di Anna Di Qual
Pubblichiamo alcune pagine del recente libro della nostra socia e amica Anna Di Qual, Eric J. Hobsbawm tra marxismo italiano e comunismo britannico (Edizioni Ca’ Foscari, Venezia 2020). Abbiamo scelto quelle dedicate a un viaggio che Hobsbawm fece in Sicilia, presumibilmente nel 1953; qualche anno dopo ne scrisse un resoconto rimasto inedito. È il tema che Anna Di Qual ci aveva già presentato in anteprima il 30 maggio 2015 durante la festa di storiAmestre. Per la pubblicazione di questi brani sul sito, Anna Di Qual ha tradotto le lunghe citazioni dagli appunti di Hobsbawn, che nel libro si leggono in inglese.
Sulla scia delle discussioni con amici comunisti italiani, Hobsbawn affrontò il suo viaggio in Sicilia pensando ai nessi tra le recenti lotte contadine e una tradizione ribellistica, propria della Piana degli Albanesi, che nella memoria degli abitanti aveva contrassegnato la storia di una comunità insediatasi in Sicilia nel secolo XVI per scampare ai Turchi Ottomani. Iniziò così la ricerca che avrebbe portato Hobsbawm a studiare quelle forme di ribellismo contadino che gli erano state presentate come “arcaiche”, e che tali gli sembravano alla luce della sua formazione politica segnata dal marxismo britannico.
Durante la sua prima visita romana, negli ultimi giorni dell’agosto 1951, [Eric J.] Hobsbawm entrò in contatto, grazie all’intercessione di [Delio] Cantimori, con i quadri culturali del Partito comunista italiano: era un ambiente, quello della fondazione Gramsci, dove dopotutto era facile essere accolti con grandi onori se si poteva dire, come fece Hobsbawm, di conoscere [Piero] Sraffa. La persona con cui Cantimori lo mise in contatto fu Ambrogio Donini, che all’epoca era direttore del Gramsci, delle edizioni di Rinascita così come, a fianco di Togliatti, anche del mensile omonimo, la rivista politica culturale del partito. Militante comunista dagli anni Venti, con alle spalle una storia di lotta antifascista in Europa e di emigrazione politica oltreoceano, Donini dalla fine della guerra era entrato nel comitato centrale del PCI: era un convinto assertore del ruolo dell’URSS come guida del movimento comunista internazionale ed era molto impegnato nel movimento internazionale dei Partigiani della pace; di lì a breve sarebbe diventato anche senatore. Non era solo un uomo di partito, era anche un importante studioso della storia delle religioni: Cantimori, più o meno suo coetaneo, lo aveva definito nelle chiacchierate con Hobsbawm uno dei maggiori storici marxisti-leninisti italiani. Una commistione, quella tra attività politica e attività intellettuale, che – come vedremo – colpì Hobsbawm.
Eric J. Hobsbawm ritratto da Reinhard Koselleck (giugno 1947). Tratto da Jonathon Catlin, Koselleck and the Image, online, 12 dicembre 2018. Una fotocopia del disegno è pubblicata da Anna Di Qual, Eric J. Hobsbawm cit., p. 42, tratto dalle carte di Eric J. Hobsbawm conservate presso il Modern Records Centre, Warwick University, Warwick.
