di Enrico Trevisiol
Resoconto di una settimana passata a Lampedusa, alla fine del luglio 2021. Cose viste nell’“unico posto in Italia dove non c’è un migrante in giro”, incontri e il tentativo (andato a vuoto) di mettersi a disposizione gratuitamente per l’accoglienza di chi sbarca sull’isola. Tutte le foto nel testo sono di Enrico Trevisiol.
L’Archivio Storico Lampedusa
In fondo a via Roma, a Lampedusa, il tratto di strada pedonale termina sull’affaccio al Porto Vecchio. All’esterno di un edificio, tre pannelli scuri e un’insegna rosso pompeiano contrastano con il tono chiaro delle facciate tutt’attorno e con l’azzurro del Mediterraneo che spunta dal parapetto che dà sul porticciolo. All’interno, la sede è grande poco più di venti metri quadri e ricca di quadri, immagini, articoli di giornale, libri rilegati, reperti rupestri, cartoline e souvenir. Mentre suona nel sottofondo una musica classica, è possibile ammirare una mostra fotografica oppure consultare documenti, visionare la cartografia dell’isola e scoprire i luoghi più interessanti da visitare. Un piccolo bookshop offre la possibilità di acquistare testi storici e attuali sull’isola e non solo. “Archivio Storico Lampedusa” è il nome di questo luogo, nato nel 2013, proponendosi come luogo di incontro, nella convinzione che le testimonianze del passato costituiscano una risorsa per quanti vengono nell’isola ad apprezzare non solo il mare, ma anche la sua storia.
«Piacere Nino»
«A Lampedusa non c’è nessun centro di accoglienza». Me lo dice guardandomi fisso negli occhi, mentre si accende una Camel Blue. La sua pelle è scura, la voce profonda. Indossa una maglia a maniche corte nera, con una stampa sbiadita al centro, pantaloni chino beige e un paio di scarpe sportive ai piedi. Si muove in modo elegante, scandendo parole e gesti, in una danza che mi ricorda una vecchia commedia a cui ho assistito a teatro.
«Nessun centro di accoglienza… e come vengono accolti le donne e gli uomini e i bambini che fuggono dall’Africa?».
«Lampedusa è solo un punto di approdo e di passaggio – mi risponde –. Qui abbiamo un hotspot, non un centro di accoglienza. Mi piacerebbe dirti di andare a vederlo con i tuoi occhi, ma temo che la Polizia impedisca a chiunque di avvicinarsi».
«Vuole dirmi che nel 2014 e fino al governo in cui era ministro Salvini non è mai stata fatta accoglienza?».
«Tu parli degli anni in cui l’isola era candidata al Nobel per la pace. Quelli in cui Renzi aveva portato la sindaca Nicolini da Obama, in rappresentanza delle migliori donne italiane. Quando il film Fuocoammare veniva premiato con l’Orso d’oro a Berlino.»
«Si!» esclamo io, con troppa enfasi. Arrossisco.
«No, nessuna accoglienza. Non formalmente almeno.»
La vetrina accecante dell’Archivio rende la figura dell’uomo un’ombra scura, dipingendone i contorni in maniera netta: il capo inclinato, le spalle basse, la vita robusta, le gambe lunghe. Al centro della vetrina un televisore spento, rivolto verso la piazza. A sinistra e a destra un paio grandi pannelli arricchiti da foto in bianco e nero di alcuni scorci dell’isola e dei suoi abitanti. Ne conto quasi un centinaio.
«Dopo la tragedia del 3 ottobre 2013 – continua – alcuni naufraghi, per lo più eritrei, sono stati trattenuti a Lampedusa fino al gennaio dell’anno successivo. In quel periodo, verso sera, alcuni di loro scappavano dall’hotspot e si piazzavano di fronte alla mia vetrina illuminata. Vedi – mi mostra la foto di otto ventenni sulla stessa panchina su cui ero seduto poco prima – i ragazzi si mettevano qui e guardavano la tv, dove proiettavo documentari sulla storia dell’isola. Ebbene, con il tempo ho cominciato a coinvolgerli».
«Una specie di accoglienza?» domando.
