di Filippo Benfante
Nel suo «Storie di anarchici e di spie», Piero Brunello compara rapidamente l’organizzazione e i modi di operare delle polizie italiana e svizzera negli anni Settanta dell’Ottocento. In conclusione, sottolinea l’assai minore brutalità e invasività del controllo in Svizzera rispetto a quanto accadeva in Italia negli stessi anni. Questo si doveva anche a una diversa concezione dei rapporti tra istituzioni e cittadini (o sudditi) nei due Paesi: «Del resto, ci sarà pure un motivo se gli anarchici italiani scelgono in questi anni la Svizzera come terra d’esilio». Partendo da queste considerazioni, Filippo Benfante presenta due punti di vista sulla polizia svizzera nei primi anni 1870, tratti dai ricordi di due comunardi francesi in esilio, pubblicati qualche anno fa dallo studioso Marc Vuilleumier.
Due militanti delle rivoluzioni del XIX secolo
Gustave Lefrançais (Lefrançois alla nascita; 1826-1901) e Arthur Arnould (1833-1895) sono due francesi che nel 1871 parteciparono alla Comune di Parigi. Sfuggiti per un pelo alla repressione, gli ultimi giorni del maggio 1871, entrambi trovano rifugio in Svizzera1.
Sette anni di differenza possono fare una generazione. Di origine provinciale, arrivato a Parigi per i suoi studi negli anni Quaranta dell’Ottocento, Lefrançais ha modo di partecipare, sia pure in posizione un po’ defilata e non sulle barricate di giugno, alla rivoluzione parigina del 1848. Si era formato come istitutore, riuscendo a entrare nell’apposita École normale, a Versailles; malgrado i buoni risultati, ne era uscito senza trovare un posto: le sue idee, manifestate senza prudenza, lo avevano reso un elemento sospetto e poco gradito. Nel 1849 fonda l’Association fraternelle des Instituteurs, Institutrices et Professeurs socialistes insieme, tra gli altri, a una protagonista del primo femminismo francese: Pauline Roland (1805-1852). Il colpo di stato di Luigi Bonaparte, alla fine del 1851, lo costringe al suo primo esilio. Rientrato in Francia nel 1853, rimane negli ambienti dell’opposizione antibonapartista, che può rendersi visibile, in seguito a nuove leggi sulla stampa, soprattutto a partire dal 1868. Tutte queste esperienze Lefrançais le avrebbe poi raccontate in una serie di feuilleton apparsi sul Cri du Peuple – giornale fondato da Jules Vallès – dal 6 novembre 1886 al 30 luglio 18872.
Di recente, Innocenzo Cervelli ha riproposto la figura di Lefrançais al pubblico italiano, in un articolo (Un comunista "libero". Nota su Gustave Lefrançais, “Studi Storici”, 2008, 3, pp. 561-665) ricco di notizie, di spunti, di passione e precisione filologica, di consigli per buone letture. Non discuto qui la lunga riflessione di Cervelli sulle strade e tradizioni divergenti che si definiscono nel movimento operaio tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta (e su una tradizione francese comunalista che risale alla prima metà del secolo XIX). Ma ricordo la questione di fondo che muove l’autore. Il programma politico di Lefrançais, spiega Cervelli, era "essenziale nel senso letterale del termine: riduzione fino alla totale soppressione dell’’autorité gouvernamentale’, oppressiva sempre, ‘quels qu’en soient la forme et le nom’; restituzione a tutti dei frutti del loro lavoro; ‘faire de tous les membres de l’humanité des êtres réellement libres et égaux, sans distinction de sexe, de race et de religion»; diritto per chiunque allo sviluppo completo delle proprie ‘facultés mentales et physiques’".
Quindi Cervelli conclude: "Erano punti che valevano perciò come prerequisiti della politica, della quale finivano con il costituire la bussola orientativa, naturalmente sensibile ai mutamenti sociali ma da questi, in quanto bussola, non modificabile. A partire di qui, allora, non può essere che il comunalismo di Lefrançais, fondato sull’esperienza della Comune e tramandando quella che per lui ne era stata l’essenza, non abbia in sé qualcosa su cui riflettere ancora oggi?" (pp. 654-656).
