di Piero Brunello
Pubblichiamo di seguito una parte – senza note – dell’intervento che Piero Brunello ha presentato in forma sintetica il 9 maggio 2013 al convegno “Ascoltare il lavoro. Seminario di storia e scienze sociali”, nella sessione di apertura intitolata Storici al lavoro. Omaggio a Eric Hobsbawm. Per leggere il testo integrale, cliccare qui.
Il convegno, organizzato dall’Ires (Istituto ricerche economiche e sociali Veneto), dall’Aiso (Associazione italiana di storia orale) e dal Dipartimento di studi umanistici dell’università Ca’ Foscari (si veda anche il sito del corso di laurea in storia), si è tenuto a Venezia il 9 e 10 maggio 2013. Nella stessa sede, Lucio Sponza ha presentato il suo ricordo di Eric Hobsbawm che abbiamo pubblicato qualche settimana fa.
Nel 1963 uscì in Inghilterra il libro di Edward P. Thompson, The Making of the English Working Class. Quando l’autore morì, nel 1993, Eric Hobsbawm scrisse che si trattava con ogni probabilità del libro di storia più influente pubblicato in inglese dopo la seconda guerra mondiale. Dovendo presentare il libro, vengono in mente molte questioni: i modi di scrivere la storia e di trattare le fonti d’archivio, i rapporti tra storiografia e scienze sociali, il contesto appropriato all’analisi dei materiali folclorici, l’utilità della categoria di “economia morale” e così via. Prenderò in esame pochi aspetti che mi auguro possano essere utili in una sessione che si presenta come «Storici al lavoro. Omaggio a Eric Hobsbawm» in un convegno dal titolo «Ascoltare il lavoro». Per cominciare, riassumo i principali argomenti del libro, soffermandomi su alcuni dei suoi obiettivi polemici storiografici e politici, legati al giudizio sulla rivoluzione industriale. Dopo aver portato qualche esempio sul modo con cui Thompson fa ricerca storica e invita a discutere le categorie utilizzate, approfondirò l’uso del termine “classe”, nel senso di “classe operaia”. Ripercorro quindi la biografia politica e storiografica di E.P. Thompson, in particolare in rapporto con il marxismo. Nelle conclusioni, tra tutti i numerosi temi storiografici aperti dal libro, ne indicherò uno, legato a una prospettiva transnazionale.
Vent’anni fa Edoardo Grendi scrisse che studiare il rapporto di Edward P. Thompson con la tradizione marxista, occupandosi quasi esclusivamente di The Making of the English Working Class, rifletteva un’impostazione “ormai parrocchiale” e “un po’ uggiosa”. Spero di dimostrare che non è così.
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Storiografia e militanza
Edward Palmer Thompson nasce nel 1924 da un padre inglese ex missionario metodista in India e da una ex missionaria americana, presbiteriana, cresciuta a Beirut – due genitori liberal e anti-imperialisti che si erano conosciuti in Palestina. Il padre aveva tradotto in inglese il poeta Tagore. Ricordando i suoi genitori, Thompson disse una volta: «sono stato educato nella giusta convinzione (che spero di aver passato ai miei figli) che i governi sono sempre e comunque menzogneri e che un governo debole è molto meglio di un governo forte».
Ottime scuole a Cambridge. A diciassette anni, seguendo il fratello maggiore William Frank, aderisce al Partito comunista britannico. Il fratello fu ucciso nel 1944 a 23 anni dopo che si era unito ai partigiani in Bulgaria. Edward rimase sempre fedele alla memoria del fratello, che gli ricordava le condizioni terribili in cui i comunisti avevano dovuto agire, i loro ideali internazionalisti e il campo del possibile che essi avevano aperto: ciò contribuì al profondo legame con l’Europa e con i popoli europei che Edward continuò a nutrire per tutta la vita.
Comandante di carri armati in Italia durante la guerra, Edward partecipò alla battaglia di Cassino. Nel 1948 si sposò con Dorothy Towers (1923-2011), giovane comunista londinese di origini modeste (una parte della sua famiglia proveniva da artigiani ugonotti rifugiati in Inghilterra), a sua volta studiosa di storia e docente. Fino al 1965 Thompson fu insegnante di letteratura, che diceva di amare più della storia, in corsi per adulti all’università di Leeds. In quel periodo si considerava un poeta e non uno storico: del resto oggi è ritenuto uno dei maggiori scrittori in prosa in lingua inglese. A distanza di anni, Eric Hobsbawm ricorda che, a differenza di sua moglie Dorothy, Edward «non collaborava molto attivamente» al gruppo degli storici marxisti, che si era costituito nel 1946 e durò per dieci anni fino al XX congresso del Pcus, preferendo il gruppo degli scrittori. A Leeds la coppia ebbe tre figli. Anni dopo Dorothy dichiarò che, frequentando l’ambiente operaio dello Yorkshire, lei e suo marito avevano avuto modo di conoscere persone con grande esperienza politica, da cui avevano imparato molte cose.