A molti anni di distanza avrebbe ricordato che, invitato a cena nella casa romana di Donini, fu affascinato dall’approfondita conoscenza di ciò che si stava verificando nell’Italia meridionale dimostrata dal suo ospite, con grande capacità di rendere conto dell’attualità ricorrendo a spiegazioni di lunga durata. Donini gli raccontò, per esempio, che la dirigenza del PCI tra il 1949 e il 1950, in concomitanza con i movimenti di lotta contadina nel Sud Italia, si era trovata in difficoltà in quanto in diverse sezioni comuniste rurali del Sud i congressi avevano scelto dei testimoni di Geova come segretari delle sezioni di partito, cosa che poneva seri problemi a un partito marxista quale il PCI. Esponendogli i risultati che il movimento di occupazione delle terre nel Sud Italia aveva raggiunto, grazie anche all’impegno organizzativo del PCI, Donini accennò anche al fenomeno del brigantaggio nel Meridione, raccontandogli di aver incontrato di persona alcuni ex banditi. Si soffermò poi sulla vicenda di Davide Lazzaretti. Umile barrocciaio della zona del monte Amiata, negli anni successivi all’unificazione italiana Lazzaretti si era proclamato «seconda incarnazione del Cristo». Ispirandosi a un socialismo vagamente religioso a sfondo repubblicano, Lazzaretti – spiegò Donini – si era posto a capo di «un movimento sociale e religioso che esprimeva il bisogno di emancipazione di larghe masse di contadini e pastori della Toscana meridionale»; aveva anche annunciato l’imminente venuta sulla terra del regno di Dio, che aveva descritto come una «repubblica universale». Nel 1878, guidando una «milizia crociata» nell’attesa dell’inaugurazione dell’età messianica, era stato ucciso dall’esercito sabaudo. La cosa ancor più interessante – fece notare Donini – era accaduta però settant’anni più tardi: egli, che era un esperto di storia delle religioni, spiegò a Hobsbawm che quelle spinte millenariste non si erano affievolite con la morte di Lazzaretti. Nell’estate del 1948, quando si era diffusa la notizia che Togliatti era stato gravemente ferito in un attentato, ampi strati del Paese erano insorti interpretando le revolverate sparate all’indirizzo del leader comunista come l’inizio di un attacco alla sinistra. Sul monte Amiata si era verificato uno degli episodi insurrezionali più violenti: due agenti di pubblica sicurezza erano stati uccisi mentre i minatori del luogo si erano impossessati della centralina telefonica che controllava le comunicazioni tra il Centro e il Nord Italia. Per rinforzare il suo racconto, Donini riportò a Hobsbawm un aneddoto personale: in occasione di un comizio tenuto nelle zona di Arcidosso, Donini non aveva resistito alla tentazione di richiamare il passato rivoluzionario del luogo, facendo esplicitamente riferimento a Lazzaretti e ricevendo un caloroso riscontro da parte dei locali che, dichiarandosi seguaci del profeta e «naturally also Communists», apprezzarono il fatto che il PCI riconoscesse «the great work of Lazzaretti»: fu qualcosa che impressionò Hobsbawm, che infatti anni dopo avrebbe raccontato pubblicamente l’episodio in Inghilterra. Donini rimarcò il fatto che i lazzarettisti avevano mantenuto, anche se sotterraneamente, le loro aspirazioni, legandosi ai partiti della classe operaia, di cui «condividevano gli ideali di giustizia e di fratellanza umana»: era qualcosa che d’altronde stava verificandosi anche in Italia meridionale dove, nel contesto delle tensioni delle lotte per la terra, il comunismo finiva spesso per essere interpretato attraverso una sua fusione con elementi utopici, religiosi e mistici presenti nella cultura contadina.
