quella generosità è sempre calcolata; perché egli anzitutto ha il dovere di fronte ai suoi, di fronte ai giovani, di non gettarli disarmati nella vita, di prepararli, di cimentarli nelle avversità, nell’usura della vita.
E con la famiglia, la casa, la terra; un pezzo di terra, magari poco più di un orto, ciò che rimane dai vecchi, da innumerevoli spezzettamenti, da eredità condivise con i fratelli; ma è un’eredità che stabilisce una continuità, che conferma una storia, che dà sicurezza alla propria esistenza, che quasi la garantisce; ed il pezzo di terra e la casa hanno per gli uomini, per le donne una loro vita; ogni pianta, ogni solco, ogni muricciolo, ogni stanza, ogni oggetto infine sono carichi di una storia, testimoniano una storia; possono essere il punto di partenza di una nuova storia, ma che la precedente continui, che non la tradisca.
Anche l’emigrante, in Svizzera, in Francia, in Germania, addirittura in Australia o nel Canadà, magari dopo un’assenza di anni, ritorna al paese; a quel paese che dovrebbe apparirgli ben misero, ben povero a paragone con le città nelle quali è vissuto, nelle quali ha lavorato; e se non lo possiede acquista un pezzo di terra, costruisce una casa, più piccola o più grande, a seconda delle sue possibilità; e perlopiù la costruisce con le proprie mani; anche se non sia muratore o falegname si fa aiuto dei muratori e dei falegnami, riacquista, riscopre in sé un’abilità, una capacità che aveva nel sangue, nei muscoli, nella più profonda memoria. E l’emigrante stagionale, ogni inverno torna nella sua casa, torna alla sua famiglia, magari anche solo per una diecina di giorni; per le feste di Natale; ritrova la moglie, i figli; ai quali si riavvicina, che arriva a riconoscere solo per quei pochi giorni; ma che restano per lui, durante tutto l’anno, come la meta e lo scopo della sua vita. ed in Svizzera, in Francia od in Germania non conta le ore di lavoro, non conta i sacrifici, non considera la salute, non il cibo, accetta qualunque alloggio; e mette da parte, lesina su qualunque spesa; ed accumula, accumula il modesto patrimonio, che invia di mese in mese; e magari in capo all’anno gliene avanza, se la moglie è saggia, se la famiglia non è troppo numerosa, ed egli può fare i suoi calcoli, i suoi progetti: ancora tanti anni, ancora tante stagioni, e poi potrò ritornare finalmente, potrà finalmente ricostituire la sua famiglia, diventare davvero il padre, ed avere la sua casa, il suo pezzo di terra, di cui vivere; gran parte della sua giovinezza sarà consumata, logorata per raggiungere questa sicurezza negli ultimi anni, nella vecchiaia; se essa gli sia concessa dalle malattie insidiose, dalla silicosi, od anche solo proprio da quello che è stato un eccessivo logorìo.
Il dolore non ha misura; gli affetti non possono essere calcolati sulla bilancia; in tal senso i confronti rischiano di essere sempre ingiusti, avventati. Ma la vita, la condizione umana può essere considerata secondo una misura; essa stessa è sottoposta ad una misura. E noi possiamo comprendere, dobbiamo comprendere quale sia la misura della vita di questa gente, e per essa arrivare a renderci conto del dolore senza compensi, della disperazione dei sopravvissuti di Longarone, di Rivalta, di Pirago, di Villanova, di Faè, di Castellavazzo, di Erto, di Casso. Quanti sono scampati fortunosamente al disastro, gli emigrati, i giovani lontani da casa per lavoro o per il servizio militare sono ritornati, vanno ritornando; hanno preso il primo treno, alle stazioni hanno acquistato i giornali, hanno cercato una notizia che autorizzasse una speranza; affannosamente, in una tensione di spasimo, hanno voluto, nonostante tutto, nutrire, conservare, una speranza; hanno percorso l’ultimo tratto di corsa, hanno chiesto, hanno chiamato, infine hanno saputo. Ed ora si sentono soli, definitivamente soli, senza la minima, senza nessuna possibilità di un compenso, di un rifugio; poiché è distrutto, è cancellato tutto quello su cui si fondava la loro vita. Ad altri, nelle circostanze più dolorose, più drammatiche, restano sempre un appiglio, un modo, una forma di esistenza su cui ancora contare; a loro no; a chi aveva cresciuto e nutrito una famiglia, a chi della famiglia aveva fatto il necessario completamento di se stesso, non esiste possibilità, neppure ventura, di conforto, di ripresa; forse ai più giovani, ma solo fra anni, sarà dato ricominciare, crearsi nuovi affetti, nuovi legami, ma sempre quella notte resterà nella loro esistenza come un momento limite, un momento che ha segnato la fine di tutto ciò cui credevano, su cui si fondava il loro costume, proprio la loro possibilità di vita. E neppure, a loro, resterà il conforto di una testimonianza delle cose; non la casa, non il campo, non gli alberi, non gli oggetti, nessun profilo, niente cui affidarsi, che ad un certo momento possa confermare, risuscitare il passato. Davvero l’uomo ormai si sentirà in balia di una forza estranea, del caso; sentirà intorno a sé un mondo assolutamente indifferente, incapace di accoglierlo.
