di Piero Brunello
Pubblichiamo il testo dell’intervento di Piero Brunello alla presentazione del libro La musica folk. Storie, protagonisti e documenti del revival in Italia (2016), curato da Goffredo Plastino, che si è tenuta presso il dipartimento di studi umanistici dell’Università Ca’ Foscari di Venezia il 28 marzo 2017.
Il libro curato da Goffredo Plastino1 raccoglie una mole poderosa di documenti e discussioni relative al folk revival in Italia dagli anni Sessanta del Novecento a oggi: una raccolta di scritti spesso di difficile reperimento, utilissimo repertorio per ricostruire un fenomeno. In un’intervista del 1971 Caterina Bueno preferiva parlare di “canzone popolare” e non di folk (p. 627), e così si diceva comunemente. Plastino parla invece di folk per non confonderlo con il popular (pop): Mamma mia dammi cento lire è folk, Lucio Battisti è popular (pop). Mi atterrò anch’io a questo lessico, e provo a elencare alcune questioni che mi sono sorte leggendo i documenti raccolti nel volume, limitandomi agli anni Sessanta-Settanta del Novecento.
1. La moda del folk revival ha origine negli Stati Uniti. I nomi più conosciuti: Woody Guthrie, Bob Dylan, Joan Baez. Dagli Stati Uniti il fenomeno arriva anche in Italia a partire dalla fine degli anni Cinquanta. Non che non ci fossero radici nazionali, basti pensare agli studi di Ernesto de Martino. Ma il fenomeno divenne di massa su influsso del folk revival americano. Ci furono adattamenti al contesto culturale italiano?
È nota la scena in cui Alberto Sordi cerca inutilmente di mettere insieme spaghetti e melassa, nel film Un americano a Roma del 1954. La scena è un buon esempio della “mescolanza di attrazione e di repulsione” nei confronti della cultura americana dei primi anni Cinquanta di cui ha parlato Alessandro Portelli, studioso di cultura nordamericana oltre che protagonista del folk revival italiano. La Coca Cola era simbolo tentatore delle lusinghe del consumismo – di qui l’attrazione –, e contemporaneamente la bomba atomica minacciava la fine dell’umanità – di qui il senso di minaccia e la paura. Il folk revival cominciò a diffondersi in Italia mentre “la Coca Cola tornava in secondo piano, ed erano di nuovo alla ribalta le immagini dell’America come immagine di guerra”2. In altre parole Bob Dylan e Joan Baez vennero accettati perché conciliavano la lusinga del sogno americano con la protesta contro la bomba atomica, mettendo assieme l’attrazione e la ripulsa che nella scena di Alberto Sordi restavano separate e in contrasto.
Ricercatori di musica popolare italiana erano contemporaneamente cultori della musica e della letteratura americana: non solo Portelli, ma anche Roberto Leydi, Sandra Mantovani, Bruno Pianta o Moni Ovadia fondatore del Gruppo Folk Internazionale che in un’intervista del 1976 dichiara di avere “una passione americana” per Woody Guthrie e “la musica contadina ed operaia-sindacale degli Usa” (p. 721; non viene detto ma si può dedurre che l’intervistato sia Moni Ovadia). Mentre la generazione del rock and roll poteva sentirsi divisa tra richiamo e rifiuto nei confronti della cultura americana, la generazione del folk revival trovò un modo per riconciliarsi con l’America e allo stesso tempo rifiutarne le immagini di guerra, d’imperialismo e di modernizzazione tecnologica e consumistica. Erano gli anni della protesta contro la guerra americana in Vietnam.
2. La musica ha la capacità di costituire delle comunità non territoriali (Marcello Sorce Keller, Piccola filosofia del revival, p. 84). Il popolo del tango, per fare un solo esempio, va al di là dei confini nazionali. E il folk revival in Italia? Partecipa della comunità non territoriale del folk, però ha una forte e specifica dimensione nazionale. Roberto Leydi lo notò nel 1963 quando parlò dell’impegno “di molti per riannodare il filo spezzato della tradizione nazionale”, e auspicò una “storia d’Italia attraverso le canzoni” (p. 111), cosa che del resto stava realizzando proprio allora3, e che parecchi di noi avrebbero fatto molti anni dopo.
