a cura di Andrea Dilemmi
Riprendiamo alcune pagine da una recente raccolta di scritti dedicata a Carlo Aldegheri, basata su interviste che gli furono fatte a Santos, in Brasile, poco prima che morisse (nel 1995). Nella sua introduzione, Andrea Dilemmi ripercorre la biografia di Aldegheri, nato nel 1902 nel Veronese. I brani di un’intervista di Aldegheri del 1991 si riferiscono alla sua infanzia e adolescenza, fino alla fine della Prima guerra mondiale.
1. Dal Far East al mondo, di Andrea Dilemmi
Nato nel Veronese agli inizi del secolo in una famiglia di braccianti, Aldegheri aveva fatto il muratore e il calzolaio in Francia, partecipato come volontario antifranchista alla guerra di Spagna, dove aveva conosciuto la futura moglie Anita Canovas Navarro. Profugo in Francia, era stato riconsegnato alla polizia fascista italiana che l’aveva mandato al confino e in carcere, da cui era riuscito a fuggire. Tornato nel Veronese, aveva preso parte alla Resistenza, per emigrare nel 1950 a Santos, nello Stato di San Paulo, in Brasile. Qui, nell’ultimo periodo della sua vita incontrò un gruppo di punk metropolitani che vollero conoscerlo e intervistarlo per allacciarsi a una tradizione che la dittatura in Brasile aveva cancellato.
Del tempo trascorso da Carlo Aldegheri a Verona non sappiamo molto. O, meglio, non molto di più di ciò che lui stesso ha raccontato in occasione delle interviste che leggerete nelle pagine che seguono. Ma possiamo dire con certezza, per cominciare, che nella sua vita Carlo Aldegheri ha attraversato molti confini.
Il primo è stato quello dei condizionamenti famigliari e della condizione di origine. Rifiutando, dell’immaginario del mondo rurale, quell’aspetto che vedeva nella remissività e nel fatalismo l’unica strategia possibile di sopravvivenza, di riproduzione, Carlo ancora ragazzino scappa dal suo destino di “servo della gleba”: ultimo figlio di una prole numerosa, venduto come bracciante al parón di turno al pari dei suoi fratelli, sparsi come bestie nei campi. “Ai miei tempi c’erano nei campi più bestie a due che a quattro gambe”, ricorda Dino Coltro1. […]
La Grande Guerra rappresenta per lui la prima opportunità di uscire dal ristretto ambiente famigliare, ma le condizioni di necessità lo portano in quel periodo ad attraversare anche un altro confine: quello della “temperanza”, della legalità. Durante il conflitto Carlo si dedica dapprima a piccoli furti di benzina, poi finisce arrestato con un gruppo di amici per un modesto episodio che rimanda a una pratica antica: il furto campestre, che qualche decennio prima, alla fine dell’Ottocento, aveva assunto le proporzioni di “una forma di lotta di massa”.
Finita la guerra, negli anni in cui esplodono disoccupazione e conflitti sociali, Carlo comincia a vagare per la regione e passa a qualche “colpo” più avventuroso: “A quell’epoca, avevo vent’anni e qualcosa, ero forte e coraggioso, dormivo in strada, del tutto senza controllo e anche senza educazione. Non mi vergogno a dirlo, è la verità!”. E il racconto, in poche righe, si fa quello di un sorprendente western di provincia ambientato nel Far East del Veneto rurale che solo allora comincia a industrializzarsi. Con tanto di assalto ai treni merci insieme a una banda di rapinatori a cavallo: “La miseria ci obbligava a farlo”. […]
Per questo periodo non abbiamo conferma diretta, dunque, della maturazione politica che descrive invece Berardo Taddei2, il quale riporta la testimonianza di una persona che aveva conosciuto Aldegheri a quel tempo:
Verso i diciotto anni egli incominciò a capire che i lavoratori avevano diritto ad una esistenza meno tribolata e che dovevano unirsi per combattere il padronato che li sfruttava. Così il giovane Aldegheri si iscrisse al Partito Socialista Italiano, il cui segretario di sezione era allora Giovanni Perlini, che, passato poi al partito comunista, fu costretto, a distanza di qualche anno, ad espatriare. […] Anche nel piccolo comune di Colognola ai Colli non mancavano le minacce e le violenze dei fascisti, tanto che Carlo Aldegheri fu costretto, nel 1922, ad espatriare.