[…]
Hobsbawm rimase affascinato dalla prospettiva di studio proposta da Gramsci che Donini gli accennò […]. Doveva aver sentito parlare di Gramsci già in Inghilterra da Sraffa e probabilmente – cosa che avrebbe detto però solo in tarda età – anche da Hamish Henderson. Quest’ultimo, un comunista scozzese che aveva combattuto la guerra sul fronte italiano, era rimasto in contatto con alcuni comunisti italiani anche a conflitto concluso e veniva da questi informato circa la pubblicazione delle opere gramsciane[;] nel 1948 aveva cominciato a tradurre in inglese, chiedendo consulenze anche a Sraffa, le lettere. Furono traduzioni che non trovarono ricezione nell’Inghilterra dei primi anni Cinquanta, né ebbero una considerevole circolazione all’interno degli ambienti comunisti britannici. Nelle riviste del CPGB della pubblicazione italiana delle opere gramsciane in quegli anni giungeva solo una flebile eco. Fu, dunque, negli ambienti della fondazione Gramsci che Hobsbawm entrò direttamente in contatto con gli scritti gramsciani: lesse prima le «commoventi» Lettere, grazie alle quali poté conoscere la storia dell’opposizione italiana al fascismo, poi i Quaderni. […] Gramsci gli apparve – avrebbe detto nel 1958 in occasione del primo convegno gramsciano a Roma – come un «esempio prezioso di un marxismo creativo». L’attenzione che Gramsci aveva dedicato alle ‘classi subalterne’ fu qualcosa che Hobsbawm percepì come estremamente stimolante e allo stesso tempo in qualche modo familiare. Come si è visto, infatti, gli storici marxisti britannici in quegli anni stavano perseguendo, prestando attenzione anche alle esperienze storiografiche francesi in cui il ‘petit peuple’ era diventato il soggetto protagonista dell’analisi storica, una messa in pratica di una ‘perspective d’en bas’. […]
I racconti che Donini richiamandosi a Gramsci gli fece sui lazzarettisti e sui briganti aprivano una finestra su una realtà per Hobsbawm inedita: lui, uomo metropolitano che frequentava ambienti intellettuali di alto livello tra Cambridge, Londra e Parigi, trovò stupefacente il fatto che a metà del Novecento esistessero tracce di Medioevo. Egli che, come si vedrà, soffriva il fatto di vivere la sua militanza comunista in ambienti meramente intellettuali, dovette essere ancor più attratto a sapere che da poco in Sud Italia, nel biennio 1949-1950, si era verificata una nuova ondata di occupazioni, con risultati fecondi anche da un punto di vista di politica generale. «Affascinato e commosso» dai racconti di queste presenze, decise di andarle a cercare per vederle di persona, viaggiando negli anni successivi lungo le strade di campagna dell’Italia meridionale e più in generale dell’Europa mediterranea. Di questi viaggi sono rimasti alcuni bloc notes, faticosamente utilizzabili come fonti sia a causa di una grafia veloce, di difficile interpretazione, sia in quanto materiale frastagliato. I quaderni sono spesso interrotti, molti fogli sono stati strappati, quindi smarriti o trasformati in carte sparse, con una perdita di linearità cronologica e tematica non agevolmente ricostruibile, anche per il fatto che sono appunti non datati. In essi Hobsbawm annotava spese di viaggio, contatti telefonici (come, per esempio, quello di Alberto Caracciolo), indicazioni bibliografiche, riferimenti all’andamento elettorale dell’Italia meridionale. Dava poi spazio a ciò che doveva colpirlo nello scoprire un paese che sebbene povero mostrava, a differenza di quanto aveva visto in Spagna, i primi segni di dinamismo e di trasformazione. Probabilmente vide ben rappresentata la realtà italiana tra arretratezza e modernità in una canzone di Renato Carosone che, mescolando jazz e musica swing, raccontava le contraddizioni del mito americano in Italia: trascriveva nei suoi taccuini, traducendolo parzialmente in inglese, il ritornello.
Tra queste carte è conservato anche un resoconto incompleto, grazie al quale è possibile seguire Hobsbawm in alcuni spezzoni dei suoi viaggi in Sud Italia, come per esempio una giornata della sua prima volta in Sicilia. Si tratta di carte non datate, la cui stesura però è riconducibile con verosimiglianza tra la metà e la fine degli anni Cinquanta: nelle memorie senili Hobsbawm avrebbe detto di aver visitato per la prima volta la Sicilia nel 1953. Dal tono a volte romanzato e a tratti caricato del racconto è possibile ipotizzare – senza aver però possibilità di conferma – che si tratti del canovaccio di un intervento radiofonico che Hobsbawm tenne nel 1957 in Gran Bretagna. Se tale destinazione è confermata, il testo diventa di ulteriore interesse in quanto permette non solo di ricostruire l’esperienza di Hobsbawm in Sud Italia, ma anche il modo in cui egli la presentò a un ampio pubblico inglese, scorgendone quindi immagini e stereotipi sulla realtà meridionale.
