di Elis Fraccaro
Rendiamo disponibile l’introduzione di Elis Fraccaro al Quaderno di sAm numero 2 (autunno 2005): Piero Brunello, L’anarchico delle Barche. Notizie su Luciano Visentin, calzolaio (1898-1984).
Quando li ho conosciuti Luciano e Teresa abitavano in una casa a Maerne in via Noalese. Era una piccola casa a un piano con cortile davanti e il confine della proprietà a ridosso del muro destro. Questo muro procurava diversi dispiaceri a Luciano per via del vicino, un uomo arrogante e dispettoso tanto che fui costretto a intervenire per convincerlo a smetterla. Di questo Luciano me ne fu grato e ogni tanto, negli anni successivi ricordava con gioia questo fatto che aveva posto fine a anni di litigi e piccole angherie quotidiane.
La casa, costruita in economia, era povera ma, come si dice, dignitosa. Aveva poche stanze, luminose. Colpiva l’ordine e la pulizia e ogni volta che entravo mi veniva alla mente in maniera quasi automatica quel vecchio insegnamento di mia madre che parlava di dignità e di braghe sdrucite ma rammendate e pulite. Un monito che in questi anni di "usa e getta" non è più attuale e forse incomprensibile. Era l’estate del 1978. Avevo avuto il suo nome da Nani Fiorin, un "vecchio" anarchico di Venezia che aveva sposato Maria, una nipote di Teresa. Nani in realtà non era molto vecchio ed era uno dei pochi anarchici della generazione di mezzo, tra quella cioè di Visentin, dell’antifascismo, della guerra di Spagna e noi, i giovani del ’68.
Era stato militante tra la fine degli anni ’50 e la metà degli anni ’60 e assieme ai suoi fratelli e al gruppo di "Venezia viva" avevano dato vita alla Libreria Internazionale, chiusa con l’alluvione del ’64 e alla pubblicazione dei primi tre mesi dell’Internazionale nel 1966. Avevo e ho molta stima di Nani e anche se da anni egli fosse lontano dalle vicende del movimento anarchico lo vedevo di tanto in tanto con lo stesso affetto con il quale si vede un vecchio zio. Per noi giovani i vecchi anarchici rappresentavano un patrimonio inestimabile. Erano la nostra famiglia, il nostro passato, la nostra storia. Nel bene e nel male. L’umanità prorompente che da loro trapelava ci faceva riflettere sul senso di quell’etica che per noi era ancora un concetto astratto. Ma soprattutto erano la prova vivente e tangibile di un passato che troppo spesso veniva misconosciuto e occultato. È difficile capire quanto il pensiero anarchico sia stato travisato, negato ma anche subdolamente utilizzato dalla cultura marxista egemonica alla fine degli anni ’60. Devo dire che molto della mia formazione politica è dovuta alla fortuna di aver conosciuto molti di questi anarchici. Visentin, seppure in maniera particolare, è senz’altro tra questi.
Luciano era magro, di statura normale e i capelli bianchi. Alle barche lo chiamavano "Ciano baccalà". Era bello a vedersi. Gli occhi chiari erano dolci. Mi accolse con gioia e senza imbarazzo, come mi conoscesse da sempre. Era pieno di premure e si agitava. "Teresa prepara del caffè, forse preferisci il tè", si preoccupava per non avere vino in casa. "Noi non lo beviamo, ma possiamo andarlo a prendere… Teresa offri qualcosa di fresco fa caldo, Teresa…". E Teresa lo guardava agitarsi e annuiva e per non contrariarlo lo assecondava sempre e lo calmava. Teresa era molto più giovane di Luciano ma non si vedeva. Era mora, con i capelli crespi. Gli occhi neri, profondi, tristi. Brillavano. Luciano disse che era stata una donna molto bella. Aveva il viso stravolto a causa di una malattia, la Lupus Canina, "incurabile ma non contagiosa" spiegava a tutti Luciano, cercando di rompere l’imbarazzo istintivo che si creava nei primi incontri e che durava poco perché Teresa era buona, gentile, mite. Per arrotondare la magra pensione di Luciano andava in bicicletta a Mestre da conoscenti a vendere uova. "Uova di campagna, genuine, uova di galline ruspanti di contadino, fresche", garantiva con dolcezza Teresa. Fu da allora che fui incluso nel giro e Teresa passava di tanto in tanto con la sua bicicletta e le sue uova. Ma le uova più fresche erano per Davide. Le metteva da parte. Davide è mio figlio e all’epoca aveva quattro anni. Teresa e Luciano avevano per i bambini una vera passione.