[…] Dopo aver smentito lo stereotipo del contadino remissivo, all’estero Aldegheri smentisce in prima battuta anche quello dell’emigrante laborioso. Non perché non abbia voglia di lavorare – tutt’altro: prende infatti la decisione di emigrare soprattutto per motivi economici, e dalle sue parole si percepisce la condivisione da parte sua di un’etica “proletaria” del lavoro – ma perché non trova subito una collocazione adatta e deve arrangiarsi fingendosi pratico di lavori, come quello del muratore, in cui è in realtà del tutto inesperto. L’episodio ci ricorda che l’emigrazione riguarda anche lavoratori con scarsa o nessuna qualifica, mette di fronte alla necessità di reinventarsi una vita e che quelle degli emigrati non sono necessariamente storie di successo.
Ma l’emigrazione è anche un “romanzo di formazione” in cui il protagonista si trasforma per approdare non solo a una nuova “patria”, ma anche a una diversa visione di sé, a una differente identità. Nel caso di Aldegheri, complicato dalle complesse e drammatiche vicende europee della metà del Novecento in cui si trova coinvolto, l’approdo è per un verso al mestiere di calzolaio che, come ci ricorda spesso con orgoglio artigiano, non solo gli garantisce la vita ma gliela salva in più occasioni, e per l’altro alle idee anarchiche, che conserverà fino alla morte.
Trasferitosi in Spagna, dove incontra l’amore di Anita, dalla fine degli anni trenta Aldegheri si deve confrontare con l’attraversamento di un altro confine, quello di ordine morale relativo alla pratica della violenza e alle sue conseguenze. In più occasioni, nelle sue interviste, benché non ne escluda la necessità e perfino in taluni casi l’utilità nei conflitti sociali, si avverte la sua repulsione nei confronti dell’uso della forza; avversione maturata passando attraverso le esperienze traumatiche delle due guerre – quella di Spagna e la Seconda guerra mondiale – e dei lunghi periodi di detenzione trascorsi nei campi di concentramento.
Profugo in Francia e poi prigioniero riconsegnato alla polizia fascista, Aldegheri viene quindi rimpatriato e inviato al confino. Qui, tra gli altri, conosce l’anarchico veronese Giovanni Domaschi, con cui condivide il trasferimento al campo di concentramento di Renicci d’Anghiari nell’estate del 1943. Fuggito dal carcere di Arezzo, Aldegheri riesce nel gennaio 1944 a tornare a Verona, dove si stabilisce in casa del padre, a Caldiero, prendendo parte alla Resistenza.
Di nuovo, le informazioni che Carlo ci lascia sulla sua attività in questo secondo periodo veronese sono molto scarne. Dice di aver preso parte come protagonista all’attività del Comitato di liberazione nazionale e di essere poi stato arrestato con “un colonnello italiano che non voleva aderire alla Repubblica di Salò”. Secondo Taddei, una volta tornato a Verona Aldegheri subito riprese i contatti con i compagni di fede politica, fra cui c’erano Giovanni Battista Domaschi, Francesco Viviani, Guglielmo Bravo, il colonnello Emilio Silvio [recte Silvio D’Emilio] ed entrò a far parte del Comitato di Liberazione, con il compito di organizzare la Resistenza a Caldiero e a San Bonifacio.
[…] Arrestato il 10 settembre 1944 per l’attività svolta nel movimento di liberazione, Aldegheri viene poi rinchiuso nel campo di concentramento di Bolzano, dove si salva dalla deportazione in Germania grazie al suo mestiere di calzolaio.