E questa convinzione gli diventerà sempre più precisa, inevitabile in questi giorni, quando, dopo il primo empito straziante del dolore che toglie pure la facoltà di pensare, sarà costretto a ricercare la causa, la causa prima, diretta della sua sciagura. In questi giorni egli vedrà intorno a sé tutto un corteo di autorità, dal prefetto al questore, al presidente del Consiglio dei ministri, al presidente della Repubblica; vedrà autorità civili e militari e religiose; accetterà da loro aiuti, soccorsi, parole di conforto; sentirà parlare di progetti per il suo avvenire, ed anche ascolterà di denuncie e di sopraluoghi e di inchieste; e dell’intervento della Magistratura. E tante promesse lo frastorneranno e pure dovrà ringraziare e mostrare fiducia e ricambiare l’aiuto con l’affidamento; e le parole, le frasi gli usciranno di bocca magari senza ch’egli neppure se ne accorga, quali gli altri si attendono, quali la convenienza esige. Ma dentro di lui, fonda, ineliminabile, resterà una prima interrogazione, una prima certezza: quella di essere stato escluso, di essere stato ingannato; e con sé sentirà inevitabilmente esclusi ed ingannati tutti i suoi morti, tutti i morti dei suoi paesi, e tutti i sopravvissuti.
Egli non potrà non ricordare i timori, le preoccupazioni, l’ansia tante volte, insistentemente, continuamente ripetuti, affermati, ricorrenti; sin dall’inizio, sin da quando la grande diga era stata progettata, e per tutta la durata dei lavori, e negli ultimi tempi, su di lui, su tutti gli abitanti del suo paese era gravato come un incubo; ed a tutti era ricorso, a tutti aveva fatto appello, da tutte le autorità aveva chiesto difesa, protezione; proprio da quelle autorità che ora sono accorse e che gli offrono comprensione e conforto. Ed egli non potrà non legare questa incomprensione, questa esclusione, a tanti altri atteggiamenti consimili se pure di ben minore importanza; non potrà non ricordare che sempre, per qualunque sua esigenza, per qualunque sua iniziativa, anche per quelle che lo riguardavano più da vicino, egli si è sempre trovato di fronte un’autorità, chi ha il prestigio ed il privilegio, chi detiene il potere. E da costoro la sua richiesta, il suo parere, la sua proposta non solo non sono mai stati richiesti, ma sono sempre stati respinti; e si trattasse di un acquedotto, di una strada, addirittura del luogo e del modo di costruirsi la propria casa; per nulla di quanto pur gli premeva, di quanto pur ben conosceva, di quanto più era vicino alla sua esperienza e condizionava la sua attività gli era contato. Quanto si era fatto, si era fatto senza di lui, al di fuori di lui, addirittura contro di lui, anche se si era affermato che l’opera doveva servire a lui, gli veniva offerta per suo vantaggio, per migliorare, per favorire le sue condizioni.