«Una specie. Inizialmente permettevo ai ragazzi di collegarsi a Internet e comunicare con la propria famiglia. Facevano lunghe file fuori dalla mia porta in attesa del loro turno, che io scandivo con un timer da cucina. Avevo solo un paio di computer a disposizione. In seguito, con l’aiuto di pochissimi compaesani e volontari occasionali abbiamo organizzato anche dei corsi di italiano. Che poi, a chiamarli corsi mi viene da ridere». Si interrompe per tirare una lunga boccata di fumo. «Sono in contatto con la maggior parte di questi ragazzi ancora oggi. Loro non possono dimenticarsi di me e io non posso dimenticarmi di loro. Sono grato oltremodo di aver vissuto questa esperienza meravigliosa».
«Ma oggi – gli chiedo – si può fare volontariato?».
«No, impossibile – replica lui –. Poco meno di un mese fa è arrivato sull’isola un medico alla ricerca di qualche associazione con cui collaborare. Voleva dare una mano, ma non gli è stato concesso. E a molti prima di lui… Si cerca di tenere tutto quanto il più nascosto e invisibile possibile, per non compromettere gli introiti provenienti dal turismo. Scoprirai che questo è l’unico posto in Italia in cui non c’è un solo migrante in giro. Eppure, queste persone non hanno mai smesso di arrivare».
«E cosa succede loro quando raggiungono le vostre coste?».
«Tutte le operazioni di sbarco, di trasferimento all’hotspot e alle navi per la quarantena sono affidate alle forze dell’ordine. I lampedusani non hanno più contatti con i migranti e la pandemia ha reso ancora più stringenti le misure di isolamento e di sicurezza. In generale, posso dirti che, una volta recuperati al largo, vengono portati al molo e identificati. A quel punto, dei furgoni li trasportano all’hotspot, scortati da una volante della Polizia. Lì vengono smistati. Alcuni rimangono per un po’, altri vengono trasportati alla nave per la quarantena ormeggiata a Cala Pisana, altri ancora invece…».
Non finisce la frase. È entrato un visitatore. Aspetto con pazienza che l’avventore si congedi e che lui ricominci.
«Dicevo: altri ancora vengono traghettati subito in Sicilia. I minorenni vengono distribuiti nei Centri per Minori, nati come funghi negli ultimi anni. D’altronde, lo Stato paga questi centri 80 euro a minore per la presa in carico. Per i maggiorenni, invece, il governo stanzia 18 euro a persona… Il loro destino dipende da una serie di fattori, come la presenza di parenti in Europa che possano aiutarli economicamente, un po’ di intraprendenza. Anche la fortuna ha una parte importante. Per i migranti provenienti dai Paesi con i quali ci sono accordi per il rimpatrio, in particolare Tunisia e Nigeria, il discorso cambia: quelli ricevono subito un decreto di espulsione».
«Ma gli abitanti? Loro possono dare una mano?».
«I lampedusani sono preoccupati del danno di immagine che l’immigrazione provoca all’economia dell’isola». Seduto alla scrivania, mentre il rumore della strada gremita entra nella stanza, seleziona un brano musicale dal computer portatile, il secondo Impromptu di Schubert. «Quando, nel 2014, abbiamo accolto nella sede dell’associazione alcuni migranti per dare loro la possibilità di contattare i familiari e di imparare qualche parola di italiano, molti abitanti non apprezzarono, e qualcuno arrivò a dire che, se li trattavamo bene, ne sarebbero sicuramente partiti altri. Vedi, qui tutto vive in funzione del turismo».
Altre persone stanno entrando nella stanza, è il momento di andare, I. mi sta aspettando.
«Grazie per tutto ciò che mi ha raccontato – gli dico sporgendomi verso di lui –. Non mi sono nemmeno presentato, io sono E.».
Con un sorriso, questa volta libero dalla mascherina, mi stringe la mano:
«Piacere, Nino».
“Hotspot”
Dopo il nostro primo incontro, ero felice che Nino avesse ancora voglia di rispondere alle mie domande. Le sue parole mi avevano colpito. Quanti anni era durata quella forma di accoglienza di cui mi aveva parlato? Che ruolo aveva avuto l’amministrazione comunale nella mancata integrazione dei migranti? Come avevamo reagito gli abitanti? Come venivano accolti, oggi, i ragazzi nell’hotspot? E quale futuro si prospettava loro?
Era mattino e non c’erano molti turisti in quella parte dell’isola. Ero andato a trovarlo all’Archivio e avevamo deciso di sederci fuori, per goderci il fresco di quelle ore.
Mi raccontò che il suo primo contatto con i migranti era avvenuto dopo la tragedia del 3 ottobre 2013, quando gran parte dei sopravvissuti era stata trattenuta sull’isola, in vista del processo che si sarebbe tenuto a Palermo. Erano in molti ad aver perso i familiari durante il naufragio.
