di Marco Cristante
Per la sua tesi di laurea triennale, Marco Cristante intervista due donne immigrate che abitano a Venezia: K., età intorno ai cinquant’anni, di origine filippina ora cittadina italiana, in Italia dal 1979, e P., poco meno che trentenne, peruviana, in Italia dal 1999. Le interviste sono state realizzate alla fine dell’ottobre 2006; Marco conosceva già K., che poi lo ha messo in contatto con P. Si ringraziano Marco, K. e P. per la loro disponibilità.
Intervista a K., Venezia, Giudecca, 23 ottobre 2006
Mi ha detto alle sei in punto e non voglio arrivare in ritardo: io sto al Lido, lei mi ha spiegato il percorso due volte e ho tracciato anche una mini mappa ma, appena scendo alla fermata della Palanca, mi accorgo che c’è qualcosa che non va nelle istruzioni; finisco fuori strada e solo grazie al cellulare, e a un po’ di geografia, riesco finalmente a trovare il condominio mentre le luci del cielo si spengono e quelle della terra si accendono. Suono al campanello e salgo una stretta rampa di scale fino a che mi accoglie un gran sorriso.
K., la piccola donna che si affaccia dal portone è la madre di un mio vecchio amico, che ho conosciuto quando, a otto anni, eravamo compagni di squadra nel minibasket; il nostro “straniero”, con capelli ricci e spiritati e pelle color cacao.
Dopo i due baci di rito, K. mi fa vedere la sua nuova casa. Il suo sorriso si fa più grande quando dice “mia” perché finalmente ha potuto acquistarla, la casa. Mi mostra tutto l’arredamento con orgoglio, con un’increspatura solo quando mi racconta che deve ancora finire di pagarlo. Vedo una tv, accesa, e delle stanze ampie e luminose. Quando il tour finisce mi porta in cucina dove mi offre una birra e dove si svolgerà la nostra intervista. Ho portato con me una telecamera che funziona anche come un ottimo registratore, ma K. non vuole esser ripresa. Chiudo l’obiettivo e parto con le domande. Le risposte sono in italiano ben comprensibile, ma un po’ difficoltoso; nella trascrizione ho reso più chiari i passaggi più complicati.
Mi racconti un po’ chi sei?
Mi chiamo K.S. e sono nata nelle Filippine, dove ho vissuto 24 anni.
Cosa facevi là?
Ho studiato, ho fatto l’università a Manila, alla University of the East. Sono una maestra. Ma diciamo non ho finito la laurea.
Una università con il nome inglese?
L’inglese si studia dalla scuola materna, è una lingua ufficiale nelle Filippine.
Quindi parli tre lingue?
In verità all’università ho studiato anche spagnolo ma poi sono arrivato qua e l’italiano – dicono tutti – ha rovinato tutto: ho dimenticato tutto.
Perché ti sei trasferita in Italia?
Perché nel mio paese c’è anche il problema del lavoro, anche se sei laureata. è pieno di studenti che, anche se laureati e tutto, non c’è lavoro. Ecco perché ci sono tanti che vanno fuori, escono ecco. Poi in Italia c’era mia sorella. All’inizio non volevo venir qua, perché non ero sicura, non conoscevo, e stavo lavorando nelle Filippine, insegnavo. Ma mia sorella: vieni qui, dài che è bello. Il primo giorno che sono arrivata qua ho anche pianto. Non mi piaceva, ecco. Ma dopo, quando ho cominciato a lavorare, il primo stipendio, poi la possibilità di viaggiare: ah ecco, allora sì.
Quindi hai scelto di venire qui per tua sorella?
Sì, per mia sorella. Mio genitore [padre] ha detto: vai che tua sorella è là sola. Ecco, questa è la storia.
Per il lavoro hai avuto problemi?
Guarda, l’impatto è stato tranquillo. Per il lavoro, no problemi, perché c’era mia sorella. L’unico problema perché con un lavoro devi aver casa dove stare.
Dove vivevate?
A Venezia, con mia sorella. Ho lavorato prima come badante, poi qualche part-time. Ultimamente al Casinò, sono sette anni ormai.
Noi ci conosciamo per via del basket alle elementari: giocavamo insieme, con tuo figlio. Hai avuto difficoltà per lui? Magari per iscriverlo a scuola?
Problemi con lui mai nessuno, da quando è nato mai un problema. Problemi di casa, di cambiare [casa], ma il Signore mi ha sempre aiutato.
Sorrido vedendo il piccolo crocifisso al suo collo, e mi ricordo la tristezza del figlio, al telefono con K., la notte della morte di Giovanni Paolo II.
Quindi alla fine dici di essere stata contenta di questo trasferimento?
Una volta non troppo, ma adesso siamo già alla cittadinanza. Prima, c’era sempre problema della questura. Oh mamma mia, oh mamma. Pensa che una volta c’era un errore per il cognome di mia madre – perché noi scriviamo sempre il cognome della madre. Il cognome di mia madre è Fonseca, e hanno sbagliato in ambasciata: Forseca. Allora io dover andare di qua e di là. Pensa quante volte sono dovuta andare in questura: 4 volte! Far la coda, finito non c’è più numero, poi chiuso finito. Guarda che stress, guarda, anche per mio figlio.