Con il libro su William Morris, uscito nel 1955, Thompson sottolinea l’importanza del desiderio e dell’appello alla coscienza nei processi di trasformazione sociale, venendo in tal modo meno a uno degli assiomi dell’ortodossia marxista, secondo cui sono le leggi economiche a determinare i processi storici. Nell’estate 1956, pochi mesi dopo la denuncia di Kruscev dei crimini di Stalin, E.P. Thompson e John Saville pubblicano il primo numero della rivista The Reasoner, in cui si dichiarano marxisti, precisando però che molto di quanto andava sotto la definizione di “marxismo” o di “marxismo-leninismo” andava riesaminato, e affermando che i valori marxisti andavano integrati con le più alte tradizioni della ragione e dello spirito umano e cioè dell’umanesimo. Nel terzo e ultimo numero della rivista, uscita nei giorni dell’intervento sovietico in Ungheria, scrisse che era sbagliato subordinare la morale e l’immaginazione alla politica e alla burocrazia; che era sbagliato eliminare i criteri morali dalla valutazione politica; che era sbagliato demonizzare il pensiero indipendente e incoraggiare le tendenze antintellettuali tra il popolo; e infine che era sbagliato sminuire il ruolo dei processi intellettuali e spirituali a vantaggio di processi inconsci delle forze sociali.
Dopo che il Partito comunista britannico lo aveva sospeso, Thompson ne uscì con altri settemila militanti, e fu tra i fondatori della rivista New Reasoner, che più tardi si sarebbe fusa nel periodico The New Left. In un intervento apparso nel 1957, ribadì i valori di un «umanesimo socialista», nell’Europa sia dell’Est che dell’Ovest, fondato sulla liberazione dalla schiavitù dal profitto, dalla burocrazia e dalla necessità economica. Capitalismo e stalinismo, scriveva, riducono gli esseri umani a cose, ad appendici di macchine: era giunto il momento che gli uomini guardassero alla ragione e alla coscienza, come esseri creativi, se volevano evitare quello che Marx aveva prospettato tra le soluzioni possibili, e cioè la distruzione reciproca delle classi in lotta e la fine della storia umana. Dinnanzi alla catastrofe incombente rappresentata dalla bomba atomica, gli uomini dovevano riconoscere la comune umanità, dopo decenni di guerre, camere a gas, campi di concentramento, napalm e ipocrisia politica. Come Lisistrata gridava «Siamo tutti Greci!», così l’umanità doveva gridare «Siamo tutti uomini!».
In quello stesso saggio Thompson denunciò lo stalinismo: un’ideologia antidemocratica, burocratica, alternativamente dispotica o paternalistica, che negava le capacità di agire dell’individuo. Le origini più prossime andavano rintracciate nell’esperienza post-rivoluzionaria dei Soviet, in cui una élite si era trovata a operare in una società priva di tradizioni democratiche e con un popolo indifferente o ostile, e percependo se stessa come una sovrastruttura che operava su una base materiale ed economica, ma non morale né intellettuale. Tuttavia parecchi elementi dell’ideologia stalinista andavano individuati nelle ambiguità del pensiero di Marx e ancora di più nel meccanicismo di Lenin. Marx infatti aveva detto che l’essere sociale determina la coscienza sociale, e Lenin aveva trasformato questa affermazione arrivando alla conseguenza «grottesca» secondo cui il ruolo della coscienza è di adattare se stessa alla logica obiettiva dell’evoluzione economica: con il risultato che la libertà dell’uomo è schiava della necessità, e che la causa del cambiamento sociale viene spostata dall’attività degli uomini a quella della necessità economica.