Quando mi trovavo a Palermo, cercando di scoprire qualcosa sulle questioni siciliane, un avvocato che conoscevo mi suggerì di dare un’occhiata a uno dei più noti distretti contadini comunisti dell’entroterra. Lo chiameremo Angelo. La politica a Palermo è ancora nelle condizioni in cui la gente non vuole pubblicità, specialmente se ha molti contatti in differenti partiti politici. «Devi andare a Piana», mi disse Angelo. «Un tempo chiamata Piana dei Greci, ora Piana degli Albanesi. Davvero non sono siciliani ma albanesi, solo che si usava chiamarli greci perché seguono il rito greco della Chiesa cattolica, e a parte la popolazione locale nessuno avrebbe potuto distinguere un greco da un albanese. Piana è rossa da generazioni. La ribellione è l’industria locale. Quando Garibaldi invase la Sicilia nel 1860 per sollevare la campagna contro i Borboni, i pianesi erano proprio lì ad aspettarlo. Si erano ribellati da soli e mandavano messaggi agli altri villaggi chiedendo di fare lo stesso. Quando [più tardi] il fascismo cadde, si dichiararono una repubblica indipendente per un breve periodo. Servirono molte discussioni prima di convincerli a ritornare a far parte dell’Italia».
Un tale racconto dovette entusiasmarlo. […] Iniziando il suo resoconto di viaggio Hobsbawm diceva che queste erano popolazioni che si erano insediate in Italia, per fuggire all’avanzata turca, sotto la guida di George Scanderbeg […]. Arrivando da Palermo, Piana dovette sembrargli «una città di 6000 abitanti lavata di bianco e blu appoggiata alla collina al di sopra della piana da cui prende il nome». Hobsbawm quindi notava:
I contadini siciliani vivono in questi grandi agglomerati nel mezzo di campagne vuote, percorrono a piedi grandi distanze per raggiungere i loro campi o molto più spesso i latifondi. In passato gli uomini stavano nei campi tutta la settimana, lasciando il paese come un alveare di donne. Le donne siciliane appartengono alla casa e non lavorano fuori. Anche quando siedono fuori dalle loro porte, stanno con la faccia rivolta verso le squallide baracche, in cui la maggior parte di loro vive, invece che verso la strada. Ma Piana non mostra alcun segno di spopolamento al nostro arrivo.
Se restituiva in modo asciutto la realtà sociale del paese e poca attenzione riservava al paesaggio, si dilungava invece nel ritratto della persona che lo accompagnò lungo le strade di Piana: il mediatore palermitano che gli aveva consigliato la visita lo aveva anche messo in contatto con quello che aveva dovuto giudicare la guida ideale per un comunista straniero, non solo per il fatto era il sindaco del paese, da poco diventato anche deputato comunista, ma anche perché poteva comunicare in inglese vista la sua lunga esperienza migratoria negli Stati Uniti.