Liberato nel maggio 1945, Carlo rientra a Verona, dove riesce a riunirsi con la moglie Anita e sua figlia. Ma le condizioni di vita nel dopoguerra sono molto precarie, e i nuovi timori causati dall’inizio della Guerra fredda si aggiungono alla delusione per il mancato raggiungimento delle speranze maturate nella lotta antifascista. Aldegheri è attivo nell’Uvam (Unione veronese antifascisti militanti, poi sezione dell’Anppia) con Randolfo Vella, “il senatore Caldo Caldera, Attilio Argentoni e Napoleone Travagliati. Ma amareggiato per le epurazioni troppo blande […], egli, che aveva sognato per anni di vivere nella sua terra, riprese la via dell’esilio [e] andò in Brasile”.
Decisivi per fargli prendere nuovamente la decisione di emigrare, racconta Aldegheri, furono il licenziamento di Anita e il conseguente atto di protesta (il lancio di un ordigno artigianale contro una vetrata della fabbrica, la Tiberghien di San Michele Extra), dopo un inutile tentativo di colloquio con il proprietario. Nonostante gli anni trascorsi e le esperienze di vita maturate, sembra quasi un déja-vu: ancora difficili condizioni di vita, delusione, rabbia e ribellione alla base della scelta di partire. Questa volta diretto verso una meta molto più lontana, oltre l’oceano, e senza ritorno.
Una volta in Brasile, Carlo trova finalmente, dopo anni di duro lavoro, un po’ di benessere economico, un luogo caldo e accogliente come sognava la moglie Anita, e un nuovo ambiente di compagni anarchici con cui entrare in relazione. Con il passare del tempo, però, anche in Brasile deve fare i conti con nuove delusioni e un senso di isolamento e solitudine.
Proprio allora, negli ultimi anni di vita, Aldegheri si trova ad attraversare non senza difficoltà un altro confine, questa volta di carattere culturale, generazionale: il difficile dialogo, sviluppatosi poi in una vera e propria relazione, che si instaura tra la coppia di anziani coniugi libertari e alcuni giovani anarco-punk di San Paolo [negli anni Ottanta e Novanta del Novecento, ndr]. Per gli Aldegheri e l’incontro con interlocutori cui affidare, tramite il passaggio simbolico dei libri che raccolgono i testi dei padri fondatori dell’anarchismo, il testimone della loro esperienza di militanza; per i giovani punk metropolitani, la possibilità di entrare in contatto, attraverso il racconto di esperienze vissute in prima persona, con gli eventi cardine della storia del movimento nella prima metà del secolo, come la guerra di Spagna, la prigionia, la lotta antifascista.
[…] Quella di Carlo Aldegheri è dunque non solo una storia transnazionale, vissuta attraverso quattro Paesi e due continenti, ma a tratti anche transculturale: dal Far East del Veneto contadino all’attivismo anarchico e alle inedite contaminazioni di un mondo avviato verso imponenti trasformazioni globali, anche se purtroppo non nel verso auspicato dal nostro protagonista: quello di una maggiore libertà e giustizia sociale.
2. «Sono vivo perché ero un calzolaio», di Carlo Aldegheri
L’intervista a Carlo Aldegheri è stata realizzata da Paulo Cesar de Amaral nel 1991.
Sono vivo perché ero un calzolaio, i miei compagni morirono tutti. Sono l’ultimo figlio di un contadino di Verona, in Italia. Appena divenni adolescente mio padre mi vendette a un proprietario terriero del Veneto. Una pratica comune all’epoca, in quella regione, perché le famiglie si moltiplicavano, ma la terra non bastava per tutti. La vita cominciava già in schiavitù! Non appena i suoi figli compivano dieci, undici anni, mio padre li vendeva. Cedeva la prole con contratto annuale, in cambio di cinquanta lire, se ben ricordo.
