di Piero Brunello
Pubblichiamo l’intervento tenuto da Piero Brunello il 24 maggio 2014 in occasione della festa di storiAmestre.
Émile Zola è molto noto per i suoi romanzi e per il ruolo che ebbe nella campagna a favore di Alfred Dreyfus. Ma qui voglio dire due parole sulla sua famiglia di origine, che era veneziana.
1. Il nonno paterno di Émile Zola si chiamava Carlo Zolla (solo più tardi, come vedremo, il cognome perse una elle): era nato nella fortezza di Zara, dove suo padre prestava servizio. Nel 1801 (da quattro anni la Serenissima non c’era più, e c’erano gli austriaci) risulta essere Ispettore generale della pubbliche fabbriche e abitare a Venezia nella parrocchia di Santa Maria del Giglio. Sua moglie era Nicoletta Bondioli, veneziana, figlia di un sergente di artiglieria: famiglia di militari, sembrerebbe, visto che anche il fratello di lei era capitano. Carlo morì nel 1810 a 58 anni. Rimasta vedova, la signora Nicoletta diceva a tutti di avere quarant’anni: in realtà dai documenti risulta ne avesse quarantotto.
Carlo e Nicoletta ebbero quattro figli.
Caterina, la prima, sposò un notaio. Per l’occasione Carlo Gozzi, celebre scrittore di commedie, già ottantenne, scrisse un sonetto. Il matrimonio finì male. I due si separarono. Su decisione del Tribunale, Caterina ottenne la restituzione della dote.
Marco, secondogenito, divenne ingegnere: assistente presso il padre Ispettore generale della pubbliche fabbriche, si trasferì a Padova dove, come vedremo, si occupò di acque e della regolazione dei fiumi Brenta e Adige.
L’ultima figlia di Carlo e Nicoletta morì giovane: sua madre ereditò da lei un anello di brillanti, che a sua volta lascerà all’altra figlia. Era un oggetto che in famiglia passava di madre in figlia, e provoca tristezza leggere che in questo caso passò di figlia in madre.
Fermiamoci sul terzo figlio, Francesco, padre di Émile. Nacque nel 1795, fu battezzato in casa appena nato perché sembrava in pericolo di vita: padrino di battesimo era Francesco Palatiano di Corfù, che testimonia legami con l’isola jonia, allora veneziana. Come il fratello, Francesco fece studi di ingegneria a Padova ed entrò nell’esercito austriaco: ma già a venticinque anni lasciò il servizio militare per esercitare la professione civile. Cominciò a lavorare con il fratello per un progetto sulla strada Castellana, che passa poco distante da dove ci troviamo per questa festa: ma dopo poco lasciò il lavoro, la famiglia e Venezia. Vent’anni dopo il fratello lo avrebbe rimproverato di non aver avuto la pazienza di aspettare: restando avrebbe fatto senz’altro carriera. Invece Francesco non aspettò e andò in Austria. Lì conobbe un uomo d’affari, un certo Gerstner, concessionario di una ferrovia, e così ottenne di lavorare al progetto come ingegnere. Nel 1827 tornò a Padova per salutare il fratello e la famiglia dopo sei anni di lontananza: poi ripartì nuovamente. Non si sarebbero più rivisti.
Tornato in Austria, presentò un progetto di una ferrovia di una settantina di chilometri tra il lago di Gmunden e Linz. Fu uno dei primi a occuparsi di questi lavori in Europa continentale: della ferrovia Ferdinandea tra Venezia e Milano si cominciò a parlare sei anni dopo. Il progetto fu accettato dal governo (per questi lavori serviva un privilegio governativo). Ma la rivoluzione del 1830 fece fallire la banca in cui Francesco aveva interessi: allora lasciò l’Austria, approdò a Parigi e cominciò a firmarsi François Zola (nel frattempo anche il cognome del fratello e della sorella in Italia aveva perduto una elle). Lì presentò un progetto per fortificare Parigi con un campo trincerato (malgrado le opposizioni, Luigi Filippo, come scrisse Carlo Cattaneo, voleva chiudere «Parigi in un cerchio di ferro»), che non venne accettato (il nuovo sistema di fortificazione intorno a Parigi sarebbe stata comunque realizzato pochi anni dopo, su iniziativa del primo ministro Adolphe Thiers). L’anno dopo, senza lavoro, François Zola si arruolò nella Legione straniera, impegnata a domare le rivolte berbere in Algeria.
