di Matteo Flumian
Matteo Flumian ripercorre le vicende degli abitanti di Erto (uno dei due poli del Comune di Erto e Casso, oggi in provincia di Pordenone, al confine con il Bellunese) dall’11 ottobre 1963 fino al 1971. Due giorni dopo aver assistito alla catastrofe del Vajont, gli Ertani ricevono dalle autorità un ordine di sgombero, benché le condizioni del paese non esigessero una misura così drastica. È un altro terribile capitolo dei rapporti tra le popolazioni di questa zona e lo Stato italiano. La comunità di paese da quel momento comincia a dividersi: una parte continuerà a voler abitare nel vecchio paese, una parte si trasferirà in una “Nuova Erto” presso Ponte nelle Alpi, un’altra ancora si stabilirà in una “città nuova” battezzata Vajont, ricavata in un’area del comune di Maniago. L’intervento dello Stato fu beffardo anche in materia di sovvenzioni per la ricostruzione economica: si trasformò in una speculazione sulla tragedia, a danno degli abitanti del posto.
La conoscenza dei fatti e delle vicende che portarono al “disastro del Vajont” è oramai consolidata; per quel che riguarda invece il dopo 9 ottobre 1963, gli sforzi di ricerca e di studio si sono concentrati soprattutto su Longarone e manca ancora una sistematica analisi dell’eredità della tragedia a Erto e Casso. Fu soprattutto Tina Merlin a richiamare l’attenzione su questa vicenda (la prima edizione del suo famoso libro Sulla pelle viva risale al 1983). Il mio contributo si inserisce oggi tra le ricerche inaugurate da Lucia Vastano nel 2003; si soffermerà soprattutto su Erto, la frazione del Comune posta a quota più bassa e orientata verso il Friuli (mentre Casso tradizionalmente gravitava sul Bellunese).
1. Mentre Alpini, Vigili del Fuoco, Carabinieri, Polizia e Croce Rossa Italiana organizzavano con difficoltà il primo soccorso a valle, Erto – che piangeva i suoi 158 morti delle frazioni più basse – era ancora in piedi e ai superstiti dovevano essere date delle risposte. I rappresentanti delle istituzioni, staccati e distanti dalle richieste di ascolto degli ertani negli anni precedenti, arrivano in forze nei giorni immediatamente successivi. Il mattino dell’11 ottobre il presidente del consiglio Giovanni Leone, dopo essere stato a Longarone, sale in elicottero a Erto e verso le 11.00, insieme al Ministro degli Interni Mariano Rumor, si intrattiene in Municipio per circa mezz’ora stabilendo a grandi linee i principi della ricostruzione. Leone pronunciò in questa occasione la famosa frase “che non si badi a spese per assistere questa gente che lascia le sue case per sistemarla nel miglior modo possibile; che non si badi a spese, mi raccomando” (diverrà poi capo del collegio difensivo della Sade-Enel).
Dopo la visita di Leone, viene dato l’ordine di sgombero totale dal paese e il municipio del Comune di Erto e Casso viene spostato a Cimolais presso Villa Olga. Le autorità, totalmente impreparate ad affrontare una situazione di questo genere, non vedono soluzione migliore che quella dell’evacuazione. Con camion militari e elicotteri (messi a disposizione anche dalla base militare americana di Aviano), oltre 1500 persone vengono trasferite, in tutta fretta, nei vicini paesi di Claut e soprattutto Cimolais.
Lo sgombero è un’ulteriore mazzata per gli ertani. La disorganizzazione nelle operazioni (per esempio non venne predisposto nemmeno, almeno inizialmente, un campo d’accoglienza o comunque uno spazio di raccolta) rese tutto ancor più traumatico. I più fortunati vennero momentaneamente accolti da amici o parenti, mentre le altre famiglie trovarono sistemazione presso alberghi e colonie. Alcuni furono accolti da sconosciuti che spinti dalla commozione del momento si resero disponibili a ospitarli.
Nei giorni successivi gli ertani sono assaliti dalla disperazione. All’ordine di sgombero totale dell’11 ottobre, si affiancava anche il divieto di accesso permanente al paese, malgrado questo non avesse dato segni di cedimento. La proibizione al ritorno pareva quindi ingiustificata e ai superstiti venne addirittura negata la possibilità di cercare i corpi dei propri cari (grazie all’aiuto degli alpini della Brigata Julia che operarono a Erto, nei primi giorni era stata recuperata una ventina di salme). Oltre al comprensibile sconforto per questa situazione, si deve aggiungere la forte preoccupazione riguardante l’aspetto prettamente economico. Il divieto d’accesso al paese rischiava di far perdere in un colpo solo animali e raccolto.