Formalmente, mi spiegava, non potevano lasciare contrada Imbriacola, ma spesso riuscivano a fuggire, raggiungendo la via del centro. Le forze dell’ordine tolleravano la situazione, a patto che tutti tornassero all’hotspot entro mezzanotte. La loro meta preferita era l’Archivio, dove Nino permetteva loro di utilizzare il computer per mettersi in contatto con la propria famiglia. Quel luogo era diventato un punto di riferimento non solo per chi arrivava dal continente africano, ma anche dall’Europa per dare una mano. La situazione si era protratta così fino al 2019, perché nemmeno la politica dei “porti chiusi” di quel tempo era stata capace di interrompere l’attività di salvataggio delle ONG e gli sbarchi autonomi.
La quasi totalità delle persone che interagiva con i migranti, tuttavia, a parte la Parrocchia, era esterna all’isola: Mediterranean Hope, Forum Lampedusa Solidale. Lui stesso, figlio di padre lampedusano, viveva ufficialmente a Napoli. Capitava che qualche pescatore si trovasse nella condizione di salvare delle vite, ma non erano che rari esempi, spesso nascosti ai più.
Io stesso avevo parlato con un pescatore pochi giorni prima, durante uno dei famosi giri in barca attorno all’isola. Mi trovavo in una comitiva di sei persone. Dopo la prima ora di navigazione, quando era stata gettata l’ancora e tutti si tuffavano in acqua, mi ero trattenuto sul ponte e avevo cominciato a fare domande al marinaio. Il nostro colloquio era durato pochissimo, ma ricordo di essere stato colpito dalla sua reticenza. Non era a suo agio mentre mi diceva che loro, i pescatori, non potevano uscire in mare per salvare vite, al massimo potevano dare l’allarme alla Guardia Costiera. Anzi, quello erano proprio obbligati a farlo. Evitava il mio sguardo quando mi raccontava che una parte dei migranti scappava dalla guerra e dalla fame, ma un’altra, invece, veniva qui per arricchirsi. Che nella sua terra, popolata da poco più di seimila anime, non c’era spazio per tutta quella gente. Detto ciò, si era ritirato sottocoperta per cucinare. Più tardi, di ritorno al porto, passando accanto alla nave da quarantena al largo di Cala Galera l’avrei sentito rivolgersi a una ragazza dicendole che lì, i migranti “si fanno pure la crociera”.
Nel 2011, a seguito delle “primavere arabe”, nell’isola erano arrivati migliaia di giovani tunisini. Nei pressi della Porta d’Europa, il monumento di Mimmo Paladino dedicato alla memoria dei migranti che avevano perso la vita in mare, si era creato un accampamento che, in assenza di strutture igieniche e sanitarie, aveva reso ancora più precario il difficile equilibrio con la popolazione. Il premier italiano dell’epoca, Silvio Berlusconi si era recato sull’isola e aveva permesso il trasferimento dei ragazzi, con gran sollievo dei lampedusani.
Durato poco, perché dopo la destabilizzazione della Libia, ad arrivare non erano più i giovani tunisini in cerca di fortuna ma libici, sui cui volti si leggeva la disperazione e le sofferenze dalle quali fuggivano. E, con loro, donne e bambini non accompagnati. In quel momento, aveva raccontato Nino, molti lampedusani diedero prova di umanità e di grande generosità.
Nel pieno di questi flussi migratori, nel maggio 2012, Giuseppina Maria Nicolini era stata eletta sindaco del comune di Lampedusa e Linosa. Nino mi aveva spiegato che “Giusi” era subentrata a Bernardino De Rubeis, arrestato per una serie di reati di corruzione. La donna aveva nel suo programma la lotta all’espansione dell’edilizia, che ben presto l’aveva portata all’isolamento. Poco dopo il tragico naufragio del 3 ottobre 2013 al largo di Lampedusa con oltre 300 morti, aveva pronunciato un discorso al vertice UE in cui chiedeva una nuova legge europea in materia di asilo e di immigrazione. Da allora e in concomitanza con il Governo nazionale di centro-sinistra, la sindaca aveva cominciato a esporsi mediaticamente sul tema dell’accoglienza, diventandone la paladina. Tuttavia, dal momento che i migranti non potevano uscire ufficialmente dall’hotspot, durante il suo mandato non fu possibile avviare alcuna azione concreta di sostegno ai tanti ragazzi che giravano per le strade dell’isola.