L’affermazione va precisata: la dimensione è sì nazionale, nel senso che riconosce un’unità di fondo nei moduli musicali e testuali, oltre che un soggetto storico (il proletariato italiano), ma individua ambiti regionali ben distinti. Nascono così il Canzoniere popolare veneto e il Canzoniere del Lazio; Ciccio Busacca e Rosa Balistreri furono i più noti cantastorie siciliani, Caterina Bueno l’interprete dei canti toscani, Lucilla Galeazzi cominciò con i canti della Valnerina e dell’Umbria (conversazione con Lucilla Galeazzi, 2012, pp. 929-947), la musica sarda ha sempre mantenuto la propria specificità regionale, il gruppo Re Niliu di cui fa parte Plastino si definisce in un disco del 1984 “Canzoniere popolare calabrese”. A volte le aree folcloriche sono subregionali, per esempio la Notte della taranta in Salento e il Canzoniere Greganico Salentino (pp. 748-754). Probabilmente c’è alle spalle la tradizione di studi folclorici che vanno dalle raccolte dell’Ottocento al folclorismo del movimento Strapaese nel periodo fascista. Tuttavia sono le Regioni, che vennero istituite nel 1970, a contribuire alla regionalizzazione della ricerca, a far coincidere ambiti folclorici con confini regionali. Penso per esempio alla collana Mondo popolare in Lombardia, a cui collaborarono fior fiore di studiosi. Gli spazi regionali possono poi fondersi con aree folcloriche più ampie, perlopiù retaggio degli Stati preunitari, per cui Otello Profazio esegue canti meridionali (calabresi e siciliani, pp. 635-637, un po’ come per altri generi Domenico Modugno e Renzo Arbore), e la canzone Riturnella è un simbolo calabrese ma, cantata da Eugenio Bennato, diventa simbolo del Sud (pp. 1159-1169). Plastino ricorda che per un appassionato di musica popolare come lui, che abitava a Catanzaro, “il centro della popular music in quegli anni era Napoli” (p. 819).
Noto a margine (non è di questo che vorrei parlare) che il folk revival segue una sorta di nazionalismo metodologico, colloca cioè i fenomeni all’interno di aree folcloriche che alla fine rinviano alla storia nazionale. Ma è così? La musica di Bella ciao, per quanto si sa, viene dal mondo yiddish dell’Europa dell’Est ed emigra negli Stati Uniti agli inizi del Novecento, mentre il testo è quello di una canzone popolare italiana di cui si conoscono molte varianti già nell’Ottocento4. Si tratta di un caso unico? No, lo dimostra l’origine russa di molti canti della Resistenza. Non converrebbe allora adottare una prospettiva di studi transnazionale (che non esclude naturalmente prestiti, adattamenti e rifiuti)? Penso alla barcarola che per molto tempo è stato simbolo della canzone popolare veneziana, benché il genere fosse presente ovunque in Europa (Rossini l’ambienta in Scozia e in Svizzera): la prima raccolta di canzoni da battello veneziane venne edita a metà Settecento a Londra, col tempo vi confluirono elementi colti e popolari e prestiti dagli ambienti i più diversi e i più lontani (Antonio Lamberti autore de La biondina in gondoleta tradusse in veneziano versi siciliani di Giovanni Mieli), molti grandi musicisti da Beethoven a Liszt composero o armonizzarono barcarole contribuendo al colore musicale considerato tipico veneziano, e così via come si può imparare da una ormai ricca letteratura a proposito5.
3. Mi soffermo ora sulla riscoperta e sulla diffusione del canto sociale, sempre rimanendo negli anni Sessanta e Settanta. Il volume documenta il grande impegno di ricerca e di esecuzione che si ebbe allora in Italia. Che cosa lega quelle esperienze? L’idea che le classi subalterne esprimono valori alternativi alla cultura egemone: una rilettura di Gramsci, in sostanza. Si parlava di “espressività popolare” e di “valori autonomi della cultura della classe e il carattere non subordinato ma antagonistico della civiltà popolare e proletaria” (Gianni Bosio e Roberto Leydi, 1965, p. 115), di “cultura alternativa” (Cesare Bermani e Dario Fo, 1966, p. 197), di “autonomia creatrice delle classi subalterne” (Portelli 1973, p. 31).