Alle crescenti e insistenti proteste contro questo stato di cose, le autorità risposero vendendo tutti gli animali a una fiera organizzata appositamente. L’intero patrimonio zootecnico della comunità venne così interamente perduto. Vengono istituiti poi dalle forze dell’ordine dei veri e propri posti di blocco per impedire il ritorno al paese. I superstiti non capiscono, ancora una volta, perché lo Stato non li supporti e non tenga conto della loro volontà. In un grave momento di difficoltà, una delle poche fonti di sollievo è stare nel luogo in cui si è cresciuti e che si ama, e cercare gradualmente il ritorno alla quotidianità attraverso il rapporto che lega l’uomo alla terra natia. Ma questo, dopo tutto quello che hanno già dovuto affrontare, agli ertani non è concesso. Si consideri poi che uno sradicamento così violento e repentino non può che portare a un ulteriore e grave sconvolgimento emotivo, dove lo smarrimento esistenziale diviene senza dubbio una delle più preoccupanti conseguenze. I superstiti vengono privati della facoltà di decidere, saranno altri infatti, ancora una volta, a prendere le decisioni per loro. Agli ertani non resta che aspettare e sperare, il pessimismo misto alla rabbia però comincia a dilagare.
2. Passato l’inverno, in primavera inizia la costruzione di due villaggi di prefabbricati in legno che avrebbero dovuto momentaneamente ospitare i superstiti, uno in località Roiatta, nella piana di San Quirino, l’altro a Claut. Ma nella primavera del 1964 comincia anche, in maniera graduale, il ritorno a casa. Attraverso l’aggiramento dei posti di blocco grazie alla conoscenza dei sentieri montani (in qualche caso anche a seguito di scontri fisici con le forze dell’ordine), gli ertani tornarono a vivere nelle proprie case, illegalmente. Le istituzioni, che non potevano accettare un simile affronto, reagirono tagliando l’energia elettrica. Coloro i quali non volevano perdere il legame con il proprio paese si trovarono quindi a vivere in una situazione di irregolarità, resa ancor più problematica dal fatto che nessuno pareva venire incontro alle loro esigenze.
Non solo, una comunità abituata a vivere regolata dal ritmo della natura e a fondare le proprie giornate sul lavoro, si vide “costretta” a oziare. Il sussidio assistenziale erogato alle famiglie, di circa 1200 lire al giorno, veniva tolto a coloro i quali trovavano un’occupazione. Chiaramente una situazione di questo genere allontanava ancor di più dalla normalità e dalla realtà i sinistrati.
«Gli sfollati abitano per tutto l’inverno a Cimolais, Claut, in case private, in prefabbricati, in colonie, in alberghi. Vivono di sussidio giornaliero, affollano i bar, ciondolano per le piazze e per le strade tutti i santi giorni. Sono irascibili, qualcuno si ubriaca. […] I cimoliani, dopo i primi mesi di solidarietà, incominciano a guardar male questa gente, che ha tanti soldi come non ne ha mai visti in vita sua, spende e spande, brontola, pretende, non pensa al domani. A quale domani, poi? […] Prendono ciò che gli danno: sussidio dello Stato, contributi delle “catene della solidarietà” dei giornali, stanziamenti di enti locali e associazioni varie che arrivano da ogni parte d’Italia» (T. Merlin, Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe. Il caso del Vajont [1983], Cierre, Verona 1997, p. 126).
Lo Stato intervenne con una legislazione ad hoc, come succede in occasione di quasi ogni calamità, improntata al rilancio dell’area disastrata. Con la legge speciale n. 357 del 31 maggio 1964 (“Modifiche ed integrazioni della legge 4 novembre 1963, n. 1457, recante provvidenze a favore delle zone devastate dalla catastrofe del Vajont del 9 ottobre 1963”), oltre all’intenzione di risollevare le zone colpite dalla sciagura, emerge chiaramente la volontà di sfruttare l’impatto emotivo di questa tragedia per far ripartire tutto il Veneto e il Friuli Venezia Giulia: si parla infatti di comprensorio del Vajont (sostanzialmente l’intero Triveneto) con l’obiettivo di uno sviluppo prettamente industriale dell’area.