Il sindaco, l’onorevole Michele Sala, era un uomo tutto nervi con dei baffi sottili, uno sguardo acuto e vestito con un completo di cotone ben stirato, di colore fulvo a righe. Aveva cinquant’anni, ma sembrava di una quindicina d’anni più giovane. Insistette nel parlare una versione siciliana di Brooklyn, che non era più facile da capire dell’italiano. «Non sono tornato a New York dal 1943», mi disse. «Ci sei stato?». Non si aspettava una mia risposta alla domanda. L’onorevole Sala (è onorevole perché è anche un deputato alla Camera di Roma) continuava a parlare e non si fermava mai abbastanza a lungo per permettermi una seppur breve domanda. Era, e senza dubbio è ancora, un personaggio formidabile. Ciò che sapevo di lui proveniva in parte da lui stesso, in parte da Angelo, in parte da un giornalista che bazzica dalle parti di Montecitorio a Roma e che conosce i deputati. Sebbene non albanese, Sala è un discendente di albanesi. (Il talento per la politica che era solito trasformare decine di albanesi in Gran Vizir nel vecchio impero turco non si è perso. Hanno prodotto almeno un primo ministro italiano, il mangiafuoco Crispi, e al momento tra i loro colpi a segno ci sono almeno un ministro del Camera italiana – democristiano – e un gruppo di deputati e senatori, principalmente comunisti.) Sala è originario di Parco, un villaggio sulle montagne a metà strada tra Palermo e Piana. «I fascisti pensavano che Parco non fosse abbastanza elegante», mi disse l’onorevole. «Lo chiamarono allora Altofonte. Ma io lo chiamo Parco». All’età di sedici anni si fece arrestare per propaganda antimilitare contro la guerra. Mi indicò con orgoglio l’esatto punto dove accadde mentre ci passavamo in auto. Iniziava a mostrare anche un senso siciliano di realismo nella politica. […]
Quando arrivò il fascismo, Michele Sala se ne andò. Trascorse i successivi vent’anni a New York come barbiere, attivista sindacale e collaborare di eminenti giornali antifascisti. Si racconta che abbia condotto uno sciopero dei barbieri nel 1927 o giù di lì. D’altronde, un uomo cresciuto nella scuola politica della Sicilia occidentale è abbastanza ben attrezzato per affrontare il mondo del sindacalismo dei barbieri di New York degli anni Venti e Trenta e, viceversa, un uomo che può reggere il confronto tra i duri sindacati di New York in quel periodo, non ha molto da imparare quando torna alla politica siciliana. Quando cadde il fascismo Michele Sala tornò a Palermo, dove il Partito Comunista, che sa riconoscere un mediatore valido quando ne incontra uno, lo nominò alla Camera del Lavoro; un incarico che, vista la presenza della mafia, non era affatto una scampagnata nemmeno per un uomo della sua esperienza. Ma Sala aveva quello che ci voleva. «Non è il politico perfetto», mi disse in seguito il mio amico giornalista: «ma nessuno può dire che Michele Sala non abbia del fegato. Ha il cuore di un leone».
[…] Un giorno – continuava nel racconto Hobsbawm – nel 1950 il Partito iniziò a preoccuparsi per Piana. Il consenso stava sfuggendo di mano. Nel ’47 il bandito Giuliano aveva sparato alla manifestazione locale del Primo Maggio, uccidendo nove manifestanti e ferendone molti altri. L’operazione era stata concordata con l’appoggio della mafia, che non tollerava alcuna concorrenza sul suo territorio; la Campagna per la Pace era iniziata e già un paio di uomini si erano fatti uccidere. Era giunto il momento di un uomo in grado di gestire queste problematiche. Così Michele Sala si ritrovò capolista del Partito Comunista per le elezioni comunali e poiché circa il 60% dei pianesi votò comunista, senza contare quelli che votano per i socialisti, si trovò presto sindaco e poco dopo deputato. E di fatto, da allora nessuno è stato ucciso, a eccezione di una persona benestante tornata dagli Stati Uniti che è stata trovata sparata in circostanze su cui nessuno si preoccupa di indagare a fondo, e alcuni litigi privati.