E in che cosa consiste l’autonomia espressiva della classi subalterne italiane? Per prima cosa nell’emissione della voce, nel modo di cantare, nella vocalità; e in secondo luogo nella visione del mondo. Non sempre queste due cose piacciono alle stesse persone. Giovanna Marini, per esempio racconta di essere stata invitata da Portelli a casa sua. Giovanna Marini arriva e Portelli le fa sentire venti pezzi musicalmente tutti uguali (si trattava del Piave mormorava), ma con parole diverse. Portelli era estasiato perché per lui era importante “sentire come i contadini avevano messo parole di contadini dentro alla musica”. Giovanna Marini non lo capiva: a lei interessava il materiale musicale o il modo di cantare (p. 987). Perché a Giovanna Marini piacevano le mondine? Per un gusto che direi esotico, come spiega lei stessa: “Io ero amica delle mondine, mi piacevano tanto e poi cantavano veramente bene con queste terze spietate; in più rovesciavano l’immagine della musica che abbiamo noi classici per cui la prima voce è la prima voce e si deve sentire di più: tra le mondine invece una canta la prima voce, e tutte le altre, come truppe cammellate, fanno la terza sotto che sommerge completamente la prima voce” (p. 989). Tra parentesi a casa mia dove si cantava spesso dopo i pranzi in famiglia – zie filandiere – era il modo comune di cantare: non solo non sembrava particolare ma sembrava l’unico modo possibile di cantare in coro.
4. Il folk revival ha una forte propensione prescrittiva, in primo luogo per quanto riguarda la vocalità: nasce dal rifiuto del modo di cantare lirico e canzonettistico, che si suppone abbia corrotto l’autentico modo di cantare popolare per motivi commerciali e legati all’industria musicale, e si propone di ripristinare l’emissione della voce tipica dei canti popolari (per cui Caterina Bueno sì, Milva ni, Anna Identici e Orietta Berti no). Silvia Malagugini e Cati Mattea, che parteciparono al festival di Spoleto del 1964 (l’edizione rimasta famosa per l’esecuzione di Gorizia), ricordano nel 2015 quanto fosse impegnativo imparare a cantare come il popolo vero: “Molti tra noi avevano problemi di voce, perché cercare l’emissione popolare era molto faticoso e il risultato spesso problematico (il nostro canto era tutto ‘di gola’). E allora facevamo i suffumigi con l’acqua bollente e il bicarbonato con l’asciugamano sulla testa, Sandra [Mantovani] e Maria Teresa [Bulciolu] e noi. Oppure le iniezioni di stricnina, che detto così sembra illegale, ma in realtà servono proprio per la raucedine” (pp. 523-524).
In secondo luogo, tra le numerose varianti di una canzone il folk revival si propone di restaurare quella genuina, un po’ come nell’Ottocento s’interveniva non per ripristinare un edificio medievale com’era ma per rifarlo secondo i canoni di un gotico ideale. Del resto anche il folk revival degli anni Quaranta dell’Ottocento (Niccolò Tommaseo e Angelo Dalmedico per ricordare i nomi più noti) cancellava le espressioni sconvenienti. Come ha mostrato Alessandro Portelli in una relazione al convegno Tu sei maledetta. Uomini e donne contro la guerra: Italia, 1914-1918 tenutosi a Venezia nel settembre 2014, le varianti conosciute di Gorizia sono numerose. Una la raccolse lui stesso, quella in cui “campo d’onore” diventa “campo dolore”: ma in quella variante manca la strofa “Traditori signori ufficiali” che invece c’è in quella cantata da Michele Straniero a Spoleto nel 1964 e che poi fu fatta conoscere dai Dischi del sole tanto da diventare per così dire standard.
In terzo luogo la propensione normativa si attua nella scelta degli strumenti musicali: chitarra acustica e nient’altro (influsso del folk revival nordamericano?). Lentamente alla chitarra si aggiunge il violino (Giovanna Daffini e il marito Vittorio Carpi suonatori popolari prima di essere scoperti dal folk revival), viene accolta la fisarmonica (Gualtiero Bertelli), e solo più tardi si aggiungono tamburelli, fiati e percussioni tra richiami alla tarantella e alla musica irlandese (anche qui in un mix di riscoperta e d’invenzione).
5. La moda della canzone sociale negli anni Sessanta e Settanta e del folk revival più in generale coincide con il periodo delle lotte operaie e studentesche, o se si preferisce, con il periodo in cui il proletariato e la cultura proletaria erano di moda. Dopo un ventennio di fervore, nel 1980 Roberto Leydi registra la “Sparizione quasi completa del folk revival” (p. 473), e in un articolo dell’agosto 1982 esprime “imbarazzo” ad andare ad ascoltare i folk singers che definisce “avanzi di un tempo finito” (p. 480). Plastino vuole dimostrare al contrario con questa antologia che il folk revival è continuato nei decenni successivi fino a oggi.
