di Alain, a cura di Giacomo Corazzol
Nuovo appuntamento con il filosofo francese Alain letto e tradotto da Giacomo Corazzol.
Vedere per dubitare, di Alain
Montaigne ha detto questa cosa mirabile, ossia che ciò che meno si conosce è creduto tanto più fermamente. E che obiezione volete muovere a un racconto senza senso? Visione prodigiosa dei prodigi. Faccio notare in proposito che i prodigi sono sempre raccontati; eppure ci crediamo ancor di più.
L’uomo non crede granché a ciò che vede. Vorrei dire perfino che non ci crede affatto e che vedere è per l’appunto questa incredulità. Vedere suppone guardare, e guardare è dubitare. Gli osservatori di guerra sanno bene che, se subito si credesse a ciò che si vede, non si vedrebbe niente; perché tutto ci inganna; e non smettiamo mai di sbrogliare queste apparenze fantastiche. Ricordo che una notte, stupito da qualche eccezionale rumore e ancora mezzo addormentato, uscii dal mio riparo e mi trovai in un palazzo tutto arcate di perle e di diamanti. Non fu che un attimo, e presto vidi di cosa si trattava: erano alberi coperti di brina in una nebbia leggera che la luna rischiarava in maniera uniforme. Se non avessi dubitato, vi avrei sempre visto null’altro che un palazzo fiabesco. L’uomo che constata è un uomo che dubita. Intendo dire che dubita agendo, vale a dire che esplora. Osservate l’osservatore: come vorrebbe girare tutt’intorno alla cosa, toccare e palpare ciò che vede; osservate come cambia di posto quanto più possibile, allo scopo di variare le prospettive. Quest’uomo non è credulo né mai lo fu.
Lo stesso uomo racconta un sogno che ha fatto. Ma il sogno non è più nulla. Qui non si tratta più di osservare, ma è piuttosto il discorso a costituire l’oggetto. Lo spirito allora non sa più dubitare; non ne ha i mezzi. In questo oggetto del tutto sfuggente non può trovare i punti di resistenza che invece, nell’esperienza reale, si riconoscono prontamente. Avrebbe dovuto dubitare ed esplorare nel momento stesso in cui sognava, in quanto allora avrebbe potuto farlo. Vero è che si sarebbe svegliato; né esiste altro mezzo per trovare quanto vi è di reale in un sogno. Per esempio: sogno che mi stanno accordando il pianoforte; mi sveglio e scopro che suona la mezzanotte. Ma, quando il sogno è passato, è passato anche il momento buono per l’indagine. Vanamente l’uomo cerca il vero nel vuoto del proprio spirito. La stessa cosa accade se uno racconta una cosa che ha visto male, una cosa durata un istante oppure una cosa che lo ha messo in fuga. Non dubita; e questo avviene perché non può dubitare. Né può farlo chi lo ascolta. È allora che l’intonazione e le passioni lasciano le loro impronte.
Arriverei persino a dire che un racconto veridico non può essere compreso come dovrebbe. Nel momento in cui il narratore non può mostrare la cosa, l’immaginazione dell’ascoltatore è folle. Qualsiasi racconto è narrazione di fantasia; non se ne può dubitare, perché la cosa manca. Su questa base si comprende come, benché in buona fede, il racconto di un racconto moltiplichi l’errore. L’impronta si produce in ciascuno di noi, e senza rimedio, a meno che non si dubiti in maniera assoluta di qualsiasi racconto, attraverso un’incredulità superiore sviluppata a partire dalle osservazioni che vado svolgendo qui e da molte altre. Queste osservazioni, però, rimuovono qualsiasi specie di dubbio a proposito della sincerità del narratore, il che fa sì che i racconti fantastici diventino dei fatti della natura umana, che ancora possono istruirci. Ecco perché uno spirito superiore, quale è Montaigne, non opera nessuna scelta nei racconti che riporta, ma in un certo senso li giudica tutti buoni perché in un altro senso dubita di tutti. Risulta chiaro che riferire un racconto che abbiamo sentito aggiustandolo in base al probabile e al verosimile è un modo pericoloso di mentire; con quale diritto, infatti, rendere credibile ciò che è per propria natura incredibile? In realtà, la sola maniera possibile per rendere credibile un racconto è interpretarlo come qualcosa che non avrebbe potuto non essere stato, ciò che significa ritrovare nel fatto l’essenza eterna e ridurre nuovamente il racconto all’immobilità. Perché tutto importa e il minimo dettaglio può esprimere l’essenza; bisogna dunque trasmettere le testimonianze dell’uomo a partire dall’idea che siano tutte vere. Per questo Montaigne non vuole cambiarci neppure una virgola; ed è vero che questo tipo di critica è fuori stagione quando manca l’oggetto. Ciò fa sì che spesso si prenda per frivolo questo spirito serio, per incerto questo dubitatore e per credulo questo incredulo. Platone era della stessa razza. In mancanza di simili maestri, si pensa a corpo morto, al modo in cui i cavalli galoppano.
7 novembre 1924
[Alain, Propos, I, texte établi et présenté par Maurice Savin; préface d’André Maurois, Gallimard, Paris 1956, pp. 643-645, sotto il titolo Croire; traduzione di Giacomo Corazzol, il titolo è redazionale.]