La vita di Luciano seguiva regole rigidissime. Sveglia alle sei e mezzo sette a letto alle nove, non oltre. Colazione con pane e latte, mai caffè. Pranzo alle dodici e con l’introduzione dell’ora legale, alle undici. "Mi no ghe vado drio a sti pelandroni che ne governa", diceva. Mangiava minestre e passati di verdura, la pasta qualche volta ma stracotta. La cena era alle sette. Latte, pane e poco altro, così tutti i giorni domeniche comprese. Qualche volta un giro in bicicletta "ma ormai so tropo vecio e il traffico xe aumentà". Sembrava, in questa ascetica quotidianità, che proseguisse la vita di recluso che per troppi anni era stato costretto a seguire. Le regole questa volta erano dettate da una malattia incurabile e sotterranea che non concedeva deroghe. Qualsiasi trasgressione avrebbe bloccato l’intestino e le vie urinarie. Giorni e notti di sofferenze atroci, che spesso si risolvevano con ricoveri urgenti "ma non passano per molto, non posso prendere nessuna medicina. È una conseguenza del carcere, del confino, delle aggressioni fasciste", sospirava. "Non devo assolutamente arrabbiarmi". E mentre diceva questo gli era passata negli occhi una luce, un lampo che riconobbi ancora e che rompeva la mitezza del suo sguardo, perché Luciano si arrabbiava, eccome. L’ira lo sopraffaceva in un crescendo incontrollato. C’era in particolare una parola che faceva scattare la molla dell’ira e questa parola non era, come ci si sarebbe potuto aspettare legata alle persecuzioni, alle sue sofferenze. Questa parola era "comunisti". "Non sono comunisti – correggeva immediatamente – il comunismo è un ideale altissimo, Malatesta era un comunista, loro sono bolscevichi – e nel dire questo cominciava ad agitarsi -, la peggior razza. Quanti morti hanno fatto in Russia e in Spagna, quanti compagni hanno ammazzato? Lo sai che nel ’54 un dirigente della CGIL mi ha detto che dopo la presa del potere, perché loro sognano sempre la presa del potere, sarò il primo a Mestre a essere fatto fuori? E perché? Perché dico quello che penso e loro quei farabutti non possono accettarlo. Servi di Mosca. Assassini". E calmarlo non era facile. Di solito interveniva Teresa con calma, piano piano. L’ultimo contatto "ufficiale" che Luciano aveva avuto con il movimento anarchico fu nel ’62. Quella volta a scatenare l’ira fu un articolo di Borghi su Umanità Nova in difesa di Cuba. "Giù le mani da Cuba, el gaveva scritto. Ma se quei xe assassini, liberticidi come se pol difenderli? Go scritto una lettera a Borghi e a Marzocchi e fine".
Con il tempo imparai a non contraddirlo, ad assecondarlo e come lui aveva fatto con la sua malattia anch’io accettai quelle regole che con Luciano non ammettevano deroghe. Mi regalò quello stesso giorno della mia prima visita dei libri, gli unici che gli erano rimasti. I libri Luciano li regalava volentieri "perché tutti devono conoscere l’ideale anarchico". Peccato, pensai. I libri erano merce rara, particolarmente le vecchie edizioni. Mi regalò, me lo ricordo ancora La grande rivoluzione di Kropotkin, Ginevra 1911 e Memorie di un rivoluzionario, ed. La sociale 1922, sempre di Kropotkin. Niente male!