Arthur Arnould, pure lui un provinciale "salito" a Parigi, ma solo dopo le rivoluzioni del 1848, comincia a farsi notare nel mondo del giornalismo negli anni Sessanta dell’Ottocento, collaborando prima a riviste e poi a giornali considerati di opposizione. In qualche redazione, deve fare conoscenza anche di Lefrançais che in seguito, in uno dei suoi feuilleton, l’avrebbe ritratto così: "[Arnould è] un giornalista di talento, ben noto ai lettori della Marseillaise, verso la fine dell’Impero. Poco entusiasta, persino un po’ scettico ma di grande lealtà, in lui l’eclettismo in materia di socialismo è pura pigrizia di spirito. Preferisce accomodarsene che non approfondire le sue idee in proposito. Eppure quando decide di darsi un po’ da fare, sa ben penetrare, e in profondità. È entrato nella rivoluzione soprattutto per odio verso la stupidità e la canaglieria dei suoi avversari. Preferirebbe volentieri la letteratura alla politica, ma capisce che ci sono delle circostanze in cui si deve sacrificare tutto al dovere".3
Tra i molti amici e conoscenti che ebbero in comune, c’è Jules Vallès, che fu legato soprattutto ad Arnould4. Vallès li ha immortalati entrambi nei suoi romanzi autobiografici: Arnould nel Bachelier e Lefrançais nell’Insurgé, in un paio di pagine in cui tramanda il carattere severo e appassionato di Lefrançais – "C’est la bile du peuple"5.
Sia Lefrançais che Arnould hanno scritto "a caldo", nell’esilio svizzero, delle storie della Comune, tra memoria e riflessione: il primo l’Etude sur le mouvement communaliste à Paris en 1871 (pubblicato a Neuchâtel nel 1871); il secondo l’Histoire populaire et parlementaire de la Commune de Paris di Arnould (pubblicata solo nel 1877 a Bruxelles). I testi, a cui attingono regolarmente gli storici della Comune, si possono leggere e scaricare attraverso il catalogo della BNF di Parigi (non si tratta tuttavia delle edizioni originali).
In una biblioteca che mette a disposizione dei repertori biografici, si fa presto a trovare altre notizie su questi due personaggi: si può cominciare dal Dictionnaire biographique du mouvement ouvrier français, noto come «il Maitron», che ha il vantaggio di offrire bibliografia e fonti (sezione 1864-1871 La première Internationale et la Commune , tome IV per Arnould, tome VII per Lefrançois/Lefrançais; da qualche anno, ne esiste anche una comoda edizione in cd-rom, che in qualche biblioteca si trova); oppure dal Dictionnaire de la Commune di Bernard Noël (édition augmentée, Flammarion, Paris 1978; senza bibliografia e fonti, per le voci biografiche riprende largamente il Maitron). Ai tempi di internet, anche lontani da una buona biblioteca, è facile trovare notizie sui nostri due e su tutti gli altri personaggi che ho potuto citare solo di sfuggita. Si può cominciare dalle rispettive voci della wikipedia francese per passare poi a siti «militanti» o a quelli di taglio «accademico» e «scientifico». Chi è curioso di genealogie culturali e di formazione di una cultura politica, vedrà che le vicende di Arnould e di Lefrançais offrono molti spunti interessanti.
I due ritratti qui riprodotti risalgono al 1871 e sono tratti dal sito: http://www.library.northwestern.edu/spec/siege/index.html, che offre una ricca collezione digitale di fotografie e immagini raccolte, in gran parte ma non solo, durante l’assedio e la Comune di Parigi.
Ricordi dalla Svizzera
Sia Lefrançais che Arnould hanno lasciato dei ricordi sui primi anni di esilio che trascorsero in Svizzera, tra Ginevra e Losanna il primo, sempre a Ginevra il secondo. Sono due testi poco noti che, nel 1987, lo studioso svizzero Marc Vuilleumier ha recuperato e riunito nel volume Gustave Lefrançais, Arthur Arnould, Souvenirs de deux Communard réfugiés à Genève 1871-1873, présentation par Marc Vuilleumier, Edition Collège du Travail, Genève 1987.