Dal 1958 Thompson è impegnato attivamente nella Campaigne for Nuclear Desarmament (CND). Nel 1960, come si è detto, è tra i fondatori, assieme alla moglie Dorothy, della rivista New Left, a cui collaborano, tra gli altri, Doris Lessing, Raymond Williams e Peter Worsley. Anni dopo, Worsley scrisse che molte idee della New Left venivano dalle vecchie tradizioni socialiste sull’autogoverno dei produttori, sullo sviluppo delle capacità umane e sulla partecipazione alle decisioni a tutti i livelli della vita quotidiana, in contrapposizione alla democrazia parlamentare e al governo dei politici e dei tecnocrati. Stuart Hall, altro esponente della New Left, avrebbe sottolineato l’influenza degli studi di G.D.H. Cole, obiettore di coscienza nella prima guerra mondiale e in seguito storico e docente a Oxford, che aveva messo in risalto la tradizione cooperativa e antistatalista del movimento operaio.
In due scritti politici pubblicati in un volume collettivo del 1960, Thompson ribadiva la proposta di quello che chiamava un «umanesimo socialista»: nessuna legge storica assoluta, nessun testo sacro, nessuno Stato che domini sull’uomo, nessuna catastrofe quale preludio al progresso, nessuna violenza rivoluzionaria, bensì impegno e attività per costituire una società umana con al centro l’uomo e non il denaro. La nuova società non si sarebbe imposta sulle macerie di una società distrutta, ma si sarebbe sviluppata grazie al rafforzamento degli istinti sociali e alla repressione e all’indebolimento di quelli competitivi. Riprendendo William Morris, Thompson ribadiva «il massimo allargamento delle richieste positive, l’impiego di capacità costruttive in una strategia consapevolmente rivoluzionaria, l’affermazione dei valori del bene comune». Le conquiste popolari – scriveva – sono state raggiunte non dall’attività parlamentare ma dall’azione diretta: «azione diretta per aumentare i salari, per migliorare le condizioni di lavoro, per ridurre l’orario di lavoro, per costituire le cooperative, per fondare gli asili d’infanzia». E spiegava: «È la più grande illusione dell’ideologia dell’apatia che gli uomini politici provochino gli eventi; mentre in realtà si limitano abitualmente a sanzionare, con misure legislative, gli eventi che sono già accaduti. […] Naturalmente dobbiamo mandare in parlamento un maggior numero di deputati socialisti; ma, in ultima analisi, sarà la realtà sociale a condizionare gli uomini politici, e non viceversa».
In quale tradizione culturale inserirsi? Nella tradizione rivoluzionaria inglese dei tessitori, dei Livellatori, del cartismo, dei portuali – una tradizione che «ha trovato la sua espressione più naturale nel linguaggio della rivolta morale» e «che potrebbe portare dei fermenti nuovi nel mondo socialista».
Tre anni dopo, come abbiamo visto, Thompson ripercorse le origini della tradizione rivoluzionaria inglese nel libro The Making of the English Working Class, dimostrando come la classe operaia non sia nata dai cambiamenti economici – dalle forze produttive e dai rapporti di produzione –, ma dall’azione consapevole di chi l’aveva costruita. Il resoconto delle vicende non seguiva un percorso teleologico o lineare. In altre parole la cultura degli artigiani e dei lavoratori a domicilio, artefici della classe operaia, era analizzata nei caratteri propri e nel proprio contesto sociale, e non sulla base di un modello normativo rappresentato dall’ideologia socialista. Anni dopo Thompson avrebbe scritto che gli uomini e le donne di cui si occupava come storico agivano per se stessi, non erano «proto-niente». Il che significa, tra le altre cose, che la gente deve fare qualcosa per se stessa piuttosto che aspettarsi qualcosa dalla storia.
Seguirono polemiche. Thompson ribadì le proprie tesi e, ricordando il senso delle proteste contro la prima industrializzazione nell’Inghilterra di fine Settecento, spiegò i motivi del suo rifiuto nei confronti di qualsiasi racconto storico che identificasse il progresso umano con lo sviluppo economico.
Nel 1965 Thompson si trasferì nel Centre for the Study of Social History dell’università di Warwick: continuò insomma a rimanere un uomo di provincia, lontano dai centri accademici di Oxford e Cambridge, e da grandi città come Londra. Tre anni dopo la moglie trovò lavoro all’università di Manchester. In questo periodo Thompson approfondì gli studi sulla società inglese settecentesca in una prospettiva “dal basso”, pubblicando nel 1967 Time, Work-Discipline, and Industrial Capitalism e nel 1971 The moral economy of the English crowd in the eighteenth century, che attrassero l’attenzione della storia sociale accademica. Il primo saggio analizzava le reazioni delle prime comunità proletarie all’introduzione della nuova disciplina del lavoro capitalistico. Il secondo saggio pone il cibo e non il profitto come la priorità delle società rurali: inoltre, contrapponendosi alla visione tradizionale che vede nei moti per il pane dei tumulti spontanei e violenti a opera di una folla affamata, il saggio mostra come la folla agiva in forme ritualizzate, che la violenza era in larga misura simbolica e non rivolta contro le persone, che spesso i tumulti erano guidate da donne, e che infine le proteste avvenivano sulla base di una “economia morale” (giusto prezzo, diritti tradizionali, difesa del consumatore povero).