Nell’infanzia avevo imparato il mestiere di calzolaio, la disoccupazione nelle città aumentava, poi arrivò la Prima guerra mondiale. A 14 anni mi mandò presso una fattoria che aveva molto bestiame e diversi uliveti, con tutto il lavoro da fare manualmente, dato che in Veneto non esistevano trattori. La giornata nei campi cominciava alle cinque del mattino e proseguiva fino alle nove di sera.
Tutti i giorni la stessa routine senza soste, e il capo ci trattava come animali. Non resistetti quattro mesi e scappai di nuovo a Verona. I miei fratelli proseguirono con questa vita fino ai 21 anni, tanto che ho la convinzione che il mio fratello più vecchio sia rimasto più basso del normale per aver lavorato troppo. Da bambino, lo lasciavano dormire solo tre o quattro ore al giorno. Grande lavoratore, sempre obbediente, alla fine rimase quindici centimetri più basso degli altri fratelli.
[…] Seppi che era scoppiata la Prima guerra mondiale [aveva 12 anni, ndr] e andai a lavorare per l’esercito. Dovevo pavimentare strade, senza asfalto, tutte di pietra. Guadagnavo molto poco, ma era sempre meglio che in campagna. Potevamo mangiare il rancio dei militari e non si lavorava più di dieci ore al giorno. Questo in tempo di guerra. Finita la guerra finì anche il lavoro. Fu quando cominciai a viaggiare per il Veneto, lavoravo in una città come calzolaio, facevo qualsiasi cosa, a volte non lavoravo nemmeno. A quell’epoca, avevo vent’anni e qualcosa, ero forte e coraggioso, dormivo in strada, del tutto senza controllo e anche senza educazione. Non mi vergogno a dirlo, à la verità!
Durante la guerra avevo lavorato anche in un campo della Royal Air Force, che aveva diverse basi in Italia. Gli inglesi lasciavano la benzina fuori dagli accampamenti e io la rubavo insieme a due o tre amici. C’erano casse con quattro taniche da dieci litri l’una, che la gente rubava e vendeva nelle città. Tutti volevano la benzina da usare come detergente. La barattavo con cibo e tiravo avanti così.
Un giorno, il mio capo al campo di aviazione andò a casa da mio padre a dire che rubavo la benzina… Che rubavo era vero, ma lui non aveva prove. Oltretutto, anche il capo italiano rubava la benzina, d’accordo con alcuni militari inglesi, solo che la trasportava con il camion della Royal Air Force in una città vicina che distava una ventina di chilometri e la scambiava per vino Marsala, un liquore delizioso.
Mio padre mi sgridò e non servì a niente dire che il capo italiano era più ladro di me. Ma non mi picchiò, perché se lo avesse fatto non sarei più tornato a casa. E portavo sempre un po’ di soldi a casa, quindi non mi picchiò. Alla fine gli inglesi mi trasferirono in un’altra pista di atterraggio.
In casa non avevamo niente, c’erano ben poche cose, avevamo giusto un piatto a testa con le posate. Eravamo poveri, capisci? Nonostante questo, mio padre fece crescere quindici figli. Alcuni lavoravano già fuori casa, ma comunque guadagnavano poco. Quel che è certo e che negli anni riuscì a mettere da parte un gruzzoletto, con cui comprò una casa e un terreno a Verona. Ciò gli permise di passare la vecchiaia senza lavorare, nonostante non ricevesse alcuna pensione. Non ce la sognavamo nemmeno la previdenza sociale agli inizi del secolo. Chi si faceva male al lavoro doveva arrangiarsi da solo, se era povero, noi stessi facevamo una donazione alla famiglia dell’infortunato. Ci si aiutava. Perciò ti dico che il mondo va avanti, sempre rivolto al futuro.
Ho fatto cose che oggi non farei, le ho fatte per necessità, non per ignoranza. A questo proposito ti racconterò di un episodio che le persone che si dicono oneste non approverebbero. Anche se esistono persone considerate rispettabili che fanno cose peggiori di questa.