All’epoca, i ricordi di Lefrançais erano ancora inediti: concepiti come il seguito dei suoi Souvenirs d’un révolutionnaire, rimasero incompiuti. Alla sua morte il manoscritto passò al suo giovane amico Lucien Descaves e quindi, insieme a tutto l’archivio di Descaves, all’Internationaal Instituut voor Sociale Geschiedenis (IISH) di Amsterdam.
I ricordi di Arnould erano invece apparsi in feuilleton sul quotidiano Rappel nel 1874, dal 25 agosto al 22 ottobre. Vuilleumier ne ha selezionati solo alcuni 6.
La presentazione dei due testi si caratterizza per un tono militante: il curatore è preoccupato per la direzione che avevano preso, nel 1987, le leggi e l’opinione pubblica in tema di immigrazione e di asilo politico in Svizzera. Di fronte all’irrigidimento dei controlli e alla restrizione di diritti, l’intenzione di Vuilleumier era di tenere viva una tradizione che ha fatto onore al suo Paese. I testi che sceglie dimostrano d’altra parte il garbo e l’equilibrio con cui si confronta con questa tradizione: se Arnould, come si vedrà, è incantato dall’atmosfera di libertà che respira a Ginevra, Lefrançais – che dopo i primi mesi passati a Ginevra, trascorre gran parte del biennio 1872-1873 a Losanna –, è molto più astioso e critico.
È il momento di passare la parola ai nostri due.
Filippo Benfante
Gustave Lefrançais: Ginevra non ama affatto i comunardi, Losanna li detesta*
Malgrado le sue tradizioni di ospitalità nei confronti dei proscritti politici di ogni paese e di ogni tendenza […], è chiaro che la Svizzera ci riceve solo a malincuore e con riserva. Sembra persino che la prima reazione fosse stata di chiudere le frontiere punto e basta, usando come pretesto l’odiosa circolare di Jules Favre, quel falsario che denuncia i vinti della Comune come «semplici banditi fuori dal consesso umano.
Nessuno straniero in Svizzera può rimanere per più di due mesi nello stesso cantone se non è munito di un permesso di soggiorno, rilasciato dal ministero della polizia, ufficio stranieri. Questa vera fissazione su carta si applica, in ogni cantone, anche agli svizzeri che ne non sono originari, di modo che, fuori dal proprio cantone, ogni svizzero non è altro che uno straniero al cospetto dei suoi confederati. In materia di fisco e di polizia, i discendenti di Guglielmo Tell non hanno proprio ragione di credersi governati in modo più intelligente e più degno degli sventurati francesi. Questi sono affari loro dopo tutto. Ma che i nostri rappresentanti diplomatici non esigano la soppressione di una misura così vessatoria, e onerosa – mentre nulla di simile è imposto, da noi, agli abitanti della libera Elvezia che vengono a frotte e occupano una valanga di impieghi pubblici o di altro genere –, è semplicemente ridicolo. […]
Solo gli inglesi possono sottrarsi, in Svizzera, all’umiliazione del permesso di soggiorno. Per quanto ci riguarda, invece, noi dobbiamo procurarcelo, pena l’espulsione. Tra i documenti obbligatori per ottenerlo, dobbiamo produrre anche il casellario giudiziario. Ovviamente, vista la nostra condizione di rifugiati, l’amministrazione, diversamente che d’abitudine, si è presa il disturbo di reclamarli direttamente7.
Se Ginevra non ama affatto i comunardi, Losanna, da parte sua, li detesta. Eppure non siamo tanti, una trentina appena, e non diamo nessun disturbo nei caffè dove gli abitanti della città passano la maggior parte del loro tempo.
D’altronde, vi è estremamente sviluppato uno spirito poliziesco, con tutte le sue conseguenti e solite scelleratezze. È soprattutto a Losanna che si fa sentire l’influsso inquisitoriale di Calvino, che aveva fatto della mutua delazione una virtù civica e religiosa. La polizia è onnipotente e il suo codice, rivisto il primo gennaio 1859 e contenente niente po’ po’ di meno che 378 articoli, sovrasta tutte le libertà garantite dalla costituzione del cantone e anche quelle della costituzione federale.
