di Walter Cocco
Il nostro amico e socio Walter Cocco nel dicembre 2013 va a vedere lo storico stabilimento Marzotto a Valdagno, scatta alcune foto del complesso industriale semiabbandonato e ora ce le manda con alcune riflessioni e una proposta di ricerca: quali sono le condizioni di lavoro nelle fabbriche Marzotto delocalizzate in Tunisia, in Lituania, in Romania e in Cechia? Esisterà un coordinamento tra i lavoratori e i sindacati di questi diversi paesi?
Se si arriva a Valdagno dal fondovalle e, all’ingresso del paese, si prende la tangenziale esterna che porta verso Recoaro, a un certo punto dall’altra parte del fiume appare il grande storico stabilimento della Manifattura Lane Marzotto. Da un po’ di tempo l’immagine è desolante. I moltissimi vetri rotti della facciata fronte strada dell’opificio riflettono una sensazione di disuso, di abbandono. A dire il vero, guardando l’ingresso dello stabilimento, la pensilina e la portineria mantengono ancora un decoro e i fasti da Grand Hotel, ma si non vede più il fluire di migliaia di lavoratori come un tempo e solo una parte degli uffici e dei reparti è ancora utilizzato, il resto è vuoto.
Questa fabbrica che ha rappresentato – assieme alla galassia di Alessandro Rossi nella vicina Schio – il terzo polo della prima industrializzazione italiana è ora un relitto di archeologia industriale. Per quasi due secoli ha segnato i destini della popolazione della vallata, è stato al contempo dannazione e speranza per i molti lavoratori che lì dentro hanno trascorso la loro vita e ora è un enorme parallelepipedo silente. Pochissimi gli addetti rimasti a lavorare nello stabilimento, poco più di cinquecento. La produzione laniera che fino al 1968 contava 5000 operai (numero già in forte flessione rispetto al dopoguerra) ora non è più qui.
La dura ristrutturazione in atto in quel lontano 19 aprile 1968 aveva fatto scoppiare la rabbia operaia di una classe che si era sempre mostrata pronta a chinare il capo, ma che, sentendosi tradita, aveva reagito rompendo i vetri della fabbrica, scontrandosi duramente con la polizia e abbattendo la statua del fondatore Gaetano Marzotto senior per rivendicare il diritto a una condizione di vita decente in fabbrica come fuori. Lo scontro di allora fu seguito da una lunga lotta che – per la prima volta dalla nascita del lanificio – non finì in una sconfitta per gli operai ed essi ottennero condizioni di lavoro più decenti.
La produzione tessile era già allora un settore maturo che subiva la concorrenza dei paesi emergenti. Una diversa idea delle relazioni industriali e l’integrazione della produzione nel sistema moda italiano ha permesso col tempo una riduzione più dolce degli addetti, e i Marzotto hanno anche sostenuto con aiuti finanziari le nuove iniziative industriali che nascevano nel territorio per dare nuove opportunità alle nuove generazioni e scrollarsi il fardello della company town che avevano generato. Un defilarsi lento che – con i diktat della globalizzazione – subisce poi un’accelerazione. Per avere un’idea in numeri dell’esodo prendiamo i dati indicati nell’ultimo bilancio disponibile del Gruppo Marzotto (31 dicembre 2012): 3.479 addetti di cui 1350 in Italia, 998 in Repubblica Ceca, 380 in Lituania, 150 in Romania, 574 in Tunisia; di primo acchito l’azienda sembrerebbe avere ancora una forte base in Italia, ma la pagina web del gruppo parla di 11 stabilimenti in Italia e 5 siti produttivi all’estero, ecco quindi che il peso della produzione in Italia sembra diluito in molti stabilimenti con poche decine di addetti. Le relazioni di bilancio danno conto inoltre di piani di chiusura di alcuni degli stabilimenti italiani: la definitiva chiusura della divisione tessuti di Sondrio (14 addetti), la chiusura degli stabilimenti di Villa d’Almé (Bergamo) e di Fossalta di Portogruaro (94 addetti), il licenziamento di 51 addetti della società del gruppo Ratti Spa, 7 licenziamenti nella Collezione Grandi Firme e la chiusura dello stabilimento di filatura pettinata a Piovene Rocchette (121 addetti).