«Persone che non avevano avuto alcun danno dal Vajont ricavarono così grossi vantaggi economici, mentre altre vennero sostanzialmente defraudate dei loro diritti» (Luciana Palla, La valle del Vajont: una storia travagliata, in Il Vajont dopo il Vajont, a cura di Maurizio Reberschak, Ivo Mattozzi, Marsilio, Venezia 2009, p. 73). Basti, in questa sede, prendere in considerazione l’articolo 12 della citata legge 357 riguardante la “ristrutturazione delle aziende artigianali”. In sostanza, ogni superstite che al momento del disastro fosse in possesso di una regolare licenza commerciale, artigianale o industriale aveva diritto, per far ripartire l’attività, a un contributo statale del 20% a fondo perduto, a un mutuo quindicennale al tasso agevolato del 3% per il restante 80%, oltre all’esenzione dal pagamento delle tasse per 10 anni. Apparentemente un intervento legislativo che andava incontro ai sinistrati, ma la legge non si limitava a questo, il “diritto” infatti poteva essere ceduto a terzi che ne acquisivano tutti i privilegi, purché riproponessero l’attività entro il comprensorio, che pressappoco, come già detto, corrispondeva all’intero Triveneto. Era il via libera alla speculazione sulla tragedia.
Dopo l’entrata in vigore della legge, cominciarono ad arrivare in paese avvocati e ragionieri – i “procuratori speciali” – mandati da imprenditori locali alla ricerca di licenze.
«Nessuno disse per esempio ai sinistrati che la vecchia attività poteva essere ampliata senza limiti di preventivo, poteva essere riconvertita in una nuova attività, diversa da quella originaria, poteva essere avviata anche in uno qualsiasi degli altri comuni del comprensorio e che si sarebbero potuti chiedere finanziamenti anche negli anni a venire» (Lucia Vastano, Vajont, l’onda lunga. 1963-2003 quarant’anni di tragedie e scandali, Sinbad Press, Milano 2003, p. 45).
Si verificò quindi un’altra, ulteriore, beffa nei confronti degli ertani. Per le licenze che vendettero a poche migliaia di lire, i “procuratori speciali” intascarono milioni di lire da grossi imprenditori che ottennero dei finanziamenti talvolta miliardari.
3. Come detto, si cominciò a parlare di ricostruzione quasi da subito. La giunta comunale si dimostra però incapace di rispondere alle esigenze della totalità dei suoi cittadini e la comunità ertana si spaccò subito in più tronconi, tra chi voleva ritornare e chi voleva chiudere col passato e spostarsi in pianura. Le istituzioni spingevano per il trasferimento della comunità intera lontano dalla valle, rimarcando come il pericolo di un’altra frana o di smottamenti non fosse del tutto scongiurato. È facile ipotizzare comunque che, al di là delle tarde preoccupazioni sulla sicurezza geologica dell’area, un bacino completamente disabitato potesse fare comodo all’Enel, inoltre era nell’interesse di altri comuni essere coinvolti nella ricostruzione in modo tale da acquisire i diritti che i sinistrati si portavano appresso.
Ad aprile 1964 viene indetto il primo referendum, cui possono votare i residenti e i proprietari di immobili nel territorio comunale, che propone la ricostruzione a Maniago, San Quirino e Codissago. Votarono 448 persone su circa un migliaio avente diritto, optarono per Maniago in 389, per San Quirino 50 e per Codissago 9. Vennero diffalcati ben 15 voti, perché portati da parenti di proprietari di immobili nel Comune, l’esito ufficiale fu: 379 voti per Maniago, 45 per San Quirino e 8 Codissago (Osvaldo Martinelli, Il mio Vayont, a cura di Piergiorgio Martinelli, edito in proprio 2011, p. 276; prima edizione Comune di Vajont, Vajont 1976). Chi non votò ovviamente esprimeva la sua volontà al ritorno in paese. Seguono mesi di importanti trattative e pressioni che il sindaco Giovanni De Damiani non regge, si dimette infatti dalla carica il 23 agosto 1964. Lo sostituisce da metà settembre Felice Carrara.
