di Alain, a cura di Giacomo Corazzol
Nuovo appuntamento con il filosofo francese Alain letto e tradotto da Giacomo Corazzol. Questa volta si comincia con una nota del traduttore.
NdT. Tribuni della plebe, magistrati eletti annualmente dalla plebe (secondo la tradizione, a partire dal 494 a.C., e in numero diverso, da 2 a 10, nei varî tempi) per difendere i plebei contro gli abusi del potere statuale; erano dotati di facoltà solo negative (l’intercessione, cioè il veto o l’annullamento dell’atto o del decreto), di un potere derivante non dalla legge ma dal sostegno del popolo, tuttavia molto ampio; l’istituto, ufficialmente riconosciuto nel sec. 3° a.C. così che i tribuni divennero dei veri e proprî magistrati, decadde con l’Impero fino a esaurirsi nel sec. 3° d.C. [dal vocabolario Treccani on line]
Il tribuno, di Alain
Mi è stato detto più di una volta: «Lei è l’ultimo radicale, o poco ci manca. Questa specie va scomparendo proprio come sono scomparsi gli uri». Ne ho riso molto. Ne rido ancor più ora. Il radicalismo non è affatto vecchio; è ancora bambino. Mi sembra che si possa indovinare ciò che sarà; è l’unico soggetto nuovo presente in politica, dove quasi tutto è stato detto.
L’arte dei governanti è stata studiata molto da vicino. Tocca la perfezione nella sua forma militare. Un colonnello sa persuadere e sa punire; se trattati con riguardo, i gradi intermedi fanno circolare il comando fino alle estremità di questo grande e spaventoso corpo. Tutti i poteri hanno gli occhi puntati su questo modello. Il potere di polizia non se ne differenzia quasi in nulla. Tutti i poteri, quello del giudice come quello dell’industriale, poggiano su quei due. Donde l’ordine, cosa lodevole e bella che merita obbedienza e che, peraltro, la ottiene.
Poiché le cose vanno così, cioè per mezzo di una combinazione di persuasione e di forza, è inevitabile che il cittadino sia governato più del necessario. Per fare un esempio, un esercito si estende e si instaura anche senza alcun progetto, per la sua sola natura. Tutte le parti del potere imitano l’esercito. Qual è il programma di un presidente? Chiede nuovi poteri. Qualche volta ci si lascia trascinare in previsione del bene che desidera fare. Ora, il bene che desidera fare è sempre quello di estendere il proprio potere e quello di tutti i poteri a lui solidali. Questa idea viene talora ingenuamente espressa da uomini che si dicono democratici e che credono di esserlo. Per loro è sufficiente che il popolo sia consultato di tempo in tempo in modo tale da consentirgli di scegliere un altro padrone o confermare quello che ha.
Ora, da noi, tutte le volte che il popolo trova un varco, la mèta verso la quale ostinatamente si dirige è un’altra. Non elegge tanto dei capi quanto dei controllori. Secondo un’idea a mala pena intravista, il capo dello Stato non è tanto il capo di tutti gli uffici quanto il delegato del popolo, il Cittadino-modello che ha l’incarico di scoprire tutti gli abusi di potere e di porvi fine. In maniera più evidente, i ministri sono come dei tribuni, ciascuno dei quali deputato alla sorveglianza di una di queste potenti amministrazioni che, a lasciarle fare, tirannizzerebbero tutti. Così, il ministro della guerra non è in nessun modo il capo dell’esercito ma, piuttosto, il rappresentante dei cittadini, cosa che i veri militari hanno sempre percepito.
A partire da questo esempio, cerchiamo di capire come possa accadere che un ministro, benché scrupoloso, lavoratore e uomo di giudizio, possa in buona fede ingannare se stesso e ingannare noi. Eccolo dunque capo dell’esercito – o almeno così crede – e generale sopra i generali. Per prima cosa egli si adopera per conoscere questo nuovo mestiere; non ci riesce; si consiglia con quelli che lo conoscono e ben presto decide solo dopo aver ascoltato le loro proposte. Ciò sarebbe saggio se la missione di un ministro fosse quella di essere generale dei generali. Basta essere venuti a contatto col mestiere militare per sapere che si tratta di un mestiere molto difficile. Ma il mestiere di ministro non è neppure quello di amministrare o di comandare come capo dell’esercito quanto piuttosto di opporsi agli sconfinamenti di questa organizzazione potente e vorace. Ciò equivale a dire che egli non deve affatto ricercare gli elogi dei militari ma anzi deve diffidarne e, ancor più, rassegnarsi a essere considerato sospetto e perfino a essere aborrito. Chiunque saprà trovare senza fatica esempi illustri dell’uno e dell’altro caso. Ora, può avvenire che un ministro a cui accada di dimenticare il proprio mandato e di farsi più militare dei militari venga infine punito e cacciato, benché troppo tardi, e che, viceversa, un ministro che abbia osato fare il proprio dovere di tribuno senza timore dello spaventoso spirito di corpo sia infine acclamato, benché troppo tardi. Questa giustizia del popolo, ancora lenta e zoppa, lascia vedere tuttavia un profondo cambiamento nella politica reale. Non sfugge a nessuno che, come il deputato è il delegato del popolo, così il ministro è il delegato dei deputati, il quale ha l’incarico di portare lo sguardo del popolo fin nelle regioni segrete dove i poteri coalizzati preparano e perseguono i loro beneamati progetti. Comprendete il motivo per cui lo spirito radicale è così violentemente disprezzato. Dedicate un pensiero a Combes1, a Pelletan2, a Caillaux3.
15 marzo 1924
[pubblicato con il titolo Le tribun in Alain, Eléments d’une doctrine radicale, Gallimard, Paris 1925, pp. 13-15, traduzione di Giacomo Corazzol]
- Émile Combes (1835-1921), primo ministro francese dal 1902 al 1905, radicale e anticlericale, promotore della legge che sanciva la separazione tra Stato e Chiesa e il carattere laico dello Stato francese, votata il 3 luglio 1905 [↩]
- Camille Pelletan (1846-1915), giornalista, politico radicale, ministro della Marina durante il governo Combes, anch’egli fortemente anticlericale [↩]
- Joseph-Marie Auguste Caillaux (1863-1944), politico militante prima nel partito repubblicano poi, dagli anni ’10, nel partito radicale, dreyfusardo, primo ministro francese tra il 1911 e il 1912, ostile all’entrata della Francia in guerra [↩]