François dovette dimettersi dopo un anno circa perché coinvolto in un affare poco chiaro, che sarà rinfacciato a suo figlio Émile più di sessant’anni dopo per delegittimarlo all’epoca dell’affare Dreyfus. L’accusa era di essersi appropriato di denaro, ma non entrerò in questa vicenda: fatto sta che François s’imbarcò per Marsiglia, dove si stabilì agli inizi del 1833.
A Marsiglia François Zola aprì uno studio di ingegnere. In pochi anni ebbe a suo servizio tre disegnatori e due praticanti, e ideò un ambizioso piano di ampliamento di un nuovo dock nel porto di Marsiglia. Nel 1836 si recò per far approvare il progetto a Parigi. Nel frattempo aveva passato i quarant’anni.
2. Da quando Francesco se n’era andato in Austria, sua madre, sua sorella e suo fratello non avevano avuto più notizie di lui, tanto che pensavano che fosse morto. Neanche una lettera. Sua madre morì con questo cruccio nel 1832: non lo vedeva da quattro anni. Ma succede una di quelle cose che si leggono nei romanzi. Nel maggio 1836 il giornale Moniteur pubblicò la notizia che mr. Zola, ingegnere-architetto-topografo era stato ricevuto a corte dal principe di Joinville, figlio del re Luigi Filippo, a cui aveva presentato il piano di un nuovo bacino e di un nuovo canale nel porto di Marsiglia, con mezzi meccanici ingegnosi e soluzioni originali. La Gazzetta di Venezia riprese l’articolo. Caterina lo lesse e scrisse subito una lettera al fratello, indirizzandola a «Monsieur Francois Zola, architecte topographe du Génie, Marseglie», e consegnandola a una persona che andava giusto a Marsiglia. Nella lettera Caterina gli raccontava l’angoscia provata per anni dal non saper niente di lui e la paura che fosse morto; gli rimproverava di non trovare il tempo di scrivere; e poi raccontava che «la nostra povera mamma» era morta quattro anni prima. La mamma, scriveva Caterina, piangeva ogni giorno pensando a lui.
Era Caterina a tenere unita la famiglia. Del resto quella era l’educazione che aveva ricevuto. In un primo testamento (Francesco era andato via di casa da un anno), la vedova Zolla aveva lasciato gli oggetti di valore della sala da pranzo – zuccheriera, cucchiaini e stoviglieria, tutto in argento – alla figlia; a Francesco aveva lasciato un orologio con catena d’oro da portare nel taschino o al collo, e a Marco due dei quattro candelabri d’argento. Insomma, la madre aveva lasciato gli oggetti legati alla casa e alla vita domestica alla figlia, e ai figli maschi i pochi oggetti di valore che restavano. Caterina era rimasta a Venezia, prima separata e poi vedova, e Francesco era andato per il mondo a cercare fortuna. Pare che sia stata Caterina, ancora una volta attenta al buon accordo in famiglia, a convincere la madre a cambiare testamento e a fare parti uguali tra tutti i tre figli, destinando questa volta anche i mobili e gli arredi casa: qualcosa andò alla domestica. Nella lettera scritta al fratello, Caterina informava Francesco di queste decisioni riguardo all’eredità, invitandolo a ritirare la sua parte. Francesco scrisse alla Pretura di Montagnana, dove era stato depositato il testamento, dando istruzioni su come ricevere i soldi che gli spettavano.