Per quanto riguarda il bacino, la frana ha otturato le condotte e reso inagibile il by-pass (quella galleria che, costruita nel 1961, avrebbe dovuto garantire il deflusso delle acque a monte del bacino in caso di frana), cosicché il livello dell’acqua non può che salire, sebbene di pochi millimetri al giorno, prospettando un’ulteriore tracimazione. Tra 1964 e 1965, soprattutto grazie alle proteste degli ertani rientrati a casa, il lago viene svuotato grazie a delle avveniristiche idrovore provenienti dall’URSS. L’acqua viene pompata direttamente oltre passo S. Osvaldo verso il Cellina. Questa operazione illude gli ertani, credono infatti che la situazione di pericolo che li tiene lontani dal paese (quantomeno legalmente) cessi, inoltre sperano di trovare finalmente i loro morti così da potergli dare una degna sepoltura (invece le ricerche delle salme portano al ritrovamento di soltanto due corpi. Una ulteriore bruciante delusione per i sinistrati).
L’11 settembre 1965 una commissione di esperti inviati sul posto dal ministro dei Lavori Pubblici conferma che la zona di Erto è fuori pericolo (Martinelli, Il mio Vayont cit., p. 302). Viene indetto così un secondo referendum che questa volta contempla tra le scelte anche quella del ritorno a Erto. La consultazione si fa per famiglia: un voto per nucleo, espresso dal “capofamiglia”. Al 29 ottobre 1965 le preferenze per la ricostruzione recitavano: luogo del Giulio in Maniago, 294 domande per 1425 cittadini; Madonna di Vedoia in Ponte nelle Alpi 70 domande per 368 cittadini; Erto “a quota di sicurezza 830”, 97 domande per 442 cittadini (Martinelli, Il mio Vayont cit., p. 303). Si delinea quindi chiaramente la spaccatura in tre tronconi della comunità ertana: quelli che scelgono di spostarsi a Ponte nelle Alpi decidono in sostanza di unire il proprio destino a quello di Longarone, mentre chi sceglie di scendere a Maniago pensa soprattutto alle generazioni future cercando di garantire loro un futuro più “comodo”. Gli ertani che invece si ostinano a voler restare sono quelli che non vogliono perdere il legame con la propria terra nonostante le avversità passate.
L’iter di approvazione dei progetti di ricostruzione nei vari siti occupa l’intero 1966. Per coloro i quali hanno fatto la scelta di spostarsi nel luogo del Giulio a Maniago, la ricostruzione ufficialmente comincia il 28 dicembre 1966 con la posa della prima pietra. Il progetto è di Giuseppe Samonà, tra i più noti architetti e urbanisti del Novecento. Per costruire il villaggio vengono espropriati i contadini di Maniago, che non la prendono bene e organizzano manifestazioni di protesta. I benefici in termini di agevolazioni e giro d’affari che assicura l’arrivo dei sinistrati viene invece ben visto dal Consiglio comunale di Maniago, la zona industriale agevolata del Vajont è infatti una garanzia in quanto a richiamo di investitori.
Chi invece manifesta la volontà di tornare, continua a vedersi ostacolato nelle proprie intenzioni. In realtà un piano abbozzato di ricostruzione (a quota di sicurezza 830) c’era, ma venne subito bloccato a causa dell’eccezionale alluvione che nel novembre 1966 colpì il Veneto. Gli smottamenti straordinari che coinvolsero la zona convinsero le autorità che il paese non fosse totalmente in sicurezza. Un’altra battuta d’arresto quindi, ancor più difficile da digerire considerando che in tutti gli altri siti l’opera di ricostruzione era già avviata.
4. Tralasciando qui l’analisi delle tappe della ricostruzione che riguardano Nuova Erto presso Ponte nelle Alpi, consideriamo invece la ricostruzione a valle, presso il Luogo del Giulio nella piana di Maniago.
Dopo che nel dicembre 1966 era stato dato il via ai lavori, il paese stava rapidamente prendendo forma. L’intenzione della giunta comunale era quella, nell’interesse anche di coloro i quali volevano restare, di fare in modo che il nuovo insediamento diventasse un’isola amministrativa del Comune di Erto e Casso. Il villaggio a valle presso Ponte Giulio sarebbe quindi dovuto essere una frazione del capoluogo che sarebbe rimasto a monte.