È così che può condannare, sommariamente e senza appello, a multa e a ventiquattr’ore di prigione qualsiasi individuo che avrebbe mancato a un agente – è un’espressione che non manca di originalità e non lascia nulla a desiderare in quanto ad arbitrio. Qualsiasi operaio può essere fermato dai poliziotti per controllare se il suo libretto è «in regola». Ma per quale segno esteriore e visibile si nota l’operaio? Per il suo modo di vestire, senza dubbio.
A formale spregio della costituzione federale, che garantisce la libertà di coscienza, questo stesso codice di polizia proibisce qualsiasi lavoro durante gli offici religiosi della domenica e dei giorni di festa: multa per cominciare, prigione in caso di recidiva, per chiunque contravvenga. Le stesse pene sono previste per chi spazza davanti casa propria o va a prendere acqua alle fontane pubbliche.
Ancora a spregio della libertà di commercio garantita dalla costituzione federale, nessun libro, manoscritto, semplice foglio volante autografo, nessuna stampa, immagine o canzone possono essere distribuiti o messi in vendita senza che prima la polizia non l’abbia autorizzato. Ogni libraio che fa un servizio di prestito di libri a pagamento è tenuto a sottoporre alla polizia il suo catalogo di locazione.
Ogni cittadino è tenuto a fare conoscere (in altre parole: a denunciare) alla polizia coloro che vivono in mendicità o si trovano nella condizione di vagabondi. È proibita la vendita ambulante. Persino l’acquisto di legna per riscaldamento è regolata dalla polizia: non si fa dopo le cinque del pomeriggio d’estate, non dopo le tre d’inverno.
Non occorre dire che anche caffè, osterie e qualsiasi altra bottega devono restare chiusi durante gli offici religiosi ogni domenica e giorno di festa – almeno in apparenza. In realtà sono ben aperti… sul retro, per i consumatori che conoscono il sistema. D’altronde tutti lo sanno, e la polizia più di tutti: gli agenti stessi non mancano di andare «a bere un bicchiere» durante le ore proibite. E poiché nulla obbliga gli abitanti del cantone di Vaud a conservare questo regolamento assurdo e anche odioso, si può ben dire che è per pura ipocrisia che lo conservano.
E queste brave persone vi parlano senza sosta della loro morale! «Vedete – mi diceva un giorno un bravo buon cittadino del Vaud – voialtri, in Francia, non siete ancora degni di vivere in una repubblica: non siete abbastanza morali». Davvero bisogna venire in Svizzera per avere orrore della morale. Quando si pensa che ci sono in Francia persone avanzate, come Quinet per esempio, che consigliano al nostro paese di farsi protestante!…
Brrr!
Gustave Lefrançais
La tomba di Gustave Lefrançais al cimitero Père Lachaise di Parigi (foto scattata il 16 maggio 2009)
Arthur Arnould: a Ginevra la pubblica via appartiene ai cittadini**
Un’altra cosa, di tutt’altro genere, colpisce mentre si scende a Ginevra8: una sensazione ben strana per un francese.
Questa cosa è l’assenza di uniformi e di decorazioni, di spade e di piume: niente soldati, niente caserme, niente tamburi, niente polizia – o così poca che non ci si accorge. D’altronde essa si nasconde, si fa piccina piccina. Qui, la pubblica via appartiene ai cittadini, sono loro a comandare, loro sono tutto. Chiunque abbia un brandello di potere, è servitore del popolo, da questi si sente creato, e rispetta le leggi invece di cambiarle secondo i suoi comodi e le sue fantasie, e non crede di essere diventato la provvidenza.
Questa sensazione deliziosa, che rinfresca il viso, allarga il petto, e vi fa pensare di essere più uomo – è la sensazione della libertà. Sembra che un grave peso, soffocante, che vi schiacciava dalla tenera infanzia, sia scomparso […]. È che, in effetti, a Ginevra, dal punto di vista politico, si è liberi, assolutamente liberi. L’operaio, come ovunque, guadagna a stento di che vivere; ma non è avvilito, messo fuori legge, e ha nelle sue mani tutti i mezzi per un prossimo completo affrancamento. Salvo dunque nelle questioni economiche, dove subisce il regime della vecchia organizzazione del lavoro, il popolo di Ginevra non ha quasi altro da desiderare. Gode di tutti i diritti, di tutte le prerogative, di tutte le libertà inerenti la dignità umana. Libertà di stampa assoluta, libertà di opinione assoluta, libertà di riunione assoluta, libertà di voto reale, uguaglianza politica completa: ecco quel che già possiede. Il resto, l’avrà quando lo vorrà, nel momento in cui lo vorrà.