Come quasi tutti i vecchi anche Luciano parlava volentieri della sua vita. A volte in maniera coerente e piana, a volte a salti. Venne così l’idea di un’intervista per mettere ordine a tutti quegli avvenimenti che ormai conoscevo ma in maniera frammentata. Un’intervista che probabilmente sarebbe rimasta rinchiusa nel nastro e destinata a dissolversi se Piero Brunello non avesse avuto la costanza, la volontà e la capacità di occuparsene in prima persona. Di questo lo ringrazio. Poco più di un ragazzo "il più giovane confinato a Lipari" ricordava, aveva maturato le idee libertarie nelle lunghe conversazioni di quelle interminabili giornate al confino con gli anarchici reclusi. Era un ribelle per natura e un antimilitarista ma anche, e questo a dispetto delle cose che aveva organizzato e fatto, un individualista. Dai suoi racconti emerge la figura di un uomo solo, un amico, incontri all’osteria ma mai un gruppo, un lavoro collettivo. Solo era nelle aggressioni subite, in ospedale, nell’aula di tribunale. Su una cosa contava Luciano, sulle sue gambe. Era un velocista. "Cento metri in undici secondi, superavo senza allenamento il record italiano e questo mi ha salvato la vita tante volte", ricordava spesso. "I fascisti non facevano in tempo a estrarre la pistola che io ero già lontano".
L’immagine di Luciano Visentin in fuga era diventata ai miei occhi la metafora della sua vita condizionando il mio giudizio generale e sottovalutando le sue anche pur importanti esperienze. Sicuramente aveva contribuito a questa valutazione anche la palese esagerazione da parte di Luciano di alcuni avvenimenti e la totale mancanza di riscontri storiografici. In realtà, l’ho capito troppo tardi, era vero il contrario. Era la mancanza di un riconoscimento storico "ufficiale" che spingeva Luciano a enfatizzare i fatti. Particolarmente mi rammarico di non aver dato molto credito ai racconti sulla organizzazione degli Arditi del popolo a Mestre e in generale della lotta dell’antifascismo nascente. Luciano era forse l’unico in grado di ricostruire la storia di fenomeno che meritava certamente la massima attenzione. "Solo a Parma e a Mestre c’è stata una risposta radicale all’insorgere del fascismo", ripeteva spesso. Ma io non ci avevo creduto. Nonostante questo scetticismo di fondo quando negli anni settanta si formò il gruppo anarchico a Dolo insistetti perché si chiamasse "Romeo Semenzato", dal giovane anarchico del "gruppo" di Visentin ucciso dai fascisti durante una manifestazione e ricordato come Ardito del popolo dalla locale sezione del PCI nel 1946, con una lapide posta a fianco del ponte del Vaso a Dolo.
Ancora oggi, a distanza di molti anni, il ricordo che ho di Luciano Visentin si sovrappone all’immagine di un ragazzo che corre veloce per sfuggire all’agguato dei fascisti, ma anche a un mondo in cui non si è mai riconosciuto. È stato un uomo che ha fatto scelte forti e coraggiose ma le conseguenze che ha dovuto patire sono andate oltre ogni sua possibile resistenza. Imprimendogli un marchio che non si poteva cancellare, il regime fascista aveva condannato Visentin non solo al confino, alla galera, ma a essere perseguitato sempre e in ogni luogo. A non avere un lavoro, amicizie, rapporti sociali, a non poter vivere e questo indipendentemente da ogni considerazione o comportamento. Luciano non ha mai ammesso quel saluto fascista al confino né quelle lettere di supplica al regime. Non poteva farlo, non avrei capito. Ma questo silenzio, questo segreto svelato a distanza di molti anni dalla ricerca di Piero Brunello è ancora uno spregio che il fascismo gli fa. È anche ciò che oggi mi unisce a lui come uomo in carne e ossa con tutti i suoi difetti e i suoi eroismi e me lo fa ricordare con nostalgia e affetto. Luciano al tempo di questa "resa" ha circa 40 anni. È stanco e malato. Ha malattie gravi e dolorose e solo dopo mille umiliazioni riesce ad avere il latte per "curarsi". Ha passato metà della sua vita al confino o in carcere. Vorrebbe andarsene. Ha trovato l’amore, un amore di confinato. Sogna una famiglia, un lavoro, una vita normale. Sogni impossibili per lui. Le sue gambe così veloci non possono più aiutarlo. Si arrende. Alza le braccia, ma non c’è rispetto per chi come lui è stato marchiato. Forse Luciano non sapeva che non poteva arrendersi.
Marghera, estate 2005