Questi dunque erano gli intenti, ma vista la difficoltà nell’ottenere appoggio e sostegno dalle autorità regionali e governative, più che risolvere la complessa situazione di Erto a quota di sicurezza, alla giunta premeva progredire quantomeno con la ricostruzione a Maniago. L’iter per il riconoscimento dell’isola amministrativa sbatteva però contro intricati meandri burocratici e quindi anche a valle quindi cominciavano a serpeggiare insoddisfazione e frustrazione. Gli scontenti ora si trovavano sia a monte che a valle, indubbiamente con una sostanziale differenza: mentre a quota di sicurezza 830 ancora nulla si era mosso, nel luogo del Giulio il paese cresceva a vista d’occhio.
Nel delicato compito di progettare dal nulla il paese, Giuseppe Samonà si avvalse dell’assistenza dell’economista Nino Andreatta e del sociologo Alessandro Pizzorno. La pianta del comune è romboidale e rimanda all’impianto romano in cardini e decumani. Il paese però, che avrebbe dovuto essere il risultato di un’attenta analisi delle occorrenze e necessità di un insediamento ex novo al passo con i tempi, sembra invece essere il frutto di esigenze di brevità ed economicità. Unica nota positiva sono i numerosi spazi verdi predisposti, che avevano l’obiettivo di dare una certa continuità con l’ambiente che i sinistrati avevano lasciato.
Il 19 febbraio 1968 il Consiglio comunale, riunitosi come sempre nella Villa Olga di Cimolais, delibera di chiamare “Vajont” il nuovo villaggio che sta sorgendo a Ponte Giulio. Pochi giorni dopo, il 26 febbraio si compie un altro passo fondamentale: il Consiglio del Comune di Maniago all’unanimità “esprime il suo parere favorevole alla richiesta del Comune di Erto e Casso di sovranità territoriale nella Zona di insediamento abitativo a Ponte Giulio”.
Il trasferimento nella piana di Maniago continuava di buona lena, nell’autunno del 1968 già 250 persone vivono a Vajont; diventeranno oltre 500 nel marzo del 1970.
5. Le lotte dei primi anni dopo la tragedia stavano cominciando a dare i loro frutti anche a Erto a monte. Chi aveva con forza e tenacia ribadito la propria volontà di restare iniziava, sebbene lentamente, a scorgere uno spiraglio di luce per la propria situazione. I divieti d’accesso e permanenza al paese erano stati revocati, e anzi servizi basilari tra i quali la scuola avevano ripreso il loro regolare funzionamento. Ma per quanto riguardava la ricostruzione, l’immobilità regnava sovrana.
A dire il vero qualcosa era stato fatto: il cimitero, dopo le preoccupanti fenditure apparse nell’aprile 1967, era stato sistemato. Chiaramente, un intervento di questo tipo non alleviava l’insofferenza degli ertani che anzi sempre più si sentivano presi in giro, non vedendo un sensibile impegno nel risolvere la loro annosa questione. Ma perché le vecchie case di Erto, che uno sperone di roccia aveva salvato dall’onda, non venivano dichiarate abitabili cosicché il paese potesse riprendere la regolare normalità? L’erogazione dei contributi che la legge prevedeva per i sinistrati, era subordinata alla costruzione di un nuovo insediamento abitativo. Pertanto è evidente come, nell’interesse di qualche parte in causa, si dovesse costruire comunque.
Gli ertani sono quindi come in un limbo, non possono abitare nel vecchio paese – viene infatti detto loro che non è abbastanza sicuro –, e non possono nemmeno costruire a quota di sicurezza dato che i vari progetti proposti sono rimasti tali. Pertanto, visto che non si costruisce, a Erto non si vedono neanche i soldi dello Stato.
A oltre cinque anni dalla tragedia però qualcosa comincia a muoversi e l’11 ottobre 1968 «viene individuata l’area per l’insediamento di Erto a monte: è quella di Stortàn a monte della statale 251, per un’area di mq. 57250» (Martinelli, Il mio Vayont cit., p. 330). È un consistente passo in avanti che viene ulteriormente rafforzato dal fatto che nella primavera del 1969 Samonà presenta il suo progetto di costruzione (per una spesa complessiva di 470 milioni di lire). Sembra il cambio di marcia decisivo, e invece ancora una volta tutto si blocca. La giunta comunale pensa quasi esclusivamente a Vajont, la maggioranza dei componenti del consiglio infatti ha optato per il trasferimento a valle e bada ai propri interessi.
