di Alain, a cura di Giacomo Corazzol
Nuovo appuntamento con il filosofo francese Alain letto e tradotto da Giacomo Corazzol.
Idee operaie, di Alain
Mi sono spesso augurato che nelle nostre assemblee politiche si udisse la voce del semplice buon senso. Intendo con ciò riferirmi al discorso del contadino del Danubio1. Sì, un disprezzo del successo e delle frasi altisonanti, una visione diretta dei problemi; insomma, una soluzione operaia, intendendo questa parola in tutto il suo significato. Il fatto è che a tentare di parlare contadinescamente è sempre il beneficiario di una qualche rendita che non ha mai tenuto in mano né una vanga né un aratro. Quelli che rappresentano gli operai sono tutti dei dottrinari dalle mani bianche. Mi dicevo: Quando vedremo all’opera delle idee corte, magari, ma reali, delle idee che escano di bel nuovo da un certo lavoro o da un certo strumento?
Le idee di un uomo, i modi in cui si esprime e in cui prende le sue decisioni, le sue riverenze, le sue attenzioni, le sue forme di prudenza e di audacia dipendono sempre dal mestiere che fa. Non dal mestiere che ha fatto. Non credo molto alle tracce che un mestiere lascerebbe nel corpo: credo molto di più agli atteggiamenti, ai movimenti, ai costumi che una certa persona ha e fa qui e ora. Anche se viene dai campi o dalla fabbrica, un deputato avrà ben presto idee da deputato, perché essere deputato è un mestiere. Se il lavoro che si fa è persuadere, ci si fa ben presto una strana idea delle difficoltà, dei mezzi e delle soluzioni. È quel che si dice diventare borghesi, parola che è piena di significato. Chiunque trae di che vivere dal persuadere è un borghese: un prete, un professore, un commerciamte sono dei borghesi. Di contro, un proletario è colui che, nel lavoro di ogni giorno, mira soltanto alla cosa. Proletari sono dunque gli aratori, gli sterratori, i meccanici: non si persuade un dado, né un sasso, né il trifoglio. Qui, dallo scontro contro l’ostacolo, nascono idee corte ma efficaci. Capita a tutti di notarle e, spesso, di ammirarle in conversazioni occasionali. Non di rado è questo tipo di idee – che voglio chiamare ‘operaie’ – a far quadrare il bilancio di un piccolo comune.
Avevo fatto il giro attorno alla nuova chiesa, non senza pensare all’altra chiesa, così ben piantata a terra, ridotta in polvere dagli obici. Stavo ammirando le belle tegole marroni di cui era stato ricoperto il tetto quando rimasi colpito dal non ritrovare lo stesso colore intenso in cima al campanile, che invece era tutto in pietra, come una piramide. Allorché misi a parte un contadino di questa mia idea da pittore, mi rispose: «Siamo stati noi a volerlo. Niente tegole là in cima. Sappiamo quello che costa: se casca una tegola, ne rompe quattro». Ecco un esempio di idea operaia; e credo che tutta la politica andrebbe meglio se si affidasse a questo tipo di idee. Solo che il mestiere di deputato cambia l’uomo per intero e alla svelta. Addio, operaio! Addio, contadino! Un capo politico, chiunque egli sia, impara ben presto un’arte diversa, che non si occupa di tegole, ma di uomini. Si compiace di questa differente – e miracolosa – scienza fisica. È vero che le difficoltà passeggere dipendono dagli uomini e che in quei casi l’eloquenza serve più delle mani. Tuttavia, al fondo, le vere difficoltà derivano dalle cose, su cui dobbiamo avere la meglio grazie all’operosità – ciò che l’esistenza politica dimentica. In essa ogni cosa è impegnata a persuadere.
Per quanto ne posso sapere, i Soviet sono governati non tanto sulla base di idee operaie quanto su quella di idee amministrative. Parlare, deliberare, persuadere: in quel regime, come negli altri, questo è il lavoro politico.
Ora, il male non sta nel deliberare, nel giungere al voto, nello stendere circolari – procedimenti antichi come l’uomo e di cui non si può fare a meno del tutto. Il male, credo, sta nell’adottare, nell’esercizio di questo lavoro, delle idee che sono idee da prefetto, da ministro, da re. Idee molto antiche, astuzie ben note: penso che i ministri dei faraoni le conoscessero già. Una vecchia volpe della politica mi diceva: «Bisogna scriversi su un foglietto quello che si vuole proporre e far accettare, metterselo in tasca, dibattere d’altro e di tutto fino a quando l’assemblea non sia stremata: allora è il momento di leggere il foglietto». Ora, càpita che quanto è scritto sul foglietto sia a volte bello e giusto; ma non è questo il punto. Ho notato infatti che coloro che giungono a possedere quest’arte di gestire le assemblee perdono ben presto tutto – o quasi tutto – quello che permetteva loro di stendere una risoluzione giusta e ragionevole. Il buon senso è dappertutto fuorché al vertice. Lo schiavo Esopo è saggio; il suo padrone è folle. Per fortuna tutto ciò non è senza eccezioni né senza rimedi. Ma bisogna per prima cosa comprendere quali sono le cause per cui qualsiasi governo è mediocre. Perché, se non si comprende, si dispera, e dalla disperazione derivano enormi e rovinose sciocchezze, di cui l’esempio più notevole è la guerra.
10 gennaio 1931
[tratto da Alain, Propos d’économique, Gallimard, Paris 1934, pp. 88-90; Alain, Propos, I, texte établi et présenté par Maurice Savin, Gallimard, Paris 1956, pp. 987-989; Alain, Propos sur les pouvoirs, Gallimard, Paris 1985, pp. 117-119; traduzione di Giacomo Corazzol; il titolo è redazionale]
- Riferimento a Jean de La Fontaine, Favole, libro XI, 7, dove un apparentemente rozzo contadino del Danubio, eletto deputato, apostrofa sprezzantemente i Romani per il loro atteggiamento predatorio nei confronti delle province da loro amministrate. Per vendetta, i Romani gli conferiscono il titolo di patrizio. [NdT] [↩]