La chiusura di Piovene mi ha visto testimone nei primi mesi dell’anno scorso di una singolare e toccante dimostrazione di protesta da parte dei lavoratori licenziati: essi avevano crocifisso le proprie tute di lavoro alle inferriate della fabbrica, l’immagine evocava le vittime di un massacro esposte a monito della popolazione.
La nota di bilancio parla anche di un contratto di flessibilità raggiunto con le organizzazioni sindacali del GMF (Gaetano Marzotto & Figli) di Valdagno che riguarda 221 addetti: non si capisce se questo è il numero totale degli addetti valdagnesi o se sono quelli interessati alla flessibilità.
I vincoli con la comunità si sono allentati, l’azienda è sempre più internazionale e anche la società è cambiata: nell’era del pensiero unico liberista nessuno osa più sognare una società più giusta, né reclamare il diritto a una vita dignitosa, l’unico dogma è la libera circolazione dei capitali e il profitto come valore supremo. La velocità di spostamento delle produzioni ha messo a disposizione un enorme esercito di riserva di affamati. Sarebbe interessante verificare con le organizzazioni sindacali se e quali sono le relazioni industriali attualmente esistenti con il gruppo; quali sono le condizioni di lavoro in Tunisia, in Lituania, in Romania e in Cechia, se esistono là organizzazioni sindacali e fermenti operai e, soprattutto, se esiste un coordinamento fra i sindacati dei vari paesi in cui sono ubicate le fabbriche della Marzotto. Ho fatto un tentativo di contattare la responsabile dei tessili vicentina della CGIL, ma non ci sono riuscito al primo colpo e non ho insistito, magari in futuro sarà l’occasione per tornare in argomento.
Non so effettivamente cosa stia succedendo in quelle fabbriche, e quindi mi limito ad alcune riflessioni di carattere generale che, credo, accomunano tutte le produzioni che sono state delocalizzate. Nei paesi dell’ex blocco sovietico le organizzazioni sindacali devono scontare il peso di un fardello ideologico che, in nome del movimento operaio, aveva per decenni imbrigliato e represso le rivendicazioni dei lavoratori. Il vuoto lasciato dal crollo dell’Urss è stato riempito dal pensiero unico liberista che ha lasciato poco spazio a un’azione collettiva nelle coscienze dei lavoratori.
C’è inoltre un problema di tempi: la globalizzazione sta rendendo più veloce lo spostamento delle fabbriche rispetto alla capacità di organizzazione dei lavoratori. È questa divaricazione dei tempi che rende più debole la resistenza dei lavoratori ai ricatti padronali. Spesso le cronache ci raccontano di fabbriche svanite durante le ferie d’agosto, gli impianti trasferiti quasi clandestinamente, lasciando i capannoni vuoti e operai smarriti davanti ai cancelli. Credo che la percezione – conscia o inconscia – che accomuna sia i lavoratori derubati che quelli che li rimpiazzeranno nelle fabbriche ricostituite nei paesi di destino è di essere parte di un enorme esercito di riserva che li condanna a una nuova servitù.
Come è potuto succedere? La condizione essenziale che ha permesso l’affermarsi di una coscienza di classe è il luogo stesso: la fabbrica. La nascita e lo sviluppo del movimento operaio si fonda nel fatto di condividere quotidianamente, gomito a gomito, lavoro e condizioni di sfruttamento. È proprio questo legame che il processo di robotizzazione/globalizzazione ha spezzato con la creazione di quella che definirei la fabbrica virtuale.
La nuova fabbrica virtuale, prima di tutto, ha poco bisogno del saper fare, della presenza cioè di una manodopera specializzata nel territorio perché la robotizzazione del processo produttivo permette di controllarlo in remoto da migliaia di chilometri di distanza. Per la stessa ragione la produzione può rapidamente essere spostata da un luogo a un altro spezzando così sul nascere le resistenze. Anche la parte più professionalizzata del lavoro si disperde in mille rivoli di consulenze, progetti e altre collaborazione esterne alla fabbrica che hanno prodotto un tracollo dei prezzi del lavoro. Si potrebbe dire che si è imposta una pratica di valenza generale (che, certo, non impedisce che vi siano delle eccezioni): il lavoro – sia esso manuale o intellettuale – non deve essere pagato o pagato il meno possibile. Ecco allora che se nel 1968 fu la statua del fondatore a finire per qualche giorno nella polvere, dopo qualche decennio è la fabbrica intera a essere coperta dalla polvere dell’abbandono: e il segnale stradale di pericolo che un tempo avvertiva l’automobilista dell’uscita operai ora sembra minacciare un’uscita di quest’ultimi senza alcuna possibilità di rientro.