Marco, che nel frattempo si era trasferito a Udine, si mise ugualmente in contatto con il fratello per informarlo della sua condizione (anche lui si firmava Zola, con una sola elle, non si sa da quando). Negli ultimi quattro anni aveva avuto «perdite crudeli». Alla morte della madre era presente solo lui, la sorella Caterina era gravemente malata. Un anno e mezzo dopo era morta di parto sua moglie e il neonato. Avevano già altri tre figli, che mise in un collegio a Padova. La bambina morì che aveva tre anni. Un altro figlio piccolo, Luigi, si era ammalato. I medici di Udine non sapevano curarlo e non davano speranze. La sorella Caterina, che viveva a Treviso, lo volle con sé per curarlo con i rimedi vomo-purgativi di Leroy. Marco portò il bambino in braccio (non si reggeva neanche in piedi) dalla sorella: quindici giorni dopo il piccolo era ristabilito e Marco, incredulo e felice, tornò a rivederlo. Ma dopo un mese il bambino cominciò a peggiorare. Lo stesso Leroy consigliava in casi come questi di raddoppiare la dose. Ma Caterina non ebbe il coraggio di farlo e mandò a chiamare un medico, che però curava con i metodi usuali. Il bambino morì dopo cinque giorni: suo padre Marco arrivò mentre lo stavano portando al cimitero. (Tra parentesi, ho visto in una rivista di storia della farmacia che i rimedi vomo-purgativi di Leroy avvelenarono e fecero molte vittime, tanto che il governo francese ne vietò ben presto l’uso.)
A Marco restava un ultimo figlio, Carlo come suo nonno, che sperava, così scrisse a Francesco, potesse trovare un posto grazie alla bontà del Sovrano, cioè un qualche impiego governativo. Quanto a lui, continuava a fare l’ingegnere idraulico sul Brenta e sull’Adige, ma allo stesso livello di trent’anni prima: nessun avanzamento di carriera, i suoi subalterni lo avevano sopravanzato. Marco mandava poi i saluti dei parenti, e così scopriamo che era cugino di un Alberto Kiriaki, autore di molti scritti, compreso uno sulle inondazioni nella provincia di Venezia (un interesse, come si è visto, di famiglia). Un altro parente nominato nelle lettere è un barone Mulazzani (la figlia di Caterina chiamerà Emilio Mulazzani cugino). Ma la rete delle parentele della famiglia Zola è tutta da ricostruire.
Sappiamo qualcosa di più di Marco da un incartamento del 1830 che si trova all’archivio di stato ai Frari. Aveva cominciato la carriera all’Ispettorato acque e strade lavorando alla costruzione dei ponti sui fiumi Meduna e Cervada; da un anno viveva a Badia e si dimostrava molto zelante nel suo lavoro, anche se era considerato dai suoi superiori “sofistico ed inclinato al puntiglio”, come per esempio in occasione delle piene dell’Adige, quando invece ci sarebbe voluto prontezza e decisione. Inoltre aveva pratica del fiume Brenta: ma l’Adige aveva caratteristiche ben diverse. Marco pensava che la sua mancata carriera fosse dovuta in realtà a un peccato di gioventù, quando, all’epoca dei francesi si era iscritto alla Loggia Massonica di Padova: è probabile, il governo austriaco non dimenticava facilmente il passato filofrancese di un funzionario.
3. Nel 1836, come ho detto, Francesco Zola si trasferì a Parigi, dove si fermò quattro anni cercando di far approvare i suoi progetti per il porto e il nuovo canale di Marsiglia, ma senza riuscirci: tutta colpa della gelosia dei concorrenti, secondo lui. Comunque diede fondo a tutti i risparmi e cominciò a pensare a un nuovo progetto ingegneristico, questa volta a Aix-en-Provence, che se fosse andato in porto lo avrebbe sistemato economicamente.
Dopo i primi scambi di lettere, Francesco non scrisse per più di un anno e mezzo. Fratello e sorella gli mandarono invano lettere a Parigi e a Marsiglia, e tornarono a pensare che fosse morto. Finalmente alla fine di luglio 1840 Francesco scrisse da Parigi alla sorella di essersi sposato e di aver avuto quattro mesi prima un bambino, di nome Émile. La sorella rispose di essere felice. Il fratello Marco, che stava andando in pensione e contava di tornare a Padova con il figlio che si sarebbe iscritto a quell’università, si congratulò con Francesco e lo invitò a tornare a Padova con la moglie e il piccolo Émile per ricostituire la famiglia di Santa Maria del Giglio: loro due fratelli e la sorella. I suoi desideri non si realizzarono, perché morì a Udine pochi mesi dopo, a 55 anni.
