di Alain, a cura di Giacomo Corazzol
Nuovo appuntamento con il filosofo francese Alain letto e tradotto da Giacomo Corazzol.
Il culto dei morti, di Alain
La memoria degli animali è buona quanto la nostra. Un cavallo sa riconoscere a distanza di anni la curva che conduce al buon ricovero; e il cane che ha trovato una lepre in un determinato cespuglio non manca mai di guardarvi dentro, e tutto stupito di non ritrovarcela. L’animale si inganna dunque perché troppo fedele. L’uomo ha solo ricordi e un tipo di fedeltà completamente diverso. I ricordi sono una mescolanza di vero e di falso che la fantasia effettua con successo. Memoria è adattamento: apprendo un movimento per ogni situazione. I ricordi sono piuttosto un rifiuto ad adattarsi e una volontà di mantenere l’uomo nella condizione di re. Chi ricorda crea degli immortali.
Ciò che notiamo negli animali è come essi non facciano nessuna commemorazione né monumenti né statue. Celebrano le feste della natura come noi e meglio di noi; l’anemone e la violetta, del resto, celebrano la primavera non meno di quanto facciano il merlo e l’oriolo. Si tratta sempre di adattamento. È il motivo per cui le società di animali mostrano un oblio stupefacente e, al tempo stesso, una memoria meravigliosa. Ogni formica sa quel che deve fare una formica, ma, per quanto ne sappiamo, essa non rende onore a nessuna illustre formica morta da tempo. In maniera analoga, i cavalli galoppano secondo la loro struttura, senza che li si veda mai fermi a meditare di fronte all’immagine, fatta da loro, di un cavallo al galoppo. E nemmeno si vedono mai delle bestie davanti a una tomba formata da pietre ammonticchiate; eppure non è difficile fare una tomba. Non appena muore, però, l’avo è dimenticato. Lo si ricomincia, senza mai pensare a lui. Ora, se il pensiero non è capacità di pensare a ciò che non è più, è pensiero? E questa società di bestie fatta soltanto di presenza, è una società?
Auguste Comte, che ha spinto molto lontano questo genere di osservazioni, conclude che non esistono società animali e finisce per definire la società sulla base del culto dei morti, idea immensa che non è stata seguita. È facile, del resto, non cogliere un’idea; credo inoltre che, senza la pietà in qualche modo filiale che cerca idee nei grandi precursori, non si avrà nessuna idea. È così che le nostre società, pur con tutti i loro macchinari, corrono il rischio di ricadere nello stato animale. Ma occorre temere? L’uomo interrompe il proprio volo al di sopra dell’oceano per celebrare il primo uomo che ha volato. Non vi è perciò alcun motivo di ridere di tutte queste statue, che sono di fatto i nostri pensieri.
Quali pensieri? Strani pensieri che si fanno beffe della verità. Perché il più antico degli inventori e dei precursori, lo vogliamo pieno di genio, più coraggioso di noi, più giusto di noi. Occorrono grandi prove contro di lui per dissuaderci dal farne un dio. Che culto felice, dunque, quello di Omero, di cui non conosciamo altro che le opere! È del tutto possibile che i grandi uomini siano stati degli amalgami disordinati, capricciosi e deboli come noi. E allora? Se partiamo con questa idea, non abbiamo dunque altro da imitare che noi stessi? La triste psicologia sarebbe dunque destinata a regnare? Convengo sul fatto che non è facile ammirare un uomo vivente. È lui stesso a scoraggiarci. Nel momento in cui egli muore una scelta si compie. La pietà filiale lo riabilita sulla base della felicità che si prova ad ammirare, la quale è la più essenziale delle consolazioni. Presso ogni focolare si compongono gli dèi del focolare, e tutti questi sforzi, che in realtà sono preghiere, si riuniscono per sollevare in alto le statue dei grandi uomini, più grandi e più belli di noi. Sono i nostri modelli, ormai, i nostri legislatori. Ogni uomo imita un uomo più grande di quanto non sia al naturale, sia egli suo padre, un suo maestro, Cesare o Socrate: in questa maniera l’uomo si solleva un po’ più in alto rispetto a se stesso. Il progresso si compie dunque grazie alla leggenda; al contrario attraverso una storia esatta si giungerebbe rapidamente a considerarsi al di sotto di se stessi: di qui una misantropia che, dopo aver sminuito gli inventori di idee, perderebbe ben presto le idee stesse. Comte ne è egli stesso l’esempio; ho notato infatti che coloro che pensano male di lui, pur conoscendo la celebre formula, accade facilmente che non colgano la presente idea: «I morti governano i vivi». E non sono in grado di trovare l’altra formula, quella più esplicita: «Il peso crescente dei morti non cessa di regolare sempre meglio la nostra instabile esistenza». Spesso ci si inganna per non aver ammirato.
25 novembre 1935
[Tratto da: Alain, Propos, I, texte établi et présenté par Maurice Savin, Gallimard, Paris 1956, pp. 1291-1293; traduzione di Giacomo Corazzol, il titolo è redazionale.]