L’attuale sindaco, Salvatore Martello, anche lui di centro sinistra come la Nicolini, interpretando l’umore diffuso, si era schierato in campagna elettorale per la chiusura del Centro e per reclamare al Governo aiuti economici per gli isolani a risarcimento dei danni provocati dalla presenza dei migranti sull’isola. Gli ultimi fondi erano stati richiesti qualche giorno prima del nostro incontro, per recuperare le barche affondate intorno all’isola ed evitare possibili danni alle reti dei pescatori. Non una parola sui nove cadaveri di migranti ancora imprigionati in un barcone affondato a poche miglia dalla costa.
Ma come erano stati accolti le donne, gli uomini e i bambini nell’hotspot in questi mesi? E in questi giorni? La televisione non parlava più di Lampedusa da quasi due anni e mezzo. Cos’era successo?
Ormai già dall’anno scorso, con il pretesto della pandemia, agli ospiti dell’hotspot non veniva consentito di allontanarsi. A nessuno dei migranti che arrivava a Lampedusa veniva concesso di presentare una domanda di asilo, e a molti di loro, all’arrivo in Sicilia, veniva immediatamente notificato un decreto di espulsione. Essere espulsi significava trovarsi da un giorno all’altro in mezzo alla strada, senza documenti. Così, centinaia di persone che fino a quel momento erano detenute dalle forze dell’ordine italiane, venivano improvvisamente lasciate “libere di tornare”, a proprie spese, nel Paese d’origine.
Inoltre, a fronte di una capienza di 250 posti-letto, l’hotspot ospitava in quei giorni una media di 700 persone, con tutti i disagi conseguenti per gli ospiti ma con un notevole utile per chi gestiva il Centro. I mediatori culturali e le associazioni umanitarie che vi lavoravano non potevano far trapelare notizie perché rischiavano di perdere il lavoro.
Di fatto, oggi esisteva un tacito accordo tra l’amministrazione locale e il governo centrale per tenere separate e quasi nascoste tutte le operazioni di sbarco e di trasferimento, grazie al quale si era creata una situazione di relativa tranquillità sull’isola.
A vederlo con i propri occhi
«Polizia e Carabinieri pattugliano il perimetro dell’hotspot e non permettono di avvicinarsi e curiosare». Le parole di Nino mi risuonavano in testa. Dovevo vederlo con i miei occhi.
I. aveva già pensato a un diversivo. Avremmo raggiunto l’hotspot in scooter, indossando il costume e portandoci dietro l’ombrellone. «E se ci fermano lungo il tragitto?» le avevo chiesto preoccupato. «Diciamo che ci siamo persi,» mi aveva risposto lei.
Contrada Imbriacola si trovava a sette minuti dal nostro appartamento. Da via Maccaferri, avremmo dovuto dirigerci verso le Poste e, dopo un paio di curve, infilarci in via delle Grotte. Da lì avremmo visto il mare su cui si affacciava il Porto Vecchio. Girando, poi, per la ripida via Cameroni, ci saremmo trovati nei pressi di una piccola rotonda. Seconda uscita a destra e poi sempre dritti. Non si poteva sbagliare.
Alle 8,25 avevamo già imboccato la strada che ci avrebbe portato all’hotspot. Avanzavamo lentamente, osservando la macchia mediterranea intorno a noi scomparire. La parete rocciosa sulla nostra destra diventava sempre più alta, mentre sul lato sinistro della carreggiata le case lasciavano posto agli alberi di carrubo.
Perché non passava nessuno?
Il nostro viaggio non poteva che finire con un cancello, dietro al quale sostavano due camionette della Polizia. Otto poliziotti e un uomo vestito in mimetica conversavano e quasi non si erano accorti del nostro Scarabeo grigio. Potevo vederli attraverso le robuste sbarre in ferro. La struttura era alta più meno cinque metri e coronata da filo spinato.
Dopo aver liberato la testa dal casco, mi ero avvicinato. «Scusate, posso chiedere un’informazione?»
Il militare, un uomo di bassa statura, calvo e sulla cinquantina, era l’unico che pareva avermi notato. Si era avvicinato lentamente, senza sorridere.
«Certo – mi aveva detto –, che cosa le serviva?»
«Questo è l’hotspot, giusto?». Non avevo aspettato che mi rispondesse. «Ci chiedevamo se fosse possibile fare volontariato in merito all’accoglienza dei migranti.»
