L’articolo di Enrico Trevisiol che pubblichiamo è un’intervista sui generis a Mario Bonifacio, partigiano, sull’8 settembre 1943. In realtà è più l’incontro fra due persone di generazioni molto lontane fra loro che ragionano di guerra e pace, di resistenza e non violenza a partire dall’esperienza dell’intervistato durante una data chiave per la storia dell’Italia repubblicana. A partire da quell’evento il colloquio arriva al tempo presente, al fascismo che ritorna, alla guerra in Ucraina e la corsa al riarmo che questa sta portando in Europa e nel mondo.
Enrico Trevisiol
L’otto settembre quarantatré raccontato da Mario
Per uno che nasce ottanta e rotti anni dopo un evento storico significativo, non è mica facile capire l’importanza di quel fatto, capire i risvolti sociali, politici ed economici che quell’evento ha provocato ottanta e rotti anni dopo. Ma immagino che sia così per tutti gli episodi storici significativi. Quelli accadono, e quando accadono sono solo fatti, sono semplicemente il presente, la gente li vive e basta. Poi però il tempo passa, si tirano delle somme, perché si tirano sempre delle somme, anche nella storia, e viene fuori che ci sono un sacco di cose da raccontare di quel presente.
Ed è sicuramente meglio che a raccontarle siano persone che quel presente l’hanno vissuto. Perché è vero che la memoria è fallace, ma vuoi mettere ascoltare la storia di uno che l’ha vissuta, rispetto a uno che l’ha sentita da qualche parte e che te la riporta? Per questo vado da Mario Bonifacio, vado proprio a casa sua, in una via di cui non si dice il nome. Mario Bonifacio è un uomo nato nel 1928, quindi deve avere più o meno novantacinque anni. Si vede, ma non si vede per niente. Si vede per via del bastone, per via di quei capelli candidi, dei timpani difettosi, le rughe e tutto il resto; non si vede per via di quegli occhi azzurri, senza un velo di cataratta, azzurri e basta, e per quello che dice, e come lo dice.
Ci accomodiamo accanto a una scrivania della sua taverna. Gli chiedo dell’otto settembre e lui mi dice che l’otto settembre 1943 c’era, era un adolescente. E che quell’otto settembre era a Pirano d’Istria, dove era nato, e c’era un grande clima d’attesa in quei giorni. Era dal venticinque luglio che c’era un clima d’attesa, a dire la verità, da quando Badoglio aveva detto che la guerra sarebbe continuata. Il clima d’attesa c’era perché tutti sapevano che la guerra non era cosa da fare, che non c’erano le risorse, che l’Italia era allo stremo, lo sapevano proprio tutti, anche Mario Bonifacio. Quello che non sapevano era che l’Italia stava già preparando le trattative segrete per l’armistizio. Solo che invece qualcuno lo sapeva, e quel qualcuno erano i tedeschi.
«I tedeschi che erano già in Italia, avevano già capito tutto. La nostra aviazione era ormai inesistente, gli alleati bombardavano quello che volevano: ponti, strade, ferrovie, fabbriche e città (c’era stato il primo bombardamento di Roma). I tedeschi sapevano benissimo che dovevamo toglierci dalla guerra, ed erano già pronti per l’aggressione all’Italia molto prima dell’armistizio».
Ma dato che gli italiani non sapevano nulla delle trattative quando l’armistizio era stato annunciato pubblicamente, tanti di questi italiani, compreso Mario, avevano esultato. Eccome se avevano esultato. La pace era il loro pallino fisso, basta privazioni, basta lutti, evviva la pace. Quasi tutti avevano festeggiato, a parte qualcuno, qualche Cassandra, che aveva detto cose tipo “può darsi che ora cominci il peggio”. Saggezza popolare, sesto senso, chissà, fatto sta che queste Cassandre avevano ragione. Nemmeno il tempo di festeggiare.
«Siamo andati a dormire contenti e ci siamo svegliati con il rumore delle cannonate. Era Trieste. Il mio paese era praticamente di fronte a Trieste. Sentivamo le cannonate come se fossero in giardino. Abbiamo scoperto solo dopo che una nave era stata affondata. Stava cercando di uscire dal porto, in obbedienza a un ordine della Marina, che diceva di concentrarsi a Malta. In quella nave sono morti una sessantina di giovani marinai italiani. Un’enorme delusione, proprio un risveglio amaro. È stato proprio come nella canzone Bella Ciao: una mattina mi son svegliato e ho trovato l’invasor. I tedeschi erano così preparati che nella notte tra l’otto e il nove settembre avevano già occupato Trieste.»