Egli è un operaio, è un emigrante; è un uomo che conosce la vita, innestato ormai decisamente nella vita moderna; egli non respinge la tecnica, non diffida della macchina; non contrappone allo sviluppo della civiltà una superstizione, un rifiuto caparbio. Anzi proprio in questa civiltà, in questo sviluppo di un’economia si è innestato; qui nei suoi paesi, nella sua provincia in tal senso è stato esemplare; del suo paese, con tutti i suoi compagni, ha fatto un centro per molti versi indicatore di una via di sviluppo, per risolvere i problemi di fronte ai quali la vecchia economia, i vecchi sistemi erano ormai inadeguati. E proprio per questo egli sentirà più grave quella esclusione; si accorgerà infine che quella sua volontà, quella sua capacità di miglioramento, di inserirsi, di innestarsi nella civiltà, nella vita del suo Paese, ad un certo momento urtano contro un limite, contro un ostacolo invalicabile.
Quante volte ha sentito lodare, da coloro dai quali dipende, dalle autorità, dai suoi stessi deputati, la sua operosità, la sua parsimonia, la sua tenacia; ma soprattutto ora ricorda che si è sempre insistito a lodare la sua discrezione, o almeno ad incitarlo alla discrezione, all’accettazione, a fidare in chi sta sopra di lui, in chi detiene il potere, in chi sa e comanda perché sa.
Così ora egli finisce con l’apprendere ch’egli non potrà mai decidere non solo e non tanto della sua strada o del suo acquedotto o della sua casa, ma neppure della vita e della morte dei suoi cari, della sua famiglia, di sé. Apprende, sente di essere in balìa non tanto di forze immani, incontrollabili della natura, quanto di altre forze che pure sono altrettanto incontrollabili e prepotenti; e sono il danaro, gli interessi, l’opportunismo, la complicità, il gioco politico, anche magari l’incompetenza, la cattiva volontà; insomma egli sente contro di sé il potere, che lo soverchia, lo schiaccia, lo esclude.
Perciò egli è definitivamente confinato nella sua solitudine, nella sua impotenza, oggi e domani.
Nessuno, nulla compenserà quelle migliaia e migliaia di vite stroncate d’un tratto nell’orribile notte; niente e nessuno riscatterà l’orrore della madre che nell’urlo dello sfacelo strinse a sé la bimba e fu travolta dal gorgo, giù, giù, nel vorticoso precipitare della corrente, sinché si arrestò, ormai rigido nella morte quell’abbraccio, contro lo sbarramento della diga di Busche; niente e nessuno riparerà alla disperazione di quel padre che si vide strappato dalla violenza del turbine il figlio che teneva abbrancato per un braccio. Tante esistenze gentili, tante esistenze esili, appena trepidamente affacciantisi alla vita, ancora tentanti, sulla guida dei genitori, le prime esperienze, sono state calcate, stracciate, come un fiore gualcito da una mano impietosa. Questo è il nostro inutile compianti per i morti della diga del Vajont, ma questo, e forse ancor più doloroso, è il nostro compianti per i vivi, per chi resta e non sa più per chi sia sopravvissuto; a lui, per il quale la nostra solidarietà, il nostro impegno di essergli vicini, di essere partecipi del suo dolore, ma anche della sua rivolta, della sua volontà disperata di riscatto restano troppo poca cosa.
Nota. Per gentile concessione degli eredi, riprendiamo il testo da Silvio Guarnieri, Compianto per i morti del Vajont, in Id., Cronache feltrine, Neri Pozza, Vicenza 1969, pp. 167-175. L’articolo uscì originariamente su “l’Unità” di domenica 20 ottobre 1963 e oggi si può facilmente recuperare in rete, dall’archivio in linea del giornale (http://archivio.unita.it/). Nella prefazione alla raccolta delle Cronache feltrine, Guarnieri scrive che l’articolo per i morti del Vajont gli fu “insistentemente richiesto, quasi preteso” dalla direzione dell’“Unità” (edizione di Milano), allora diretta da Davide Lajolo: “mi accinsi a scrivere, se pure sostenuto da un commosso fervore, con il senso amaro dell’inutilità della letteratura, dell’inutilità delle mie lagrime” (Guarnieri, Cronache feltrine cit., p. 15).