6. Le elezioni del giugno 1970 arrivano in un momento di forte tensione tra ertani a monte e ertani trasferiti a valle. La costruzione di Vajont è oramai completata (anche se, a dire il vero, mancano ancora diversi servizi), mentre a quota di sicurezza tutto è immobile da oltre sei anni. Viene confermato sindaco Giovanni Corona, ma entrano in Consiglio comunale anche tre rappresentanti degli ertani a monte (sono Italo Filippin, Giuliano Corona e Bortolo Filippin), con l’obiettivo di curarne gli interessi nel miglior modo possibile. I tre consiglieri tentano di percorrere le vie istituzionali per ribadire con vigore e fermezza le loro volontà, ma le risposte che cercano non arrivano.
Frustrazione e delusione assalivano gli ertani. In oltre sette faticosi anni di lotte, in cui molteplici promesse gli erano state fatte, non erano riusciti a ottenere alcun risultato significativo. Quello che poi aumentava ancor di più l’animosità degli ertani a monte, era che chi aveva optato per il trasferimento si trovava già con una casa pronta e con la prospettiva di un lavoro sicuro, il tutto con alle spalle le rassicurazioni della politica locale, a dispetto dell’abbandono in cui invece versavano loro.
Dopo aver subito per anni questo tipo di trattamento, rispondendo con un comportamento sempre dignitoso e onorevole, decisero che oramai non restava che manifestare con una presa di posizione energica e vigorosa. Diedero vita quindi a quelle che vengono ricordate come “le cinque giornate di Erto”.
7. L’ordine di trasferire tutto il materiale comunale da Cimolais, dove si trovava momentaneamente, a Vajont, fu la goccia che fece traboccare il vaso. Il 19 aprile 1971 esausti, determinati a risolvere una volta per tutte questa situazione, arrivati di corsa a Villa Olga (sede del municipio) gli ertani bloccarono i camion già pieni di documenti e con catene e lucchetti sbarrarono l’accesso agli uffici comunali. La questione era semplice: perché trasferire materiale comunale a Vajont se la sua sede naturale era il municipio di Erto e Casso?
La situazione si infiamma. Intervengono subito oltre alle forze dell’ordine, emissari di Questura, Prefettura e Autorità regionali e provinciali che cercano di ammorbidire gli animi con altre promesse. Ma questa volta i dimostranti sono intenzionati ad andare fino in fondo. Gli ertani, resisi conto che comunque la questione si sarebbe prolungata per qualche giorno, si accamparono con auto e tende nei pressi degli uffici.
Nei giorni seguenti un decisivo ruolo di mediazione venne svolto dal Prefetto di Pordenone Tito Biondo grazie al quale le trattative andarono in porto. Il 22 aprile 1971 «Alfredo Berzanti, Presidente della Giunta Regionale, da Trieste manda, via Maniago, il seguente telegramma: Informo che l’Amministrazione Regionale est disposta ritirare il disegno legge Luogo del Giulio sostituendolo con altro che preveda la scissione di Erto in due Comuni (uno con la solita circoscrizione e l’altro con quella del “luogo del Giulio”). Però ci vuole la richiesta del Consiglio» (Martinelli, Il mio Vayont cit., 358). Il Consiglio comunale viene quindi convocato d’urgenza per il giorno seguente. All’arrivo della giunta, il 23 aprile 1971, i manifestanti si rifiutarono di aprire i cancelli per l’accesso a Villa Olga. L’agitazione era palpabile e si optò allora per tenere la seduta sul prato antistante, sistemando i consiglieri su dei tavoli improvvisati. Dopo un acceso scambio di accuse tra maggioranza e opposizione, tanto che dovettero presenziare pure i Carabinieri per mantenere l’ordine, si arrivò alla dolorosa delibera N. 28 con oggetto: Scissione del Comune di Erto e Casso in due Comuni autonomi e separati.
Quella che passerà alla storia come la “delibera del Prato” sanciva quindi la separazione definitiva tra le due comunità, quella a monte e quella a valle. Il Consiglio comunale venne quindi sciolto, e furono nominati Commissari straordinari per la ricostruzione Italo Filippin per Erto e Giovanni Corona per Vajont.
Per rendere la scissione ufficiale venne approvata la legge regionale n. 22 del 16 giugno 1971 che disponeva: la continuità dell’esistenza storico-amministrativa del Comune di Erto e Casso (con ritorno di atti e documenti relativi nella loro sede naturale); la conferma dei confini territoriali e amministrativi del Comune di Erto e Casso; l’erezione a Comune della località Vajont (riconosciuta, con effetto retroattivo, frazione del Comune di Erto e Casso dal 18 aprile 1966). Restavano da definire in futuro i rapporti economici tra i due Comuni.