Può riunirsi nelle strade, in numero tanto grande quanto ritiene opportuno, fare le manifestazioni che crede utili, tenere i discorsi che i suoi bisogni o le sue passioni gli dettano. Nessuno vi si opporrà. Il governo prenderà solo una preoccupazione: far sparire dalla pubblica via la mezza dozzina di gendarmi e il pugno di agenti di polizia in uniforme che sono destinati ad arrestare i ladri, a far rispettare il codice della strada, a sedare le risse; infatti, né gendarmi né agenti municipali esercitano sorveglianza politica.
Tutto questo dipende da che la forza, qui, è di fatto nelle mani del popolo. Intendo per popolo l’insieme della nazione. Solo il popolo è armato, l’autorità è disarmata. Quest’ultima non è affatto la forza, è solo l’esecuzione: dà esecuzione alle leggi, ma quando si tratta di mettere mano a uno dei diritti del popolo, a uno dei fondamenti della costituzione, allora non può decidere nulla. L’autorità può solo proporre, il popolo accetta o rifiuta il cambiamento avendone coscienza di causa, perché ha tutti i mezzi per farsi un’idea sulla questione, sempre circoscritta, che gli viene sottoposta: grazie ai giornali, grazie alle riunioni, grazie all’abitudine alla libertà.
La polizia a Ginevra, benché poco appariscente, è molto ben fatta. Non c’è nessun paese dove le persone e le proprietà – per utilizzare la formula consacrata – siano più sicure. Questo deriva senz’altro dal fatto che la polizia si occupa solo di malfattori. E deve essere proprio così, poiché non conosco città che si trovi, sotto questo aspetto, piazzata in condizioni più sfavorevoli. In effetti, osservate questo cantone, guardate com’è piccolo, notate che è tutto di frontiera, che è separato dal resto della Svizzera, la cui prossimità invece gli darebbe forza. Aggiungiamo che: sulle sue frontiere, non conserva nessuna forza armata; qualsiasi individuo può passare senza passaporto; la libertà di cui si gode in questa repubblica vi attira una folla di stranieri; i rifugiati politici dall’Europa intera – francesi, russi, tedeschi, italiani, spagnoli – vi trovano un asilo garantito; d’altra parte, una grande quantità di personaggi corrotti – bancarottieri, falliti, commessi infedeli, ex prefetti dell’Impero – l’attraversano per andare a cercare asilo altrove, poiché qui non c’è diritto d’asilo per i malfattori; molti sventurati, gente che ha perduto la propria posizione, ci vengono a cercar fortuna. Infine, non dimenticate che Ginevra è sempre in preda a una rovente lotta religiosa, fomentata dal clero cattolico. E allora credereste di dovervi vedere, in prima linea, tutti gli elementi di disordine e di insicurezza, a meno di formidabili precauzioni e di una consistente forza pubblica.
Se Ginevra fosse belga, tedesca, italiana o francese, si troverebbe di certo sottomessa allo stato d’assedio, per far fronte a tutti questi pericoli. Ci sarebbero agenti a ogni angolo di strada, posti di guardia in tutti i quartieri, immense caserme, un cordone ininterrotto di gendarmi alla frontiera. Ci vorrebbero i passaporti, si sarebbe costretti a una sorta di minuziosa inquisizione, a mille vessazioni prima di essere ammessi sul suo territorio, e poi durante il soggiorno. Tutte le libertà sarebbero sospese per il timore di nomadi, ecc. ecc.
Invece, qui, nulla di simile. Tutto è calmo, pacifico, regolato e libero. I furti sono estremamente rari, gli omicidi quasi sconosciuti. La pena di morte è abolita.
E che non si dica che questo è dovuto solo al carattere del popolo ginevrino, poiché, come ho detto, nella Repubblica di Ginevra ci sono più stranieri che ginevrini. […] Da dove viene questo miracolo? Adesso stupirò qualcuno: è la libertà che lo compie.