Nel 1971 Thompson lasciò l’università di Warwick e diventò uno scrittore freelance, ottenendo occasionalmente qualche fellowship negli Stati Uniti.
Nel volume Whigs e cacciatori del 1975 [trad. it. Ponte alle Grazie, Firenze 1989, da cui si cita], Thompson applicò lo schema interpretativo dell’economia morale ai conflitti sui diritti di caccia nelle foreste inglesi nel Settecento: il conflitto vedeva da un lato i diritti consuetudinari che rifiutavano di riconoscere il diritto di proprietà privata sugli animali selvatici, e dall’altro le nuove leggi penali che estendevano la pena di morte a una cinquantina di reati, tra cui il bracconaggio, finora puniti in modo molto meno severo. In altre parole, «ciò che prima era riconosciuto come diritto d’uso, consuetudine, veniva ora ridefinito come crimine». Il libro dimostrava quanto fosse schematico interpretare la legge come una semplice sovrastruttura sovrapposta alla realtà delle forze produttive e dei rapporti di produzione: «Non regge più la classica distinzione fra struttura e sovrastruttura» (p. 279). Inoltre, lontana dall’essere basata sul consenso e sulla deferenza, la società inglese del Settecento rivelava l’esistenza di «concezioni e pratiche diverse della proprietà e dei relativi diritti», di «diritti e norme alternativi» (pp. 280-281).
Nel Postscriptum alla seconda edizione del libro su William Morris del 1976, Thompson enfatizzava molto di più, rispetto alla prima edizione di vent’anni prima, il ruolo delle aspirazioni e delle speranze nella visione rivoluzionaria e romantica al centro della sua analisi. Richiamandosi all’utopia di William Morris, accusava la tradizione marxista di mancare di coscienza morale e di cercare la massimizzazione dello sviluppo economico. Nelle interviste di quel periodo, dichiarava che il marxismo aveva cancellato «la dimensione morale dal suo lessico», che invece si ritrovava in William Morris e in William Blake: la causa stava nella distinzione marxista tra struttura e sovrastruttura che rifletteva, seppur rovesciandola, la visione capitalista dei bisogni umani, definendoli in termini puramente economici.
Per gli stessi motivi Thompson polemizzò in quel periodo con il marxismo strutturalista di Althusser, perché, proponendo la categoria di “modo di produzione”, cancellava il vocabolario dei progetti e dei sentimenti umani e le particolarità storiche. Lo strutturalismo – «il senso comune del tempo, l’ideologia del senso comune» – costringeva gli individui «entro strutture in cui nessun movimento è possibile». Stalinismo e strutturalismo, entrambe figlie della guerra fredda, erano ugualmente ideologie della conservazione: entrambi «pretendono di offrire la storia come processo senza soggetto, entrambi concordano nella espulsione dalla storia dell’intervento umano, entrambi presentano la coscienza e le esperienze umane come cose automotivate».
Nel 1979 Thompson comincia un’intensa campagna contro il progetto della Nato di disporre missili nucleari a medio raggio in Europa, impegnandosi a tempo pieno nella campagna per l’European Nuclear Disarmement (END). In un dibattito tenuto nel 1984 con Eric Hobsbawm, Cristopher Hill e Perry Anderson, Thompson disse che negli ultimi cinque anni aveva tenuto discorsi in 500 incontri e visitato 19 o 20 paesi. Nel corso di tale frenetica attività, continuata fino al 1991, Thompson ribadì che non era sufficiente contestare i missili in Europa, ma che bisognava strappare Est e Ovest (l’Europa era ancora divisa nei due blocchi) al dominio militare delle due superpotenze, chiedendo la smilitarizzazione in ogni parte del continente («il nostro continente»), e riaffermando che la pace e la libertà andavano perseguite assieme. Hobsbawm ha scritto, e altri l’hanno ripreso, che Thompson occupò nel movimento per la pace degli anni Ottanta la posizione avuta da Bertrand Russel nei primi anni del movimento per il disarmo nucleare.
