di Luciano Bianciardi
Dopo aver conosciuto poco a poco, negli ambienti frequentati a Pisa come studente universitario, un antifascismo molto libresco e romantico – che fa sognare barricate su cui sventolano bandiere rosse –, l’8 settembre 1943 Luciano Bianciardi (1922-1971) si ritrova in Puglia, allievo ufficiale, nel momento in cui gli ufficiali tagliano la corda. Arriva il momento delle scoperte.
Conobbi Lio Lenzi, comunista, un nobile artigiano livornese, che allora campava in una sua botteguccia di vetraio e fu poi il primo sindaco democratico della mia città [Grosseto], con grave ira dei “galantuomini”, che han fatto l’impossibile per rovinarlo e ci son riusciti: oggi non ha più nemmeno la botteguccia di vetraio. Mi fece un rapido quadro del suo antifascismo, così diverso da mio che non riuscii ad intenderlo affatto. Io non capivo perché fascismo dovesse significare, prima di tutto, guerra, fame, disoccupazione, sfruttamento dell’operaio e del contadino. Posso anzi dire che non conoscevo il significato esatto di quelle parole, quasi appartenessero ad un gergo tecnico per me incomprensibile. La nostra cultura, del resto, e quindi la nostra scuola, si è sempre tenuta lontana dal mondo del lavoro, ed il fascismo, retorica a parte, mi pare abbia peggiorato le cose.
La stessa sensazione di lontananza la provai, e forse anche più accentuata (ma in apparenza non doveva esse così, trattandosi di giovani nati e cresciuti in un ambiente simile al mio) quando entrai in contatto, all’università, con studenti e laureati comunisti. Ricordo fra di loro Umberto Comi e Nino Maccarone: parlammo insieme, specialmente con il secondo, piuttosto a lungo, ma non c’intendemmo, neppure dopo che ebbi «scoperto» il problema della giustizia, accanto a quello della libertà. Non c’intendemmo perché, appunto, la mia fu una scoperta tecnica, una deduzione che avevo svolto con l’aiuto e sotto il controllo di Guido Calogero, che mi fu maestro, fra l’altro, di liberalsocialismo. Molti giovani della Scuola Normale erano allora liberalsocialisti (il termine già circolava, pur ignorando noi tutti chi lo avesse costruito) […]. Il mio liberalsocialismo del ’41 e del ’42, quanto a manifestazioni concrete, fu del resto ben poca cosa: qualche riunione furtiva in una cameretta della Normale, contatti fra Pisa e la mia città […], qualche privata e goliardica alzata d’ingegno (una volta scrissi una lettera a Mussolini, chiedendogli le dimissioni, dopo quelle di Badoglio) e nulla più. È anche vero che sognavo e scrivevo di barricate e di rosse bandiere lacere, ma gli amici liberalsocialisti mi dicevano che questi erano vaneggiamenti romantici, e che bisognava invece attendere che gli alleati vincessero la guerra; anch’io mi rassegnai presto ad aspettare. Avrei potuto, è vero, impiegare più utilmente quei due anni universitari; così il richiamo alle armi, all’inizio di quel tragico e denso 1943, mi colse impreparato. Molto ingenuamente, io decisi di accettare la vita militare come una prova di disciplina e di equilibrio. Credevo che la scuola allievi ufficiali, con la sua signorile miseria quotidiana, avesse proprio questa funzione, ed ebbi fiducia nei superiori, gli ufficiali di carriera che ci parlavano ogni giorno di onore e di coraggio, di Patria e di Sovrano, ma soprattutto della dignità di chiamarsi «signori ufficiali». Non fu necessario attendere a lungo, per vedere quale fosse la verità: certe orribili giornate pugliesi dell’estate e dell’autunno di quell’anno mi rivelarono lo sfacelo. Dopo tutto, era quello che aspettavo da tempo, con desiderio ed insieme con astioso rammarico, ma ora che la sconfitta era lì, non era soltanto la sconfitta del fascismo: anche noi avevamo perduto, eravamo stati colpiti nella fiducia in quei valori che ora si rivelavano, invece, vuote parole. Il mio capitano, cattolico anche lui, e fascista, benedisse il 9 settembre gli aerei inglesi che ci passavano sul capo (diretti a bombardare le nostre case, dopo tutto), proprio lui che pochi giorni prima ci aveva tenuto addirittura una lezione sull’«immancabile vittoria» e sulla «perfida Albione». Sentivamo parlare di colonnelli fuggiti con la cassa del reggimento («i soliti colonnelli crociani» commentava l’amico mio) dopo aver consegnato i loro soldati ai tedeschi. Un intero battaglione di allievi ufficiali era stato venduto in quel modo, e qui ragazzi ce lo raccontavano piangendo d’ira e di vergogna.