Tuttavia io credo, anche per memoria personale, che Leydi cogliesse giustamente la fine di un’esperienza, che oggi possiamo vedere come una cesura storica: il folk revival è continuato anche dopo, come ovviamente continua e si trasforma il folclore, ma un conto è partecipare a un concerto come forma di militanza in nome del proletariato e per rispondere a scadenze politiche, un conto è andarci per un retrogusto di radici regionali o celtiche.
6. Le spiegazioni sul perché sia finita la moda del folk revival – di quello specifico fenomeno italiano di folk revival – possono far capire anche i motivi della sua durata nel tempo e la funzione sociale che ha avuto. Avanzo qui delle ipotesi che non mi sembrano discusse e che invece credo lo meritino, anche perché servono a spiegare trasformazioni sociali più ampie e non solo nei gusti musicali.
a. La prima ipotesi di spiegazione parte dall’idea che la riscoperta del patrimonio espressivo delle classi popolari italiane sia un elemento della presa di coscienza con cui si forma il proletariato in Italia negli anni della grande trasformazione del Paese, secondo un’indicazione che E.P. Thompson ha sviluppato per l’Inghilterra del Settecento. Questo era senz’altro il modo in cui il folk revival venne vissuto dai protagonisti, e spiega l’abnegazione di chi faceva ricerca o eseguiva i canti. Quando nel 1975 Ivan Della Mea scrive che il folclore testimonia “che il mondo popolare e proletario è matrice giorno per giorno di nuova cultura” (p. 707), sta esprimendo una coscienza diffusa. Ma mentre E.P. Thompson guarda a come la classe operaia si auto-organizza, più per un senso di dignità che per un motivo economico, il movimento operaio in Italia, secondo la tradizione maggioritaria del movimento operaio europeo, pensa che la società si possa cambiare cambiando il governo. Come aveva indicato Gramsci (stando almeno all’interpretazione del Partito comunista italiano) le classi subalterne hanno un compito nazionale: emarginate dal processo di unificazione, dovranno esercitare un’egemonia culturale e diventare classe egemone, dovranno prepararsi cioè a governare. Questa prospettiva prende forma negli anni Sessanta e viene meno attorno al 1980 con l’uccisione di Aldo Moro: e con questa possibilità si spegne anche la colonna sonora del cambiamento.
b. Una seconda ipotesi di spiegazione riflette sui meccanismi con cui si formano e cambiano le mode. Si dice che la cosiddetta marcia dei quarantamila a Torino nell’ottobre 1980 abbia rappresentato la fine di un ciclo di lotte operaie, con la presa di distanza dei “colletti bianchi” nei confronti del “colletti blu”. Chi s’interessa al fenomeno della moda spiega che le classi alte segnano un confine verso il basso (anche di poco) quando sentono che la loro posizione sociale viene minacciata: che sia questo il motivo per cui finì la moda del canto sociale? È possibile cioè che la classe media, abbandonando il folk, abbia voluto segnare una distanza nei confronti un proletariato che si era fatto vicino nei gusti e negli stili di vita? Che quello che prima poteva sembrare esotico avesse perso cioè il suo fascino? Servirebbero ricerche sociologiche più che storico-culturali, distinguendo all’interno del folk revival diverse componenti con diverse traiettorie esistenziali che a un certo punto si dividono.
c. La terza ipotesi suggerisce il fatto che ci sia stato uno scarto tra i processi sociali e il modo in cui furono vissuti soggettivamente. Il canto sociale e il repertorio folk sono stati la colonna sonora delle generazioni, soprattutto giovani, che hanno vissuto le grandi trasformazioni da un’Italia contadina del sottoconsumo e della frugalità a un’Italia industriale e terziaria del consumismo e del superfluo. E di che cosa parlavano questi canti? “Son nostre figlie le prostitute / che muoion tisiche nell’ospedal”, oppure “Siamo gli scarriolanti larilerà”, o ancora “E nelle stalle più non vogliam morir”. In altre parole l’Italia del benessere cantò il repertorio di una società povera, pellagrosa, migrante, contadina. Lo poteva fare non perché guardasse al passato, ma proprio perché sentiva che quel passato era definitivamente alle spalle e che il futuro sarebbe stato senz’altro migliore. Anche all’interno del movimento del folk revival c’erano canzoni che parlavano della società uscita dal miracolo economico: i testi e le musiche di Cantacronache per esempio raccontavano la vita quotidiana con un’aria disillusa e graffiante alla Bianciardi, e Nina di Gualtiero Bertelli rappresentò un capitolo insostituibile dell’educazione sentimentale di almeno una generazione. Ma erano eccezioni. A mia memoria la prima canzone che ho fatto caso parlasse di supermercati (e di surgelati) furono “In un grande magazzino una volta al mese / spingere un carrello pieno sotto braccio a te”, di Mogol-Battisti: siamo nel 1978, al termine del folk revival che stiamo esaminando.