Nota. Questo contributo – tratto dalla tesi di laurea triennale che ho discusso presso l’Università di Venezia nel giugno 2012 – si vuole inserire sulla scia dell’inchiesta di Lucia Vastano, Vajont. L’onda lunga. 1963-2003 quarant’anni di tragedie e scandali, Sinbad Press, Milano 2003 (seconda edizione Ponte alle Grazie, Firenze 2008).
Per una maggiore comprensione degli effetti che questo tragico evento ebbe sui sopravvissuti si rimanda all’analisi di Cristina Zaetta e Angela Favaro, Memorie e dolore a 45 anni di distanza. Le conseguenze a lungo termine sulla salute psichica e fisica dei sopravvissuti, in Il Vajont dopo il Vajont, a cura di Maurizio Reberschak, Ivo Mattozzi, Marsilio, Venezia 2009, pp. 293-328.
Sul by-pass del 1961, e altri lavori di “messa in sicurezza” del bacino dopo il 9 ottobre 1963, si può vedere questo indirizzo: http://www.progettodighe.it/. Su scopo e uso del bypass, si possono ascoltare le spiegazioni di Italo Filippin, più o meno dal minuto 3 di questo video: http://www.youtube.com/watch?v=ysZizcesyNQ.
Maurizio Reberschak dice
Apro il sito di storiAmestre e trovo tra i commenti a "Cinquant'anni di Vajont" il "commento" di Francesca Chiarelli datato 27/9/2013 all'intervento inserito in rete il 12/1/2012 nel sito di storiAmestre. Inserisco qui il mio "commento" al cosiddetto "commento" perché la data di inserimento di quest'ultimo è più vicina all'intervento di Matteo Flumian del 18/9/2013 sull'evacuazione di Erto dopo il disastro del Vajont. Il "commento" della Chiarelli in realtà è un link al suo blog, in cui in data "Belluno, ottobre 2013" la stessa fornisce alcuni suoi ricordi a partire dal 9 ottobre 1963, in cui lei spegneva la sua "prima candelina". Meglio non indagare sul fenomeno di un ricordo risalente al compimento del primo anno di età. Prendiamo invece l'insieme dei ricordi, che puntano tutto su quanto la signora avrebbe sentito affermare dal padre notaio circa una specie di programmazione della frana del monte Toc, "pianificazione organizzata con tanto di data e ora predeterminate". Sempre la signora dice che aspetta di "leggere per intero gli atti", aggiungendo un sibillino "se mi sarà concesso". La signora dovrebbe informarsi meglio. Gli atti del processo del Vajont sono consultabili nella sede dell'Archivio di Stato di Belluno ad eccezione di alcuni dati "supersensibili" (riguardano le perizie mediche sui soperstiti e i riconoscimenti delle vittime, per i quali la legge applica l'inconsultabilità per 70 anni). Nella documentazione processuale esiste anche una deposizione resa spontaneamente al giudice istruttore di Belluno dal notaio Chiarelli il 5 luglio 1967, cioè quasi 4 anni dopo il disastro del 9 ottobre 1963. Il testo di questa deposizione, come quelli delle deposizione dei due attori dell'atto redatto dal notaio l'8 ottobre 1963, è pubblicato nel sito dell'Associazione Tina Merlin (www.tinamerlin.it). Nella verbalizazzione il notaio riferisce di aver sentito i due attori affermare che "i terreni compravenduti il giorno successivo alle ore 21 sarebbero stati buttati in acqua". Già, buttati giù, i terreni non il monte Toc; ma quei terreni erano ai margini dell'invaso, segnati e attraversati da fratture profonde, avvallamenti, deformazioni della frana che stava preparandosi a cadere, provocata dalla dissennatezza dell'aver costruito un bacino idroelettrico a ridosso di un monte in cui esisteva una frana preistorica non consolidata, come era stato ampiamente accertato. Quindi buttare "giù" quei terreni avrebbe significato al massimo un intervento limitatissimo in superficie su alcuni appezzamenti senza agire in estensione e in profondita. Così almeno se le parole in italiano hanno un qualche significato. Ricordo che la frana caduta fu di 260 milioni di metri cubi, non certo di poche decine o al massimo centinaia di metri cubi. Ebbene si leggano e si studino i documenti, poi si parli.