Chiedo a Mario Bonifacio com’è che, dopo l’armistizio, è diventato un partigiano. Il Mario dell’otto settembre 1943 era molto giovane, aveva sedici anni. La domanda sembra sensata, almeno a me, che ne ho più di trenta, e di identità politica ne ho poca, quasi niente. Mario non sente la mia domanda. Mi si avvicina, tenendo la mano a scodella in modo da circondare per bene il padiglione auricolare. Ripeto la domanda, gli chiedo com’è che dopo l’armistizio è diventato un partigiano, e aggiungo anche un “come ha sviluppato una sua identità politica in così giovane età, Mario?”. E lui toglie la mano dall’orecchio. «Io ero già abbastanza coinvolto da prima dell’armistizio. Tutto merito di Italo Terrazzer». Italo Terrazzer era un ragazzo del paese di Mario che non aveva fatto il militare perché durante il servizio di naja aveva contratto la tubercolosi renale; un operaio gentile, super acculturato che militava già da nove anni nelle cellule clandestine comuniste, uno che lavorava nella Biblioteca Civica, uno che aveva fatto leggere a Mario la filosofia americana, e il manifesto di Marx ed Engels. E penso subito che Mario è stato davvero fortunato. Io non ho mai avuto un Italo Terrazzer nella mia vita. A ognuno le proprie fortune.
«Di quel periodo ricordo anche i primi articoli che si leggevano sulla stampa. Ne ricordo uno su Il tempo (che era una rivista illustrata) di Ernesto Nathan Rogers, architetto che dava un’idea di architettura completamente diversa da quella che ci avevano insegnato durante il fascismo, che parlava del ruolo fondamentale dell’architettura in campo sociale, delle possibilità che potevamo avere per una vita migliore, diversa. Ricordo articoli di quel tipo lì, cose che prima non avevamo mai avuto la possibilità di sentire. Noi non avevamo mai sentito voci differenti, noi avevamo visto solo il fascismo che voleva dire preparazione alla guerra».
Mario Bonifacio ha iniziato la prima elementare 1934, una prima elementare fascista, che insegnava che gli italiani erano i più forti, i più bravi, i più preparati. Un bluff in pratica. Solo che a quel tempo non lo sapevano mica. Nel 1934 non sapevano nulla. Hanno dovuto aspettare sei anni, il 1940, per avere i primi sospetti. Per via della caduta contro la Grecia. Poi c’era stata anche la Jugoslavia. E la dichiarazione di guerra all’America nel 1941. Che qualunque marittimo di Pirano che ci fosse stato, in America, lo sapeva che non era mica possibile fare la guerra all’America. L’Italia, un paese agricolo con quell’industria, contro l’America? Per non parlare della Russia. Sicché, nel settembre del 1943, finalmente «quelli educati nella scuola fascista cominciano a comprendere che il fascismo è stato un bluff, che quello che ci avevano insegnato, noi siamo i più forti, i più bravi, i più preparati, non era vero».
A questo punto devo chiedere a Mario quali sono stati gli interventi della società civile a supporto dell’esercito italiano. Lo dico forte, ad alta voce, guardando quegli occhi azzurri. Funziona.
«Subito dopo l’otto settembre, i soldati italiani vennero a piedi dalla Croazia, attraversando l’Istria, dove c’erano già gli insorti in favore di Tito. Vennero aiutati anche dalla popolazione civile, rifocillati e via dicendo. E attraverso l’Istria vennero sulla costa, da noi. Di notte i nostri pescatori li portavano sulla costa veneta (Caorle, Grado) in modo che non dovessero passare per Trieste, perché Trieste era già occupata dai tedeschi e se li avessero presi, li avrebbero portati in Germania. Qualcuno sostiene che furono oltre ventimila quelli che passarono per il mio paese. Io me ne ricordo tantissimi e tutti aiutati e sfamati dalla popolazione civile».
Purtroppo, non tutti sono potuti tornare. Quelli in Croazia, nel Montenegro, in Albania, in Grecia e via dicendo, quelli non hanno avuto questa possibilità. La strada era troppo lunga. Da Mario, a Pirano e nei paesi vicini, tornavano quelli che al massimo erano nella Croazia del Nord. Quelli più lontani no. Quindi alcuni ce l’hanno fatta e altri invece no.
Il fratello di Mario ce l’aveva fatta, per esempio, ma perché era partito dalla parte opposta, da Frascati. Ci aveva messo ventidue giorni, il fratello di Mario, aiutato e sfamato e vestito dalla popolazione civile, dalle mamme, che aiutavano questi ragazzi come fossero loro figli, sperando che altre mamme si sarebbero prese cura dei loro figli veri. I muri urlavano NON AIUTATE I MILITARI, e le mamme invece disobbedivano. Facevano già la Resistenza.