[…] Era la fine della Prima guerra, nel 1918, e non riuscivo a trovare lavoro… Non c’era niente, niente di niente… E allora sai cosa si faceva? Si rischiava la vita tutti i giorni, assaltando il treno a cavallo. Andavamo dietro il treno tra le montagne, con una banda di uomini a cavallo e dovevamo saltare dentro i vagoni e buttare la merce giù dal treno. La miseria ci obbligava a farlo.
Mi ricordo che a volte trovavamo stoffa e vestiti che vendevamo a basso costo. In questo periodo non andavo più a casa perché mia madre era molto rigida sugli orari di rientro e io non arrivavo mai a casa prima delle nove di sera. I miei genitori non sapevano cosa facevo, ero sempre fuori e non tornavo neanche per mangiare… Sempre rischiando la vita…
Un giorno due buoni amici, che avevano un asinello, mi invitarono ad andare con loro a fare legna. È stata una cosa assurda ma e giusto che la racconti. Andai insieme a loro, e non certo per la legna, visto che mio padre ne aveva in casa a sufficienza per tutto l’anno. Ci incamminammo verso la campagna per vedere se incontravamo della legna secca da caricare sull’asinello. Mentre passavamo per una strada in mezzo ai campi, avvistammo un albero morto, completamente secco, pieno di formiche. L’unica cosa per cui quell’albero poteva servire ormai era come legna da ardere. Ci avvicinammo con l’asinello e lo caricammo, ma io non ne presi neanche un ramo, ero andato solo per la compagnia. Tornai a casa a dormire. Il caso volle, purtroppo, che il proprietario di quel terreno, accortosi che mancava un albero, ci denunciò alla polizia che ci arrestò. Mi condannarono a sette mesi di prigione. Quando si concluse il processo mi liberarono immediatamente, perché non avevo ancora compiuto diciott’anni, ma gli altri rimasero in carcere per più di un anno. Questo per dire come la legge fosse severa: io che avevo solo accompagnato degli amici fui privato della libertà per sette mesi.
Nota. Tratto rispettivamente da Andrea Dilemmi, Dal Far East al mondo, in Due continenti, quattro paesi. Carlo Aldegheri: vita di un anarchico da Verona al Brasile, trad. dal portoghese di Marcello Stefinlongo, ed. it. a cura di Andrea Dilemmi, con un contributo di Natale Musarra, Cierre-Biblioteca G. Domaschi, Sommacampagna-Verona 2021, pp. 7-14 (con alcuni tagli e senza note); intervista a Carlo Aldeghieri, a cura di Paulo Cesar de Amaral (1991), ivi, pp. 59-91 (cap. Senza patria, senza padrone; pubblicata per la prima volta in Tchau Italia, Ciao Brasil, a cura di Cremilda Medina, Editora da Universidade de São Paulo (Usp), São Paulo 1993).
L’edizione originale del volume curato da Dilemmi è uscita in Brasile nel 2017 (Carlo & Anita Aldegheri. Vidas Dedicadas ao Anarquismo, Nucleo de estudos libertarios Carlo Aldegheri-Centro de Cultura Social, Guaruja-Sao Paulo SP 2017).
Il titolo scelto per l’edizione italiana, come spiega Andrea Dilemmi nell’introduzione (p. 15), è “velato rimando” al vecchio libro di Sandro Pertini (“figura che ricorre più volte nel libro”), Sei condanne, due evasioni (Mondadori, Milano 1970), e a quello di Benedict Anderson, Sotto tre bandiere. Anarchia e immaginario anticoloniale (manifestolibri, Roma 2008, ed. or. 2005), “uno dei primi testi che ha esplicitamente affrontato la circolazione delle idee e degli attivisti anarchici attraverso i continenti”.
Nonno Egio dice
Orgoglioso