Aveva mostrato un’espressione accigliata, ma poi mi aveva chiesto gentilmente di aspettare. Avrebbe chiamato per noi la ragazza che si occupava del ricevimento degli ospiti.
Poco dopo il militare era tornato accompagnato da una giovane e minuta ventenne, con capelli neri. Aveva detto di chiamarsi P. e di lavorare per una società di Treviso, incaricata di gestire la struttura. Escluse le forze dell’ordine, naturalmente.
«È possibile fare volontariato?» le avevo chiesto. Eravamo a un paio di metri dal cancello e nessuno sembrava interessato alla nostra conversazione.
«Credo di sì, ma non sono io la persona giusta per dirvelo. Io mi occupo della parte burocratica dell’accoglienza. Sono seduta alla scrivania a controllare documenti tutto il giorno».
«Ma i ragazzi come stanno? Riuscite a garantire loro una buona accoglienza? Ho visto con i miei occhi arrivare 400 persone ieri, al molo Favaloro, scortati dalla Guardia Costiera. Poi sono arrivati un paio di furgoni e ne hanno caricate… quante saranno state, 25 per volta? Ma quelli erano mezzi da 12, 13 persone al massimo!».
La ragazza fece un passo indietro. «L’hotspot sta affrontando una situazione di emergenza. Posso assicurarvi che non appena arrivano qui ricevono vestiti puliti e da mangiare. E poi l’hotspot è vicino al molo, ne faranno montare così tante perché il viaggio è breve. In ogni caso, qui vengono trattate bene. Il nostro staff è sottodimensionato ma facciamo del nostro meglio».
«Come funziona: portate qui donne, uomini e bambini, li identificate e poi li conducete subito alla nave da quarantena?».
Un altro passo indietro. «Non proprio. L’iter è molto più complesso e non ho il tempo materiale per potervelo spiegare. Non tutti i migranti vengono portati sulla nave, comunque. Dipende».
«Alcuni vengono portati direttamente in Sicilia, allora?».
P. aveva annuito. «E poi, qual è il loro destino?», avevo chiesto.
Ancora un passo indietro. «Non ci è dato sapere che cosa accada a quelle persone una volta che lasciano l’hotspot. È compito delle forze dell’ordine occuparsi di queste faccende. Noi qui abbiamo già il nostro gran daffare. Ve l’ho detto, è complicato. E io devo rientrare fra pochissimo».
Inutile insistere. «Prima hai detto che lavori per una società privata, quindi tu sei dipendente?».
«Sì».
«E qual è l’età media dei tuoi colleghi?».
«Tutti abbastanza giovani. Diciamo tra i 25 e i 30 anni, una trentina in tutto».
Poi aveva aggiunto, questa volta avvicinandosi: «Vuoi darmi il tuo nominativo e il tuo numero di cellulare? Ti farò contattare dalla mia responsabile che saprà dirti se è possibile fare volontariato. Sarà lei a spiegarvi, eventualmente, in che modo gestiamo le attività qui… Ora devo proprio andare, oggi sono sola in ufficio».
Dopo aver preso nota dei miei dati, ci aveva salutato con la mano ed era rientrata. Io e I., allora, eravamo saliti sul nostro scooter e, lentamente, ci eravamo allontanati, sollevando una leggera coltre di polvere.
Nota
Sono stato a Lampedusa l’ultima settimana di luglio del 2021, insieme a I.
La responsabile della società, a cui P. avrebbe dovuto lasciare le mie generalità perché mi ricontattassero, non ha mai chiamato. Dopo essere tornato da Lampedusa, mi sono rivolto direttamente all’azienda, con telefonate regolari, almeno una volta a settimana. Da mesi, ormai, pare che la referente delle risorse umane sia sempre fuori sede, oppure in riunione.
Agnese dice
buongiorno scrivo perchè vorrei sapere quali associazioni o altri enti posso posso contattare per partire ad assistere i migranti, o a contribuire all’assistenza, quest’estate (2023); è da tempo che lo voglio fare ma non sono riuscita a trovare il modo. Grazie per l’articolo.
Patrizia dice
Articolo illuminante.
Nidhira dice
Buongiorno, vorrei mettermi in contatto con l’autore dell’articolo, Enrico Trevisiol per discutere più a fondo e chiedere informazioni in merito a quanto scritto.
Grazie mille in anticipo.
itsu dice
grazie per l articolo. giusto cercavo informazione su Lampedusa e il volontariato nell hotspot.