Francesco rimase a Parigi dove tornò a sottoporre a re Luigi Filippo un progetto di fortificazione della città, che venne nuovamente rifiutato. Allora si trasferì a Aix-en-Provence. E qui la corrispondenza con i parenti veneziani cessa del tutto. Francesco si dedicò a un progetto di dighe e canali per portare l’acqua alla città di Aix. Questa volta i progetti furono accolti. Finalmente i lavori della diga e del canale, che ancora oggi viene chiamato Canal Zola, iniziarono, quando Francesco morì improvvisamente nel 1847 a Marsiglia: il corpo fu trasportato a Aix sopra un carro coperto di un drappo nero. I parenti veneziani non furono avvisati. Caterina morì una decina d’anni dopo. Nel frattempo la vedova di Francesco si spostò con il piccolo Émile a Parigi, la città dove aveva conosciuto l’ingegnere François Zola e dove si era sposata. Anni dopo sarà la figlia di Caterina a prendere contatti con il cugino Émile, che non aveva mai conosciuto, quando quest’ultimo era già uno scrittore famoso: ma questa è un’altra storia.
Nota conclusiva. Come tutte le storie, anche questa è interessante in sé, non perché sia esemplificativa di cose generali. Però suggerisce una riflessione che può essere buona anche per altre ricerche. La vicenda della famiglia Zola invita a mettere in discussione l’utilità del contesto nazionale in cui di solito sono inseriti i fenomeni storici: dimostra cioè che gli spazi nazionali non sono né chiusi né autosufficienti, e fa vedere come gli avvenimenti, anche minuti, risentono di influssi nazionali diversi. Le storie dell’emigrazione come questa, in cui gli individui fanno confronti e operano delle scelte, ce lo ricordano di continuo.
Sulla famiglia veneziana di Émile Zola si veda René Ternois, Zola et ses amis italiens. Documents inédits, Les Belles Lettres, Paris 1967, pp. 1-33 (capitolo Les Zolas. Histoire d’une famille vénitienne); sulla vicenda che coinvolse François Zola nella Legione Straniera si veda Jacques Dhur, Le Père d’Émile Zola. Les prétendues lettres Combes. (Lettre à M. le Procureur de la République), préface de Jean Jaurès, Société libre d’édition des gens de lettres, Paris 1899; sugli esiti negativi del rimedio vomo-purgativo vedi Henri Polge, Le vomi-purgatif Leroy, “Bullettin Société archéologique, hist., litt. et scient. du Gers”, LXV, 1964, 2° trim., pp. 133-138, riassunto da Julien Pierre, Les méfaits du vomi-purgatif Leroy, “Revue d’histoire de la pharmacie”, vol. 55, n. 192, 1967, p. 414, consultabile on line. La citazione di Carlo Cattaneo è dal Programma di un giornale libero in Milano, 17 marzo 1848, pubblicato in molte edizioni, per esempio in Tutte le opere di Carlo Cattaneo, IV, Scritti dal 1848 al 1852, a cura di Luigi Ambrosoli, Mondadori, Milano 1967, pp. 71-74; l’accenno alle “vivacissime polemiche nella opposizione, durate sino a che i lavori furono sospesi” viene da una nota di Norberto Bobbio, in Carlo Cattaneo, Stati Uniti d’Italia, a cura di Norberto Bobbio, Chiantore, Torino 1945, p. 289.
François de Crécy dice
Grazie mille. Molto interessante.
Sono spesso a Venezia !
Distinti saluti.
François de Crécy (Versailles)
Autore di :
Venise Editions de Paris
Venezianamente Editions du Rocher Avant-propos de Jean d’Ormesson, dessins à la plume de Michel Mohrt