di Matteo Melchiorre
Dopo quella di Guido Lanaro, riceviamo un’altra recensione sul Quaderno numero 11, Compagni di classe, di Cristiano Baldissera. Melchiorre ha più o meno la stessa età di Baldissera: da qui, comincia a ragionare di esperienze generazionali e di rapporti tra generazioni, con una punta di amarezza.
PS. Melchiorre dice che non è riuscito a trovare il quaderno dal suo libraio abituale. Ricordiamo a lettori e librai che ora i Quaderni di sAm si possono facilmente ordinare presso il distributore Cierrevecchi.
Zlatan Ibrahimovic ha scritto un libro autobiografico. L’ho letto perché l’autore è della mia classe (1981). Specie nelle pagine in cui Zlatan parla della sua infanzia-adolescenza, con mia grande sorpresa, ho trovato materia di riflessione. Non mancano usi e costumi, stati d’animo e riferimenti culturali (antropologicamente parlando) che mi sento di avere io stesso, mutatis mutandis, esperito. Comunanza generazionale? Parrebbe.
Si fa presto a dire generazione. Non so se sia possibile determinare un’unità scientifica della generazione come durata. Venticinque anni? Trenta? Di più? Di meno? La mia generazione è composta dai nati tra il 1979 e il 1988. Chi è nato nel 1978 o nel 1989 è già un altro discorso. Siamo, in effetti, la generazione breve.
Al di là di Zlatan Ibrahimovic basta fare un giro in libreria per rendersi conto di come tale generazione, nei termini più disparati, abbia già cominciato a produrre la sua specifica epica. Ho passato un paio d’ore in libreria, appunto, per farmi un’anagrafica degli scrittori della mia generazione. I nomi sono davvero tanti. Ci sono perlopiù i cavalli di razza, alcuni anabolizzati e altri anoressici, che corrono gloriosamente il palio delle scritture commerciali. In genere è un vomitatorio retorico, nel quale si rimettono i boli della nostra erba gatta; la televisione e i suoi stilemi narrativi, dico, i suoi ritmi e le sue inquadrature, i suoi linguaggi e le sue trame. Qua e là, in libreria, ci sono anche più modeste ciotole di becchime in cui tintinna ogni tanto qualche pagina silenziosa, densa, franca, non funzionale a qualcosa, tanto più autentica quanto più non è scontata. Pagine di questo genere – che però non ho trovato nella libreria che frequento abitualmente – si possono leggere in Compagni di classe. Le occupazioni del liceo classico statale Marco Polo di Venezia (1995-2001).
Il libro mi è stato regalato. L’autore è Cristiano Baldissera. È nato nel 1983. Anche lui, dunque, è uno della generazione breve. Ho letto Compagni di classe nel corso del lungo viaggio in treno che mi doveva portare a Migliarino Pisano e, da qui, al Lago di Massaciuccoli.
Il libro parla di occupazioni studentesche negli anni 1995-2001. Anni cruciali, per la generazione breve, perché sono quelli in cui si è disegnata una parabola specifica. Prima si è cominciato a capire che la piega intrinsecamente liberista che stava prendendo l’Italia poteva dar seguito (metti mai?) a problemi mica da poco. Quali problemi? Questi di adesso, sul giornale di ieri, di oggi e di domani. Infine si è capito fino in fondo (Genova, 2001) che non c’era niente da scherzare. E la generazione breve si è come richiusa. Tutto il processo non è durato nemmeno un decennio.
Il libro di Cristiano Baldissera fa luce sugli anni dell’apertura-chiusura della generazione breve. La postazione da cui l’autore osserva è molto più proficua dei cliché in cui si accomodano i più celebrati scrittori della generazione breve. Quest’ultimi ci confidano le loro bramosie sessuali, i loro intrecci noir, le loro avventure nelle periferie urbane (underground, pulp o rap secondo convenienza), le loro storie d’amore tormentate, i loro mondi di segregazione, omicidi a sfondo passionale, futuri apocalittici.
Ma ci sono aspetti ben più sostanziali rispetto a queste fantasie rai-mediaset-sky circa grandezza e declino della generazione breve. Cose che dovrebbero essere descritte. Le occupazioni del Liceo Marco Polo, appunto, offrono campo al racconto di alcune di queste cose. Compagni di classe è un buon libro. A mio modo di vedere queste ne sono le ragioni: a) al centro v’è un luogo vissuto; b) è pieno di coristi (non c’è un personaggio che offusca gli altri, ma un personaggio che interagisce con gli altri, ascoltandoli con pazienza); c) non scandaglia private vicissitudini esistenziali ma percorre un’esperienza unificante, collettiva; d) è di genere misto (storia, antropologia, azione, ricordi).