È che la libertà, anche quella esclusivamente politica, purché sia abbastanza e rispettata da un potere scrupoloso, è utile a tutti, e tutti ne traggono profitto.
Ho detto che la polizia è ben fatta. Questo non è dovuto solo alla sua organizzazione, ma anche all’opinione pubblica. Per piccola e invisibile che si faccia, benché si contenga nei limiti del suo ruolo, accettabile, di perseguire i malfattori e di vegliare alla sicurezza delle strade, la polizia resta la bestia nera dei ginevrini e degli svizzeri in generale. La vista dell’uniforme li urta. Detestano il gendarme e il poliziotto municipale, li guardano come un male forse necessario, ma che si subisce solo circoscrivendolo il più possibile. Ammettono a malincuore, ma infine ammettono, l’agente della forza pubblica laddove non c’è il popolo; ma nel momento in cui appare il popolo, l’agente deve sparire. «Dal momento che siamo là – ci dicono pacatamente gli svizzeri –, non abbiamo più bisogno di lui. Che verrebbe a fare? A darci noia, a sorvegliarci? Noi non siamo dei bambini. Badiamo a noi da soli, e faremo noi stessi la nostra polizia, così come l’intendiamo».
Così, non appena la popolazione, per una festa, per una celebrazione politica o patriottica, per una qualsiasi manifestazione, si impadronisce della via pubblica, la polizia abbandona la piazza. Non la si vede più.
Se il ginevrino non ama la polizia visibile, in uniforme, immaginatevi che cosa pensa dell’agente politico, ch’egli chiama senza mezzi termini «lo spione». Gli fa l’effetto del rosso sul toro: non si tiene più.
Le festività pubbliche, naturalmente, non hanno alcun carattere ufficiale: sono l’opera della popolazione, è lei che fa festa. Nessuna parata, nessun fuoco d’artificio, a meno che non piaccia ai cittadini di farne esplodere davanti alla loro porta o sui ponti. Nessun intervento dall’alto. La popolazione, avvisata, decora strade e case, ci mette tutte le bandiere immaginabili, accende i lampioni che crede, innalza dove preferisce degli archi di trionfo fatti di fiori e di fronde, ci attacca motti e brani di poesia di sua invenzione. Per fare tutto questo, gli abitanti di ciascun quartiere si mettono d’accordo tra loro, nominano una commissione organizzativa incaricata di raccogliere i fondi necessari. Il governo non ha nulla a che farci.
I quartieri ci mettono il loro amor proprio. La riva sinistra e la riva destra, il sobborgo popolare e quello aristocratico rivaleggiano per lusso e profusione. Ciascuno ha la sua idea e la sua sorpresa, la sua iniziativa più o meno felice. Ne deriva un’emulazione che arriva a dei risultati prodigiosi. La città grigia diventa un palazzo da mille e una notte: tutto brilla, tutto fiorisce, tranne i monumenti pubblici e ufficiali, di cui nessuno si occupa e che, la maggior parte delle volte, hanno per unica decorazione la bandiera nazionale. Gli uomini di potere hanno decorato, a «proprie spese», il loro domicilio privato, ognuno nel suo quartiere, e se vogliono godersi la festa, passeggiano per le strade con i loro vicini.
Lo immaginate di già: non c’è nemmeno una sentinella davanti alla porta del governo, ancor meno un gendarme o un agente della polizia municipale. I governati vi entrano come a casa loro. C’è un portiere per dare le indicazioni necessarie, che d’altronde non vi blocca e non vi chiede mai dove volete andare, se passate davanti a lui senza interrogarlo.
Dovevo parlare al ministro della giustizia e della polizia.
«Come avete ottenuto udienza?», mi si chiederà.
Ecco come:
Sono andato all’hôtel de ville, sono entrato dal portiere e gli ho chiesto dov’era l’ufficio del ministro della giustizia e della polizia.
«Secondo piano, porta a destra» mi ha risposto laconicamente.
Arthur Arnould
Striscione de Les amis de la Commune de Paris alla manifestazione per lo sciopero generale del 19 marzo 2009 a Parigi.