«Anche io ne ho ospitato uno di soldato, uno che ha lasciato la sua pistola e che ha dormito da me. Mio fratello era a fare il militare a Frascati, perciò c’era posto per lui. Poi è venuto mesi dopo a recuperare la pistola. Io, non conoscendo da che parte stava, gli dissi che l’avevo buttata in acqua, anche se non era vero. Ho tentato di rintracciarlo tanti anni dopo, ma nessuno conosceva quel Giacomin lì».
Dopo la Liberazione, nessun rebaltòn
Ma visto che il fascismo c’è ancora, anche nel 2023, un fascismo diverso, più moderno, che però è comunque fascismo, penso sia il caso di chiedere a Mario del perché tutti, a quel tempo, avessero preferito appoggiarsi agli apparati fascisti, per l’amministrazione del dopo Liberazione. Cioè, tutti quei fascisti che erano stati la rovina dell’Italia, ancora al potere? Non c’era altro modo? Bisognava proprio accettare lo status quo? Ovviamente, non è che esista una risposta giusta. Che il fascismo sia sopravvissuto negli organi decisionali di quel tempo, e che questo abbia una correlazione con il fascismo di oggi, sembra chiaro. Oggi va avanti anche per altri motivi, il fascismo, e non solo in Italia. Ma la correlazione è chiara. Diciamo che a quel tempo si giocava molto con il termine guerra civile. Il governo giocava molto con il termine guerra civile. Eppure, i fascisti rimasti fedeli erano una minoranza. Forse un povero cinque per cento, contro un novantacinque per cento che voleva la pace, e la fine delle tragedie. Eppure, lo Stato è andato avanti come prima. Stessa magistratura di prima. Stessi docenti. Nessuna epurazione. In nome della continuità dello Stato, che indubbiamente avrebbe costituito un fattore di accelerazione della ricostruzione del nostro paese, per carità; sicuramente, il nostro era un paese a pezzi, distrutto ma, in nome di tutto questo, ci siamo tenuti il fascismo.
«Noi abbiamo sempre ricordato l’otto settembre come El rebaltòn, perché per noi era caduto tutto lo Stato. Ma c’è da dire che nel Sud lo Stato è rimasto integro. I Ministeri, dopo la Liberazione, sono tornati a funzionare come prima. Dopo la Liberazione, lo Stato si è riformato, sono tornati i carabinieri, l’esercito si è ripopolato con i generali di prima. Si diceva che l’Italia dopo l’otto settembre non avrebbe più dovuto avere un esercito, vista la brutta figura che avevano fatto i generali. I generali avevano lasciato ai tedeschi campo libero per arrestare i nostri soldati, non avevano fatto niente per resistere. Alcuni avevano fatto la loro parte, a Cefalonia, in Corsica, ma erano state eccezioni che avevano confermato la regola. Si diceva che l’Italia dopo l’otto settembre non avrebbe più dovuto avere un esercito. E invece. Ma d’altronde, da noi, i generali erano per la gran parte fascisti. E dai fascisti non ci si poteva aspettare nulla di buono».
La Resistenza nonviolenta
L’intervista è quasi finita. Mario Bonifacio mi offre dei wafer. Sono lì che mi sbuffano il loro profumo di nocciola da quasi un’ora. Non posso rifiutare. Mario mi guarda compiaciuto. Non sembra stanco, ma ora mi aspetta una parte difficile. Devo leggere il pezzo di un brano di Ercole Ongaro, una cosa scritta proprio bene:
L’essenza della Resistenza è il suo essere una rivolta civile, morale e politica non un fenomeno militare. L’uso delle armi dopo l’8 settembre ’43 fu strumentale, non fondativo, fu contingente, non essenziale, legato cioè al preciso momento storico, con una guerra in atto. Affermare il valore della Resistenza non armata, anche quello, ci permette di portare in primo piano il protagonismo della popolazione che fu sorprendente, imprevedibile, straordinario. Ciò che prima era considerato subalterno rispetto al ruolo delle formazioni partigiane ne acquisisce un valore in sé, un significato più profondo. Quindi anche gesti compiuti da persone comuni disobbedendo a leggi, ordinanze dei poteri nazifascisti hanno in sé un potenziale di rivolta, di contestazione dell’autorità costituita, di difesa del senso del vivere dal valore immenso. Questa è l’essenza della Resistenza. La Resistenza è anzitutto l’ascolto della propria coscienza, la scelta di restare umani in un tempo di imbarbarimento1.