Devo confessare che l’interesse per il lavoro di Cristiano Baldissera ha avuto un grip nel fatto che io stesso sono stato rappresentante d’istituto nell’occupazione 1998 della sezione classica del liceo scientifico Dal Piaz, a Feltre. Da noi c’erano problemi di secessionismo vibrante, secessionismo dei classici nei confronti degli scientifici, secessionismo che noi classici sostenevamo con fermezza. Ho vissuto quei dieci giorni col più sincero impegno. Quei giorni hanno tracciato una linea netta nella vita mia e di tanti compagni di quell’esperienza, un prima/dopo in cui a mutare è stato qualche addentellato non troppo lontano dall’autocoscienza.
Così, leggendo il libro di Cristiano Baldissera, che oltretutto è per lunghi tratti ben scritto (io faccio il tifo per quando mette da parte le chiavi antropologiche e parla liberamente) ho avuto spesse volte il cuore in gola. La bravura dell’autore è stata quella di aver ridotto ai minimi termini la fenomenologia delle occupazioni studentesche. Scoperta: tali minimi termini, pur rilevati in un mondo periferico, quello veneziano, sono identici a quelli della mia esperienza (altrettanto periferica se non di più). Collettivi preliminari. Scrutini. Presìdi e prèsidi. Portineria scolastica come quartier generale. Problemi di ingerenze esterne. Attività didattiche alternative. Rassegna stampa quotidiana. Autogestione e occupazione come mondi distinti. Stagionalità precisa della protesta.
Questo per il ramo diurno e apollineo, perché le occupazioni studentesche sono giani bifronti. All’operativismo solidaristico della mattina segue l’afflato organizzativo del pomeriggio e, infine, il baccanale notturno. Tutto questo intreccio Cristiano Baldissera lo coglie e lo precisa, non facendo mai, di ciò, un’epica della crapula o un vago partecipazionismo sinistrorso. È invece il carattere ritualistico e per certi versi iniziatico di questi chiaroscuri la natura ultima delle occupazioni.
Il discorso non va in alcun modo banalizzato. Non va buttato in pasto all’intransigenza borghese, allo spirito d’ordine cattolico e neppure alle fanfare libertarie. Le occupazioni – dato di fatto – per la generazione breve sono uno snodo formativo dei più importanti. Leggendo Compagni di classe ho avuto conferma che quello che giaceva in forma disordinata nei miei ricordi di ex occupante di scuola prealpina non era un sedimento goliardico. Niente affatto. Era lo sterminato deposito di frammenti di un’esperienza unificante, nel corso della quale, attingendo a più vecchi moduli di espressione del dissenso e concependone di nuovi, la generazione breve aveva architettato il metodo per: a) dar forma alla propria coscienza civile; b) elaborare interpretazioni critiche del proprio mondo; c) sperimentare in regime di assenza di controllo i rapporti di genere (eufemisticamente parlando); d) valutare in sede neutrale gli orientamenti ideologici acquisiti in famiglia; e) dar vita a un effimero microcosmo sociale entro cui farsi un’idea di quale potrebbe essere stato il futuro una volta che la generazione breve fosse uscita dalla sua anagrafica minorità.
Scusate se è poco. La lettura del libro di Cristiano Baldissera, insomma, per chi appartenga alla generazione breve è non molto diverso da una seduta di psicoanalisi. Vorresti interloquire, diventare uno dei coristi del Liceo Marco Polo per dire il tuo pensiero, alzare la mano per confermare o smentire questo o quello. Vorresti, ma non puoi. E così prendi in mano la matita e scrivi sui margini del libro.
Sfogliando adesso Compagni di classe vedo fin troppe sottolineature, commenti, cerchi, frecce. Segno che ho molto dialogato. Anche questo, indurre a un dialogo con se stessi, è una virtù del libro di Cristiano Baldissera. Nel corso del mio viaggio in treno, avendo finito la lettura ben prima del capolinea, ho passato in rassegna le mie sottolineature. Poco prima di scendere alla stazione di Migliarino Pisano ho riconsiderato la pagina più scarabocchiata di tutte. Pagina 76.
Ho disegnato una chiave. Sotto alla chiave ho scritto un commento: «L’autore ha intuito e dimostrato che le occupazioni studentesche sono un osservatorio privilegiato per studiare gli scantinati (consci-inconsci) della generazione breve. Generazione sfuggente. Generazione bastarda (figlia degli anni ’80 e ’90). Generazione che si sente inadeguata rispetto all’esterno, ma che si libera degli impacci quando prova a parlarsi».
Sotto al commento ho fatto un riquadro. Dentro al riguardo ho scritto: «Poveri noi!».
Dal riquadro ho tracciato una freccia che va dritta nelle parole di Cristiano Baldissera, dove scrive: «Una generazione troppo spesso rassegnata a ironizzare appunto sulla possibile efficacia e concretezza del proprio pensiero e delle proprie azioni».