Hobsbawm doveva rendersene conto visitando il cimitero, «uno spazio zeppo di vaste volte, statue di pietra e altri enormi monumenti di smisurato dolore», in cui Sala lo accompagnò. Facendo caso ai cognomi ricorrenti sulle tombe, da appassionato di jazz qual era trovava occasione di notare che famosi jazzisti di New Orleans – come Arnold e Pete Loycano – dovevano essere d’origine siciliana. Il cimitero, così come la scuola e l’edilizia erano alcuni dei molti cantieri che Hobsbawm si sorprese di vedere e che Sala dimostrò di controllare con un fare che Hobsbawm definì da sceriffo. Lo poteva dire da come il sindaco si relazionava con i suoi cittadini. Pur non capendo i contenuti delle conversazioni per via della lingua, poteva coglierne i toni, spesso duri, che il sindaco usava nel parlare con gente che agli occhi di Hobsbawm sembrava poco raccomandabile, o quando stringeva «un gran numero di mani brune, elargendo grandi sorrisi, ma senza alterare la cauta espressione dei suoi occhi». Alla domanda di Hobsbawm se ci fosse la mafia, Sala rispondeva che c’era ancora: «Alcune cose non possiamo farle a causa della mafia».
Passeggiando lungo le strade della cittadina, Sala raccontò poi la storia della comunità arbëresh di Piana in un modo che Hobsbawm avrebbe sintetizzato in questo modo: «Ogni volta che c’era una rivolta in atto, loro si rivoltavano»: si trattava di un popolo che sempre aveva mostrato, a detta di Sala, una propensione alla rivolta sociale.
[…] Ma il vero punto di svolta nella storia di Piana avvenne nei primi anni Novanta dell’Ottocento, durante i cosiddetti Fasci siciliani, un movimento contadino di portata nazionale. Fino ad allora i contadini locali non avevano mai preso in considerazione la politica, se non per un’occasionale rivoluzione. La mafia forniva una sorta di organizzazione di auto-difesa, oltre a operare come un racket di protezione a beneficio di uomini d’affari e appaltatori locali. In ogni modo teneva la legge lontana dal villaggio e un contadino poteva «farsi rispettare» unendosi ai «ragazzi» (picciotti) o essendo noto come amico del «picciotto». Ma a partire dagli anni Novanta dell’Ottocento c’era la propaganda socialista, così come c’erano tempi difficili nel settore agricolo. Per i contadini i discorsi degli intellettuali locali non erano solo politica, ma rivelazione. Si unirono ai «Fasci» – leghe contadine organizzate dai socialisti – perché erano la «vera Chiesa», mettendo nella sala riunioni grandi crocifissi e ritratti di Cristo Re. I propagandisti socialisti erano ampiamente considerati come angeli che scendevano dal Paradiso. […] Il trionfo dei Fasci fu certo nel giro di pochi mesi: ci sarebbe stato un mondo senza povertà, fame e freddo, perché Dio lo ha voluto. Ci sono stati ben pochi movimenti millenari più notevoli nei tempi moderni.
Nessuno aderì ai Fasci con più partecipazione degli albanesi di Piana. Erano presenti duemila ottocento di loro, più del doppio di qualsiasi altro Comune della provincia, a eccezione di Palermo stessa. (Altri 2000-2500 si unirono nei più piccoli villaggi albanesi circostanti.) Ciò era dovuto al fatto che uno dei principali apostoli veniva da Piana. Si trattava del dottor Nicola Barbato, un medico con una propensione per l’oratoria rivoluzionaria e doti piuttosto eccezionali di leader e organizzatore. Organizzò la sua cittadina in modo così compatto che non si verificarono neppure rivolte: e ciò che forse è più notevole, riuscì persino a gestire il problema della mafia. In nessun luogo della Sicilia la mafia era più potente che nella provincia di Palermo; ma sulla mappa su cui l’attento Signor [in italiano nel testo] Cutrera della polizia, alcuni anni dopo, avrebbe tracciato la sua distinzione locale – rosso scuro per le aree fortemente infestate, bianco per quelle libere –, Piana era un’isola di colore rosa pallido circondata da un’area scarlatta. Inoltre, quando il nuovo millennio non arrivò – il primo ministro Crispi, un altro albanese siciliano, fece in modo che non arrivasse –, Piana non ricadde nella disorganizzazione, anche se l’eloquente dottore fu incarcerato. La Lega contadina rimase. Nel 1906-8 aveva ancora un’adesione che si aggirava tra i 500 e i 1000 iscritti. La fattoria cooperativa che il dottore aveva fondato non si dissolse; in effetti è ancora lì. Non appena vi furono consigli comunali, i pianesi votarono per i socialisti e successivamente per i comunisti. E dal 1893 in poi hanno preso l’abitudine, insieme agli uomini di San Cipirello, San Giuseppe Iato e Santa Cristina Gela, di incontrarsi in una valle tra le montagne, Portella della Ginestra, il Primo Maggio e di ascoltare i discorsi ispiratori dei leader locali, che parlano dal sasso da cui il dottor Nicola Barbato aveva fatto i suoi, e che è quindi conosciuta come la pietra del dott. Barbato.