Edgard Morin ha mostrato come la modernizzazione di un paese bretone negli anni Sessanta – bagno in casa, piastrelle ed elettrodomestici – si sia accompagnato al recupero in chiave estetica del passato contadino (dolci tradizionali, oggetti vecchi per arredare, finto rustico). Lo stesso avvenne in Italia. Anni fa, Vitaliano Freguglia osservò che “travi a vista, mobilia in arte-povera tutta-in-noce-massello, specie le fodere dei frighi, la saltuaria assunzione di roba unta col contorno di polenta abbrustolita” erano un rito di contrizione per “consumi definitivamente modernizzati”6.
Un ruolo decisivo in tutto ciò l’ebbe il cattolicesimo, che mitizza la società rurale e condanna la modernizzazione degli stili di vita. Ne è un buon esempio Carosello che ha più o meno la durata del folk revival: iniziò nel 1957 e finì nel 1977. Le scenette di Carosello nascondono il prodotto che stanno reclamizzando: parlano d’altro, salvo ricordare il nome del prodotto solo alla fine, tant’è vero che chi ha una certa età ricorda battute e ritornelli ma non sempre la marca del caffè o del detersivo.
Quindi la grande classe media che si forma in Italia a partire dagli anni del boom canta le canzoni delle mondine allo stesso modo con cui guarda Carosello: e la funzione di Carosello, come abbiamo visto, è quella di nascondere la modernità dei consumi che in realtà sta promuovendo. Si dovrebbe capire allora come una o più generazioni (e una società) abbiano elaborato l’esperienza di un rapido benessere, in altre parole quale educazione sentimentale abbia accompagnato l’affacciarsi del consumismo in Italia.
7. Per concludere voglio ringraziare Goffredo Plastino per aver realizzato questa ricca antologia che consente una discussione sul fenomeno del folk revival e più in generale sulla società italiana (repertorio ancora più utile se ci fosse stato un indice dei nomi e dei titoli delle canzoni). Vorrei inoltre esprimere gratitudine a tutti quanti hanno contributo a riscoprire e a far conoscere il patrimonio della canzone popolare in Italia, portando alla luce i sentimenti e l’espressività delle classi lavoratrici urbane e contadine, oltre che dei marginali: è grazie a loro se oggi pensiamo al controcanto ogniqualvolta i libri di storia ci somministrano il canto ufficiale.
- La musica folk. Storie, protagonisti e documenti del revival in Italia, a cura di Goffredo Plastino, il Saggiatore, Milano 2016, pp. 1279, € 49; le indicazioni di saggi e di pagine inserite nel testo si riferiscono ovviamente a questo volume. [↩]
- Alessandro Portelli, L’orsacchiotto e la tigre di carta. Il rock and roll arriva in Italia, “Quaderni storici”, 58, 1985, pp. 135-147. [↩]
- Cfr. Canti sociali italiani. I. Canti giacobini, repubblicani, antirisorgimentali, di protesta postunitaria, contro la guerra e il servizio militare, Edizioni Avanti!, Milano 1963. [↩]
- Su questo rimando a Marco Toscano, È questo il canto del partigiano?! Storia e storie di “Bella ciao”, online, storiamestre.it, 24 aprile 2010. [↩]
- Cfr. Barcarola. Il canto del gondoliere nella vita quotidiana e nell’immaginazione artistica, a cura di Sabine Meine con la collaborazione di Henrique Rost, Viella-Centro Tedesco di Studi Veneziani, Roma-Venezia 2015. [↩]
- Vitaliano Freguglia, Dopo il terzo numero, “altrochemestre”, 4, 1996, pp. 48-49, disponibile online. [↩]
Massimo Semenzato dice
Nel merito di produzione, trasmissione e trasformazione dei repertori del canto e della musica popolare italiana (e non solo), mi permetto di segnalare, non fosse noto, un saggio, spregiudicato ed eterodosso, di Bruno Pianta, Per il mondo me ne andai…Le radici di una poetica operaia, in Guido Bertolotti, a cura di, Minatori, fabbri e operai nella ricerca sul campo e negli archivi, Squilibri, Roma 2014, pp. 81-161.