Ironia. Rassegnazione. Inefficacia. Poveri noi. È proprio vero. Non già al tempo felice delle occupazioni. Ma adesso come adesso è proprio vero. Ho chiuso il libro e mi sono avviato al lago di Massaciuccoli.
Elena dice
Cari, permettetemi di ritrovarmi con voi al Roxy Bar, come direbbe Vasco, per parlare della nostra generazione.
Sono nata nell’1983 anche io e compio 29 anni tra pochi giorni. Devo però confessare – sarà un vezzo femminile – che mi sento ancora abbastanza giovane. Dovrete quindi perdonarmi se non condividerò completamente la visione di questa generazione breve, rassegnata e disillusa, che riguarda ai tempi delle occupazioni liceali con nostalgia e un po’ di compassione per quell’ingenuità che ora, uomini adulti, non abbiamo più.
Non fraintendetemi, ho trovato molto bella la ricostruzione delle occupazioni al Liceo Marco Polo: i modi, i motivi, le attività, le
geografie. Ho apprezzato molto anche l’intento scientifico di Cristiano nel cercare di comprendere, capire e reinterpretare con gli occhi del dopo gli eventi che aveva vissuto in adolescenza (ammetto però che avrei accorciato un po’ la parte metodologica che risulta un po’ troppo lunga e non interessante nel contesto del quaderno).
Mi è piaciuto poi in modo particolare lo sforzo di studiare le autorappresentazioni dei protagonisti. Questo però è un problema con cui l’autore stesso si deve confrontare, perché è proprio quello che sta facendo, crea cioè delle nuove autorappresentazioni, scegliendo e selezionando cosa dire e cosa non dire e dando una precisa chiave di lettura di eventi e fenomeni in cui lui stesso è stato coinvolto. Ed è proprio questo il punto che ha sottolineato anche Matteo. Chi siamo? Che però dovrebbe essere trasformato in un: come ci rappresentiamo?
Ed è qui che non mi trovo d’accordo: non ci riesco proprio a vedermi in questa generazione breve. Sarà perché nel liceo che ho frequentato io – che era un po’ più conservatore del M.Polo – le occupazioni sono costate diverse denunce e non credo che l’essere portati in questura sia un rito di passaggio, sarà perché le occupazioni per me sono continuate anche all’università, sarà perché mi ritrovo ancora adesso spesso per strada dietro a uno striscione, sarà perché credo ancora di poter fare qualcosa perché le cose cambino e perché non ho ancora deciso di indossare il tailleur e di diventare grande…
Cristiano dice
Innanzitutto non posso fare a meno di ringraziare anche Matteo per aver trovato l’occasione di esprimersi in questo interessante intervento. Ci tengo a puntualizzare subito che appartengo anche io alla classe 1981 e perciò siamo a tutti gli effetti coetanei. Forse è per questo motivo che trovo molta affinità con il tuo commento. In questo senso appartenere a una generazione significa aver condiviso una serie di immagini, di idee e di valori ma anche un insieme di fatti storici che hanno segnato e hanno dato significato alla nostra vita. Nello stesso tempo, essi ci hanno separato, in qualche modo, da coloro che ci hanno preceduto e da quelli che ci hanno seguito. Le letture, i film, la musica e non ultima la televisione che ci hanno educato ci identificano e tuttora ci offrono l’opportunità di condividere molte conversazioni nella consapevolezza di appartenere a quella che come tu hai chiamato efficacemente è una generazione breve. Breve anche perché, sempre riprendendo le tue osservazioni, la parabola del movimento studentesco al quale abbiamo partecipato, è nata e si è conclusa in un lasso di tempo relativamente corto.
Mi fa piacere scoprire che dalla tua lettura sia emerso come il mio interesse specifico sia rivolto alla storia generazionale, nonostante il metodo per esaminarla appartenga alla storia locale, alla piccola storia. Sono convinto che lo studio della vita dei singoli individui sia fondamentale per riscoprire aspetti importanti della vita di una generazione. Quando incontro nuove persone, mie coetanee, se la conversazione si sposta sul tema delle occupazioni scolastiche alle quali hanno preso parte, avverto sempre molto chiaramente il cambio del livello del discorso. Gli occhi dei miei interlocutori iniziano a brillare e il tono della voce si fa tutto a un tratto entusiasta, elettrizzato. I ricordi iniziano a sgorgare come un fiume in piena e la voglia di raccontare la propria esperienza sembra inarrestabile. Spesso poi le considerazioni sui fatti si fanno ironiche ed emerge un po’ di autocommiserazione per l’ingenuità e la superficialità che accompagnavano quei gesti. Quasi tutti avvertono di aver vissuto qualcosa di importante, e in qualche modo formativo per la loro vita, ma è grande la difficoltà di trovarvi una spiegazione, un senso. Non si è in grado di spiegarsi il perché. Il mio lavoro si è rivolto dunque a cercare una risposta a questa domanda.