Nel 1993, poco dopo la morte, uscì il suo ultimo libro, dedicato a William Blake e ai circoli dei muggletoniani [cito dall'ed. it. [ed. it.: Apocalisse e rivoluzione. William Blake e la legge morale, Raffaello Cortina, Milano 1996], di cui Thompson aveva scoperto l’archivio in circostanze romanzesche. Aveva conosciuto infatti l’ultimo fedele della chiesa muggletonia, un coltivatore di frutta di nome Philip Noakes, che durante la seconda guerra mondiale aveva salvato dai bombardamenti l‘archivio della chiesa, che si trovava a Londra, trasportandolo entro cassette di mele nella sua fattoria e poi in un magazzino nel Kent. Dalle carte di questo archivio emergeva la storia di circoli di amici che si trovavano in stanze private di qualche pub di Londra nel Settecento chiamandosi “amici”, leggendo gli scritti dei profeti e cantando canzoni teologiche: diffondevano scritti, copiavano i testi delle canzoni, tenevano corrispondenza con gli amici fuori Londra, aiutavano i loro compagni ammalati, bisognosi e anziani; rifiutavano i giuramenti e l’uso delle armi (pp. 115, 125-126). Un testimone coevo li descrive come un «gruppo di gente allegra, che bevono birra e fumano tabacco» e che si incontravano la domenica sera «in oscure taverne nelle parti periferiche di Londra per parlare di quelli della loro setta che li hanno preceduti» (p. 140). «A me piacevano questi muggletoniani – scrisse Thompson –, ma è chiaro che non sono tra i vincitori nella storia. Non volevano esserlo» (p. 127). Al contrario, i muggletoniani – artigiani e bottegai – mettevano in discussione «l’intera sovrastruttura della cultura e degli insegnamenti morali e dottrinali in quanto ideologia», sfidando «le elaborazioni cruciali della letteratura egemonica, che costituiva “il senso comune” dei gruppi allora dominanti», e dimostrando «un senso di indipendenza robusto, radicale» e una «ostinata mancanza di deferenza, sia sociale sia intellettuale» (pp. 158, 160).
Il capitolo da cui ho tratto queste citazioni si intitola Antiegemonia (pp. 153-163). Il libro rivela così un ulteriore oggetto di polemica, e cioè la categoria di “egemonia”. Come si è detto, questa polemica era diretta contro Althusser e lo strutturalismo. Ma anche Foucault, Marcuse e molti della Scuola di Francoforte, che pure «forniscono elementi costruttivi e importanti», andavano liberati «da questa immagine terribile, di una società che esercita un dominio assoluto sulla gente». Al contrario, come Thompson disse in un’altra intervista, gli esseri umani erano «agenti, per quanto agenti molto limitati, e spesso sopraffatti dalle determinazioni».
Riassumendo, Thompson non ha mai rinnegato i valori del comunismo conosciuti e messi in pratica in gioventù. Nel 1960 scrisse un pamphlet contro l’ideologia della passività diffusa nei consumatori e negli intellettuali dei paesi della Nato, che diffidavano di qualsiasi progetto di trasformazione sociale in nome di una sorta di “apologia del quietismo” (di cui le opere di Orwell, morto dieci anni prima, gli apparivano l’emblema). Viceversa Thompson difendeva il movimento comunista degli anni Trenta e Quaranta, ricordandone il «contenuto profondamente democratico, nelle innumerevoli iniziative spontanee e nel profondo senso di responsabilità politica della base». Su questo punto, Thompson non cambiò idea. Alla fine degli anni Settanta, dichiarava di essere «un comunista impenitente del periodo della seconda guerra mondiale», quando «c’era una grande solidarietà internazionale», e «un’enorme self-activity». Non è sbagliato perciò, come ha osservato David Goodway, allievo di Hobsbawm e studioso della sinistra libertaria britannica, concludere che, malgrado il carattere libertario e antistatale delle sue posizioni, Thompson ha sempre mantenuto una lealtà sentimentale al comunismo pre-1956, al pari della generazione formata negli anni Trenta riunita attorno alla New Left. Tuttavia mi sento di dire che Thompson correggerebbe questo giudizio, osservando di essersi mantenuto fedele al comunismo della sua giovinezza non malgrado, ma grazie alle sue propensioni libertarie e antistatali.