1 Nelle sue memorie Lefrançais racconta il travestimento con cui si presenta allo sportello per acquistare un biglietto per uscire, in carrozza, da Parigi: intabarrato, occhiali con le lenti affumicate e capelli tutti tinti di bianco. Appena arriva a Ginevra, il figlio di un amico che si era stabilito in Svizzera lo riconosce subito: dalla voce inconfondibile (cfr. Gustave Lefrançais, Arthur Arnould, Souvenirs de deux Communards réfugiés à Genève 1871-1873, présentation par Marc Vuilleumier, Edition Collège du Travail, Genève 1987, pp. 49 e ss.).
2 I feuilleton, pubblicati sotto il titolo Souvenirs d’un Communard, furono poi rivisti e raccolti in volume nel 1902, poco dopo la morte di Lefrançais, da un amico e compagno più giovane, Lucien Descaves (1861-1949): Gustave Lefrançais, Souvenirs d’un révolutionnaire, préface de Lucien Descaves, Bruxelles 1902, XII e 604 pp. Nel 1972, è stata realizzata una seconda edizione, più fedele al testo pubblicato originariamente nel Cri du peuple: Gustave Lefrançais, Souvenirs d’un révolutionnaire, texte établi et présenté par Jan Černy, Futur antérieur, Société Encyclopédique Française Editions de la Tête de Feuilles, Bordeaux 1972, 498 pp.). Questa seconda edizione si segnala anche per il tentativo fatto dal curatore di ricostruire l’originalità della figura e della militanza di Lefrançais. Vengono sottolineati per esempio i legami con altri personaggi considerati – in genere dopo che una tradizione, politica e storiografica ha prevalso su un’altra – «singolari» o «marginali», come Joseph Déjacque (1821-1864), o ancora le posizioni indipendenti assunte da Lefrançois dopo la spaccatura in seno alla prima Internazionale (legato ai «Jurassiens», amico, tra gli altri, di Reclus e di Kropotkin, si smarcherà tuttavia da una completa «appartenza anarchica» pubblicando a Parigi, nel 1887, la brochure Où vont les Anarchistes?).
Infine, pur con tutte le cautele necessarie quando si ha a che fare con souvenirs e mémoires, le centinaia di pagine di ricordi di Lefrançais, zeppe di nomi e di circostanze, si segnalano come una fonte importante per il periodo 1848-1870, anche se non agevole in mancanza di indici dei nomi.
3 Lefrançais, Souvenirs d’un révolutionnaire [éd. 1972] cit., p. 373.
4 Si veda la loro corrispondenza: Jules Vallès, Le proscrit. Jacques Vingtras IV. Correspondance avec Arthur Arnould, préface et notes de Lucien Scheler, nouvelle édition augmentée, Editeurs Français Réunis, Paris 1973 [coll. Œuvres complètes de Jules Vallès publiées sous la direction de Lucien Scheler] ; anche questo volume, purtroppo, senza indice dei nomi.
5 Cfr. Jules Vallés, L’insurgé (ho consultato un’edizione elettronica che fa riferimento all’edizione Lausanne 1968: http://www.scribd.com/doc/5157644/Jules-Valles-Linsurge, cfr. pp. 150-151); si veda anche Vuilleumier nella sua prefazione a Lefrançais, Arnould, Souvenirs de deux Communards cit., p. 25.
6 Per maggiori precisioni di veda la Note sur les textes di Vuilleumier in Lefrançais, Arnould, Souvenirs de deux Communards cit., p. 48.
* I brani che seguono sono tratti da Lefrançais, Arnould, Souvenirs de deux Communards cit., pp. 51-52, 106-107, 111, 114-116; la traduzione è mia.
7 Lefrançais prosegue raccontando che, con questo sistema, dai tribunali francesi partono casellari falsi o manomessi, per mettere in difficoltà i rifugiati, il che provoca brutte disavventure. [NdT]
** I brani che seguono sono tratti da Lefrançais, Arnould, Souvenirs de deux Communards cit., pp. 162-164, 170-171, 172-173, 176; la traduzione è mia.
8 Nelle pagine precedenti, Arnould descrive con grande entusiasmo e dovizia di particolari – era pur sempre un feuilleton pagato un tanto alla riga – il modo in cui si avvicina a Ginevra, con lo splendido paesaggio del lago e delle montagne, che toglie il fiato e non ha eguali. [NdT]