Per avvalorare questo racconto, Sala accompagnò Hobsbawm a Portella della Ginestra. Era lì, sul pianoro tra Piana degli Albanesi e la valle dello Jato, che Nicola Barbato – visto il divieto di tenere riunioni politiche nei borghi e nei paesi – salendo su un sasso, che poi avrebbe preso il suo nome, aveva tenuto i comizi al tempo dei Fasci siciliani. Da allora, continuò Sala, radunarsi per il Primo Maggio a Portella della Ginestra era diventato un appuntamento annuale che, distorcendo la realtà, diceva non essere venuto meno nemmeno durante il fascismo. Ciò che gli stava a cuore rimarcare era un’altra cesura, avvenuta quando nel 1947 il bandito Salvatore Giuliano con la sua banda aveva insanguinato la festa del Primo Maggio […]. Portando Hobsbawm a Portella, Sala dovette raccontargli i fatti della strage mostrandogli i luoghi in cui la folla si era radunata e, agitando le braccia in direzione delle montagne, da dove invece i banditi avevano sparato. A Hobsbawm quel paesaggio sembrò un «un meraviglioso territorio per banditi: spoglio e dai contorni dolci, ma ricco di ripari dove un uomo vestito nel modo giusto potrebbe dileguarsi in un batter d’occhio». Descrivendo i territori dell’entroterra siciliano egli richiamò l’immagine cinematografica del West ben presente nell’immaginario dei suoi ascoltatori radiofonici. Probabilmente poi Sala raccontò a Hobsbawm che recentemente si era concluso a Viterbo il processo su quella strage: la sentenza aveva deciso l’ergastolo per alcuni membri della banda di Giuliano nel frattempo morto, mentre era stato fatto cadere qualunque approfondimento delle dinamiche politiche che invece erano emerse nel corso del dibattimento. La lettura che però ne dava Sala era trionfalistica; la comunità di Piana aveva reagito in modo deciso: «il prossimo anno ce ne saranno più che mai». Hobsbawm lo poteva vedere anche nel bar di Piana degli Albanesi, dove prima di congedarsi da Sala, notava i ritratti di Garibaldi, Barbato, Matteotti, Togliatti e Stalin appesi l’uno accanto all’altro su una parete del locale. La giornata trascorsa a Piana degli Albanesi grazie all’iniziazione di Michele Sala dovette essere per Hobsbawm un’esperienza di particolare valore: in quel luogo e attraverso la lettura che il suo ospite ne aveva dato egli poteva vedere condensati alcuni temi – la mafia, il banditismo, i Fasci siciliani – per lui inediti e che presto avrebbe trasformato in piste di ricerca.
Copertine di due edizioni (1963 e 1971 rispettivamente) di Primitive Rebels (prima ed. 1959), tradotto in italiano come Ribelli (trad. di Betty Foa, Einaudi, Torino 1966)
Nota. Pagine tratte da Anna Di Qual, Eric J. Hobsbawm tra marxismo italiano e comunismo britannico, Edizioni Ca’ Foscari, Venezia 2020, pp. 100-112, che si riproducono con alcuni tagli, senza note a piè di pagina e con qualche minima modifica; come già indicato, le traduzioni delle citazioni sono state fatte da Anna Di Qual appositamente per la presente pubblicazione.