di Alain, a cura di Giacomo Corazzol
Nuovo appuntamento con il filosofo francese Alain letto e tradotto da Giacomo Corazzol.
Del sublime, di Alain
Considerando gli uomini, ciò che ricercano, ciò che ammirano, ciò che disprezzano e, insomma, ciò che pagano più caro, riconosco in tutti il sentimento del sublime. Il marchio regale è la noia. Non c’è uomo che non si annoi della propria vita animale. Tutti gli spettacoli presentano il sovrumano, anche di un giocoliere o di un equilibrista. All’uomo garba solo vincere e, se non può vincere, ammira. Esigente, a questo proposito, ma generoso. L’altro côté, fatto di gelosia, di invidia, di meschinità, lo vedo negli autori di second’ordine, che sono persone affaticate; ma l’uomo vivo non è affatto come lo vogliono dipingere; essi stessi non sono così, non cercano altro che l’occasione di ammirare; è così che li colgo di fronte ai resti di un acquedotto, o a Shakespeare, oppure se leggono o recitano dei bei versi; sono religiosi allora; dicono la loro preghiera all’uomo. Il culto dell’uomo è antico quanto l’umanità.
Nessuno è invidioso come un artista, si dice. Non so. L’ammirazione è un sentimento sublime, e nessuno vive nel sublime a tutte le ore. Ma non è nemmeno giusto considerare tutto quello che l’uomo fa e dice nelle sue laboriose, frivole e monotone giornate: bisogna vedere quel che gli piace. Trecento pianisti riuniti assieme fanno uno sgradevole chiocciare di pappagalli e cocorite; acre vanità, e ridicola; rattristante, ma pure triste. Arriva il maestro, colui che ha vinto e sormontato lo strumento meccanico, ed eccoli tutti agitati dal delirio di ammirare e acclamare; allora gettano i loro lavori e le loro ambizioni come mazzi di fiori; come cose da poco, in sacrificio; e questi ingenui doni sono come schiacciati e ridotti a nulla dalle mani possenti, dalla fronte attenta dell’uomo che disprezza e sormonta ogni atteggiamento al ribasso, anche il proprio, lui stesso sottomesso ai veri dèi.
Non direi neppure che coloro che acclamano un pugile si sbagliano sul sublime; vanno semplicemente diritti alla grandezza di cui possono giudicare. Perché è abbastanza chiaro che anche un combattente mediocre ha vinto il dolore, il timore, la fatica, il piacere di mangiare e la collera stessa, e l’invidia stessa; nemici familiari, che ciascuno di noi conosce fin troppo bene. Se le meraviglie dell’arte si mostrassero, al di sopra degli scimmiottamenti, altrettanto chiaramente quanto il pugno che ha gettato un uomo al tappeto, la folla andrebbe a teatro e ai concerti così come va ai combattimenti di pugilato. Né dico che la folla preferirebbe le belle rappresentazioni teatrali e la bella musica, perché un’arte non è in sé preferibile a un’altra, e tutte le vittorie sono uguali; solo, le une più chiare di altre.
La guerra è tutta di religione. L’occasione di ammirare getta allora tutti gli uomini in una felicità inebriante che li rende come insensibili. La parte odiosa, meschina e brutta della cosa, non la vogliono vedere. Né i mezzi per cancellare dal nostro umano mondo questo barbaro divertimento; non vogliono vederli affatto; se glieli si mostra, si irritano; vuol dire privarli del sublime e rigettarli nella noia. Qui non sbagliamoci: l’errore sarebbe di grande conseguenza. È verissimo che quelli che amano la guerra sono spesso meschini, invidiosi, intriganti; ma credo che amino la guerra proprio perché sono annoiati e tristi di essere ciò che sono. Se si comprendesse meglio che la guerra è uno spettacolo, verrebbe l’idea, che poi sarebbe quella buona, di sopprimere questo genere di piacere, in nome dell’interesse pubblico e dei buoni costumi, come si è soppresso l’assenzio.
20 agosto 1921
[Tratto da Alain, Sentiments, passions et signes, Gallimard, Paris 1935, pp. 11-13. Traduzione di Giacomo Corazzol]