Le autodefinizioni hanno a che vedere, come si sa, con il contesto dell’interazione. In una tavola rotonda del 1984, Thompson disse che in un paese come l’Inghilterra della signora Thatcher, in cui la stampa popolare stigmatizzava come “marxista” qualsiasi forma di radicalismo, nessuno negherebbe di esserlo. Era una cosa che amava ripetere. Qualche anno dopo lo ribadì: «Dipende con chi parlo. Se parlo con antimarxisti rigidi, tendo a rientrare nel binario marxista, mentre quando parlo con marxisti dogmatici mi sento subito spinto ad abbandonare il binario stesso».
Nel 1958 si definì un «comunista dissidente»: e così fece in una famosa lettera aperta al dissidente polacco Leszek Kolakowski del 1973. Negli anni Ottanta gli capitò di definirsi un comunista libertario. In un’intervista di un anno prima della morte, disse di supporre di essere «una sorta di postmarxista», e anche questo era un modo per segnalare i suoi legami con il marxismo. La vedova Dorothy scrisse che suo marito esitava a chiamarsi marxista, preferendo dire che scriveva dentro la tradizione marxista.
Thompson si allontanò dall’ortodossia marxista in punti importanti: abbandonò la distinzione tra struttura e sovrastruttura; riconobbe un ruolo decisivo alla volontà e alle aspirazioni degli individui; individuò il meccanismo della trasformazione sociale non nel determinismo delle leggi ma nella possibilità aperta dalla rivolta morale; mantenne una profonda diffidenza nei confronti dello Stato, della burocrazia e della centralizzazione; mostrò fiducia nell’attività autodeterminata e nel protagonismo delle classi lavoratrici. Ma in un punto importante Thompson rimase fedele a un’impostazione marxista: laddove, come ha osservato Edoardo Grendi, ritiene «che le relazioni interindividuali acquistino particolare significato strutturale come relazioni di classe».
Concludo notando che chi studia l’attività storiografica e politica di Thompson attraverso i suoi scritti pubblici, come del resto sto facendo io, tende a isolarne la figura, tralasciando o mettendo sullo sfondo il matrimonio e l’intera vita passata con la moglie, anch’essa militante e studiosa di storia. Ma chi ha conosciuto Edward da vicino tende a fare un ritratto di coppia. Penelope Corfield per esempio, amica e collega di Dorothy Towers, dopo la morte di quest’ultima ricorda i Thompson – marito e moglie – mettendo in evidenza la loro stretta unione e la loro complementarietà nel compito di aggiornare e di umanizzare il marxismo. Pur nella comune militanza, Edward e Dorothy avevano diverse inclinazioni: lui era sia uno storico che un teorico marxista, mentre lei, studiosa del Cartismo e della regina Vittoria analizzata attraverso le categorie di genere e di classe, preferiva la ricerca d’archivio ed era aliena da interessi teorici. Bryan D. Palmer, che ebbe famigliarità di studi con Edward, sottolineò il costante e profondo supporto e incoraggiamento reciproco di marito e moglie, e l’influenza della coppia nell’ambiente politico e nel mondo accademico per quasi cinquant’anni. Dorothy ricorda che raramente lei e il marito lavoravano sugli stessi temi, ma che sempre ciascuno leggeva e discuteva i lavori dell’altro. Gli studenti del periodo di Leeds ricordano la casa piena di gatti, dove i Thompson – marito e moglie –accoglievano gli studenti offrendo loro grandi dolci. E John Saville, che affiancò Thompson nelle aspre discussioni del 1956 e degli anni seguenti, ricorda che Edward e Dorothy erano impegnati fianco a fianco, e che spesso egli indirizzava le sue lettere a tutti e due.
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Giovanni Levi dice
Caro Piero, ho letto il tuo Thompson, mi è parso molto buono e aggiungo una cosa che dalle tue pagine non è subito evidente. T. ha progressivamente cambiato modo di leggere e raccontare in base all’idea, giusta, che la storia di generale propone domande, lasciando la specificità infinita delle risposte locali. Così si vede il suo progressivo passare alle cose locali, minute, per suggerire domande generali. Di qui il suo progressivo avvicinarsi all’antropologia più di quando studiava la classe lavoratrice inglese. E questo ha moltiplicato l’interesse per i simboli come una forma rivelatrice della cultura (es. lo charivari). Insomma, anche lui non era una cosa già fatta, ma una cosa in mutamento, anche per il contesto mutante in cui viveva e vivevamo.
manlio calegari dice
grazie! Davvero grazie a Sponza e Brunello. mc