Vicenza 9 giugno 2014
Nota. Walter Cocco ha studiato il Sessantotto operaio a Valdagno attraverso documenti scritti, fotografie e testimonianze orali. Si può leggere online il suo saggio La Vandea diventa giacobina: cronache di un biennio rivoluzionario, “Materiali di lavoro del Centro Studi Ettore Lucini”, numero monografico Valdagno e la Marzotto dal ’68 alle lotte sindacali degli anni Settanta, 4 (2003), pp. 19-72, presso il sito del Centro Studi Luccini. (ndr)
ANGELO LUIGI dice
Sono un tecnico in pensione della CONIETEX DI IMOLA CHE HA SEGUITO I MONTAGGI DEI FILATOI CON LEVATA AUTOMATICA A MAGLIO DI SOPRA. SAREI INTERESSATO A VISITARE LO STABILIMENTO SE E’ POSSIBILE MOLTE GRAZIE SALUTI. Angelo Luigi Ramilli.
Walter Cocco dice
Un caro saluto a Giorgio Roverato, il suo commento rivela il disagio per una questione molto importante: la salvaguardia e l’accesso degli archivi storici, nella fattispecie quelli della Marzotto che per mole e caratteristiche assumono un grande rilievo nella storia dell’industrializzazione e la storia del lavoro italiane. Ringrazio Giorgio perché grazie al suo messaggio ha messo me, i soci ed i lettori del sito storiAmestre a conoscenza del problema. Non posso che unirmi alla sua richiesta affinché detti archivi vengano resi accessibili a chi, a vario titolo, vuole fare ricerca e lo invito a tenerci informati sugli sviluppi della vicenda, nonché su eventuali sue iniziative al riguardo.
Giorgio Roverato dice
Un grazie, innanzitutto, a Walter Cocco per la sua testimonianza fotografica. Sì, il degrado di quello che per qualche decennio fu il più grande sito mondiale nella trasformazione in manufatti della lana, lascia l’amaro in bocca a chi ha alla mente le generazioni di lavoratori che lì faticarono creando ricchezza e un inestimabile patrimonio di orgoglio operaio e di mestiere.
A questo si aggiunge – da almeno un quindicennio – la incomprensibile inaccessibilità alla parte “storica” dell’archivio aziendale: accesso invece che, pur in assenza di vincolo della (ahimè IN)competente Soprintendenza Archivistica, la precedente proprietà (quella a guida Pietro Marzotto) liberalmente consentiva. Evidentemente consapevole, la passata leadership aziendale, della eccezionale rilevanza di quella parte d’archivio non solo per la storia della comunità valdagnese, ma anche per l’intera storia dell’industria laniera italiana: come è rilevabile dai miei studi sull’azienda (a partire da una delle prime storie d’impresa italiane: “Una casa industriale. I Marzotto”, Milano, Angeli, 1986) e dalle tesi di laurea che su quei materiali furono realizzate da non pochi studenti del mio corso di “Storia economica” nella Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Padova.
E fu questo il motivo che mi spinse nello scorso settembre 2017 a scrivere un articolo in cui sollecitavo la Soprintendenza Archivistica veneziana a vincolare detto archivio per preservarlo da ulteriori sottrazioni documentarie di cui mi era giunta notizia, e il Sindaco di Valdagno a farsi parte attiva di un serrato confronto con l’attuale proprietà per il recupero sia dell’archivio che per la bonifica e riutilizzo produttivo del grande complesso da anni pressoché desertificato e in stato di estremo degrado (https://www.vvox.it/2017/09/05/valdagno-la-sua-storia-chiusa-nellarchivio-marzotto-apriamola/).
Da quel mio articolo da un lato è derivata una istruttoria della Soprintendenza Archivistica, e dall’altro una risposta del Sindaco di Valdagno ( https://www.vvox.it/2017/09/13/valdagno-il-sindaco-acerbi-aprire-archivio-marzotto-noi-ci-siamo/): di entrambe attendo un qualche esito positivo, pronto – qualora esso tardi – a perseguire altre più clamorose vie, stante che in questa vicenda esiste un interesse pubblico palesemente sottovalutato, e – in definitiva –
violato.