Cominciai a riflettere: mi chiesi se era giusto che a simile gente fosse affidata la vita degli operai lombardi, dei contadini calabresi. Appunto un contadino calabrese, analfabeta e primitivo, avevo conosciuto in quei giorni tragici. Sarebbe ritornato a casa, mi diceva, per nascondersi e non ripresentarsi più sotto le armi. Sua nonna lo aveva spesso incitato a disertare, e gli aveva promesso di aiutarlo a sfuggire alla “giustizia” (cioè ai carabinieri, perché tra i calabresi quella parola non ha altro significato). Sua nonna aveva fatto lo stesso col padre del soldato, suo figlio, al tempo della prima guerra mondiale; anche lui era stato un disertore. Fin da piccolo avevo sentito questa parola, pronunziata da mio padre con orrore e disprezzo (di Francesco Saverio Nitti mi parlava come del ministro che aveva concesso l’amnistia, appunto, ai disertori) e credevo veramente che la diserzione fosse un grave reato: ora cominciavo a capire che nell’atteggiamento della contadina c’era un’elementare reazione difensiva, perfettamente legittima. Cominciai a capire anche che c’erano in Italia due mondi, quello dei colonnelli e quello dei soldati, quello dei contadini e degli operai da un lato, e quello dei padroni, dei cardinali e dei ragionieri dall’altro. Capivo anche, seppure confusamente, che presto o tardi avrei dovuto scegliere a quale dei due mondi appartenere. I contadini in Italia (e questo me lo diceva anche mio padre) han sempre fatto la guerra, quasi da soli, quelle guerre di cui ci avevano parlato con lo slogan dell’italianità di Trieste, o della conquista del «posto al sole». Ma cosa ne sapeva, il mio soldato contadino della Calabria, di Trieste, del posto al sole, della civiltà occidentale? Cosa ha trovato, cosa ha trovato suo padre, tornando a casa dopo la guerra?
Questi pensieri mi sembrano oggi molto ovvii e facili, ma allora mi si presentavano come i bagliori indecisi di una verità che lentamente si faceva luce.
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Vennero poi i mesi bradi dell’autunno ’43, dopo la caduta del Mussolini e dopo l’otto settembre. Ci avevano spostati a Copertino, un paese della provincia di Lecce, tutto costruito di tufo. Le case non andavano mai oltre il primo piano, sé che si aveva l’impressione di muoverci sopra una gran tavola disseminata di enormi dadi. Noi eravamo attendati in campagna, fra le viti e gli ulivi, ed in complesso si mangiava abbastanza, dato che la vigna era proprio dietro il nostro attendamento. La notte dell’otto settembre Del Chicca vuotò tutte le cassette delle munizioni, e le riempì d’uva: così si fece la guardia, con le mitragliatrici scariche, mangiando e chiacchierando per tutta la notte, che fu una magnifica notte di luna. Per Natale tutti a casa, si diceva tutti. Invece si inoltrò l’autunno e venne l’inverno, e noi fermi laggiù. Le viti erano sempre più spolte, e ad un certo punto ce la vedemmo brutta; specialmente dopo che ci trasferimmo a Oria. L’esercito di Badoglio eravamo noi, e cioè una banda di soldati semiscalzi, con poche coperte e senza viveri.
Gli americani ci dettero qualche aiuto: mandarono un certo numero di scatole di caffè denaturato e pacchi di biscotti. Per alcuni giorni infatti avemmo in pasto lenticchie e biscotti, dodici biscotti e una gamella di lenticchie, tutte tonchiate. Le lenticchie e i biscotti proprio non vanno insieme: poi noi ci mescolavamo peperoni e pomodori, colti in un orto vicino, ma ci voleva il nostro stomaco a mandarli giù. E fichi secchi: a quel tempo guadagnavamo lire dodici e centesimi cinquanta ogni decade, ed ogni decade compravo un chilo di fichi secchi da otto lire, e me li mangiavo tutti. Così facevano anche gli altri, ed è stato allora che ci siamo rovinati i denti e l’intestino: oggi nessuno di noi, nemmeno per Natale, mangia fichi secchi.
Nota. Brani tratti da Luciano Bianciardi, Nascita di uomini democratici [La scoperta della cultura] e Vita militare [Autunno 1943], usciti per la prima volta sulla “Gazzetta di Livorno” nel 1952 e nel 1953; si citano da Id., Il peripatetico e altre storie, Rizzoli, Milano 1976, pp. 156-158 e 174-175.