A Mario piace. «Condivido largamente questa impostazione. In effetti fu così. La parte meno importante è stata proprio la parte militare. La nostra era prima di tutto una rivolta morale. E infatti c’è stato più di qualcuno che, pur convinto della necessità di prendere le armi, di dare anche questo contributo di forza, si rifiutò di farlo. Per esempio, Toni Adami che fu l’organizzatore della Brigata Mazzini, operante nella zona di Valdobbiadene. Lui era l’organizzatore della Brigata ma non toccò mai un’arma. Non se la sentiva. C’è stato anche questo nella Resistenza. Naturalmente questa coscienza apparteneva alle persone più mature, non tanto ai giovani».
La cosa mi colpisce. La sapevo già la storia della non violenza, di quelli che non usavano le armi. Ma Mario Bonifacio nel 1943 aveva sedici anni, e detta da lui la storia della non violenza, da uno che nel 1943 leggeva Marx ed Engels, e che c’era, mi fa tutto un altro effetto. Ovviamente tutto ciò era possibile grazie all’appoggio della popolazione. I fascisti potevano anche avere tutto, il vitto, l’alloggio, le caserme, i camion, le munizioni, ma non avevano l’appoggio della popolazione. E d’altronde senza l’aiuto della gente, un movimento di Resistenza non può mica esistere. Neppure nascere. Il movimento di Resistenza vive dell’aiuto della maggioranza della gente.
Ultima domanda. Gli chiedo della possibilità di ragionare a livello politico sulle alternative alla guerra, predisponendo – in tempi di pace – i mezzi e le condizioni per realizzarle. Se la Resistenza civile si è fatta strada in tanti conflitti, in situazioni di invasione e oppressione (anche in Ucraina, per esempio), spesso anche in modo spontaneo e privo di guida, non è forse il caso di ragionare a livello politico sulle alternative alla guerra? In realtà, questo ragionamento era già stato fatto, questa cosa dell’alternativa alla guerra. Con L’Onu. L’Onu è nata per salvare le nuove generazioni dalla guerra. Poi però era arrivata la Nato, il gendarme del mondo, che aveva sostituito l’Onu, che però era il contrario di un gendarme del mondo.
«Adesso si dovrebbe puntare a una rifondazione dell’Onu, al ritorno dell’Onu ai suoi compiti originari, che sono quelli di preservazione della pace e di attuazione del disarmo universale. Quest’anno abbiamo già superato ampiamente i duemila miliardi di spese per gli armamenti. Questi potrebbero essere soldi da spendere non solo per aiutare le società più arretrate, ma anche per supportare la difesa dell’ambiente. Con la guerra in Ucraina, l’Europa ha aumentato gli stanziamenti per gli armamenti. Una delle conseguenze maggiormente negative della disgraziata guerra di Putin è proprio questa: l’aver provocato il riarmo del resto del mondo».
La guerra in Ucraina non è comunque paragonabile alla Resistenza secondo Mario Bonifacio. Qui abbiamo due nazionalismi: un aggressore e un aggredito, ma pur sempre due nazionalismi. E la Resistenza non era di certo pro nazionalismo. La Resistenza lo combatteva, il nazionalismo. E anche il nazifascismo, a dire la verità.
«La soluzione sarebbe attuare un disarmo immediato, una tregua controllata internazionalmente che metta fine alla guerra. Iniziare serie discussioni diplomatiche per arrivare a una pace. Io mi sento molto vicino sia ai disertori ucraini (e ce ne sono parecchi) ma soprattutto ai disertori russi. Mio padre è stato disertore nella Prima guerra mondiale, per cui capisco e conosco le sue ragioni e le sue motivazioni. Una mia conoscente finlandese mi diceva che in Finlandia ci sono circa centotrentamila disertori russi rifugiati lì. Loro, secondo me, sono una promessa per il futuro della democrazia russa».
E, in effetti, tutti questi ragazzi che si rifiutano di ammazzare i loro fratelli, ci credo che Mario Bonifacio abbia ha fiducia in loro, e anche nelle migliaia di pacifisti arrestati in Russia. Ci credo proprio.
Mi alzo. Mario Bonifacio mi mostra la foto di un bambino con una barca alle spalle. Non capisco bene il nome di quella barca, e d’altronde non ci capisco niente di barche. Il bambino, comunque, non è un Mario bambino, è solo un bambino. Mario mi accompagna alla porta. Lo ringrazio tantissimo. Mi dice di aspettare. Urla “IOIA”, dice proprio così, IOIA.
Scende una signora molto elegante. Mi porge un sacchetto pieno di verdure, dice che sono verdure bio, verdure del loro orto, suo e di Mario. Non posso rifiutare.
NOTA
1 Ercole Ongaro, Resistenza nonviolenta 1943-1945, I Libri di Emil (9 settembre 2013).