Mi ricordo.
Sì guarda, è per quello che ho deciso di far cittadinanza. Anche per Kecy. Ad esempio quando siete andati a Napoli, c’era il problema del passaporto, bisognava sempre portarselo dietro.
L’avete fatta nel 2004 la cittadinanza no?
Sì, l’abbiamo aspettata un anno e mezzo, mio figlio un po’ meno perché è nato qua.
In che anno eri arrivata?
Nel 1979. E una volta, se sei assunto dal lavoro, non puoi tornare [andare nelle Filippine, lasciare l’Italia] se non lavori da un anno. Adesso, anche se non hai lavoro puoi andare.
Prima era tutto più complicato. Una volta un giorno di riposo non c’era, posto non c’era per amici, perché siamo pochi una volta. Guarda non immagini come era una volta: ora puoi fare anche un mutuo casa.
Anche per la salute, prima, burocrazia. Ti faccio un esempio di mia burocrazia: sono in ospedale e devo fare operazione “tunnel carpale”, e il dottore aveva visto che sono straniera e mi ha chiesto documenti [intende il permesso di soggiorno]. Ma che mi chiedi i documenti quando già ti ho dato tessera sanitaria! Sono andata mattina presto a parlare con il medico perché mi serve questo e questo [intende le varie carte] per l’operazione; e l’altro medico “eh no, non si può, bisogna prima fare fotocopie del permesso di soggiorno” eccetera. Allora ho portato tutto.
Ma adesso – tu che conosci molte persone della comunità filippina – ti sembra che per i nuovi arrivati la situazione sia migliore?
Secondo me sì, perché adesso tutti quelli che avevano famiglia possono chiamare qua marito figli.
Ti chiedo l’ultima cosa hai mai avuto cose spiacevoli qua In Italia? Come atti di razzismo?
No. Sono andata da persone educate. Poi ho amici italiani che sono gentili ma poi non esco tanto fuori. Sono contenta. Pensa che mia sorella [un’altra sorella] che è in Canada, in America mi dice “Dài vieni”. Ma ormai sono venuta qua, devo ricominciare tutto da capo? No…
K. mi invita a cena, ma le rispondo che ho già altri impegni. Non è stato facile intervistarla: è stato abbastanza difficile convincerla a parlare e ogni volta tentava di liquidare il discorso in due parole. Ho cercato di tenere viva la conversazione usando un “appiglio emotivo”, evocando suo figlio.
Intervista a P., Venezia, Giudecca, 30 ottobre 2006
K. al telefono non mi ha detto nulla della ragazza che incontrerò fra poco, a parte un vago “è sudamericana”; ma, mi ha assicurato, lei è felice di essere intervistata. Decidiamo di trovarci a casa di K.; io temo di cominciare con il piede sbagliato, perché arrivo con parecchio ritardo e penso che P. ne sarà infastidita. Ma quando entro in casa, trovo P. che mi accoglie tranquilla chiedendomi con un sorriso se ho origini sudamericane. Su due piedi rispondo, stupito, di no, poi realizzo che era una battuta sul ritardo. è una ragazza giovane e bella, non avrà più di trent’anni e, a parte dei lineamenti marcatamente meticci, si direbbe italiana. K. ci offre una birra. è P. a cominciare: vuole capire bene quali sono i punti che mi interessano e quali cose voglio focalizzare e cerca di capire il perché delle mie domande. Questo suo interesse attivo ha fatto sì che le mie domande abbiano guidato e reso coerente un bisogno di parlare che già lei aveva.
Mi dici un po’ di te?
Mi chiamo P., sono nata in Perù, a Lima, in – come si dice – un distretto vicinissimo a Lima, a 30 minuti da Lima. Ho 27 anni. Ho iniziato a studiare dai 6 anni, qui non so come è valutata qui in Italia, fino agli 11 anni; poi fino al quinto anno di scuola superiore. Poi noi facciamo un anno per prepararci per l’università e poi io ho smesso.
Non hai continuato con l’università?
No.
Avresti voluto?
Sì, ma le condizioni economiche non lo permettevano. Vivevamo in condizioni economiche molto difficili. In Perù, insomma, quelli che hanno possibilità di studiare studiano, e invece quelli che non possono per questioni economiche e familiari è gia molto che finiscano le scuole dell’obbligo, diciamo. Per me quello è stato già un trionfo, perché io da quando ho avuto 11 anni ho iniziato a lavorare per finire queste scuole sennò sarei solo una analfabeta in più, e adesso non saprei neanche leggere.
Che lavoro facevi in quegli anni?
Facevo le pulizie in casa alla gente che sta bene, stiravo, pulivo. Questo mi dava la possibilità di continuare studiare, comprarmi i libri e robe varie. Comprarsi una matita in quei tempi là era un po’ difficile. E mangiare: non potevo andare a scuola senza mangiare.
Perché sei qua adesso? Perché l’Italia?
Sì, perché l’Italia? è stato puro culo. Io ho una zia in America, Stati Uniti, da vent’anni; lei è stata l’unica persona che mi ha offerto la possibilità di uscire dal Perù – noi siamo sei fratelli, è per questo che la nostra condizione economica è molto difficile. Insomma questa mia zia mi propose di andare con lei negli Stati Uniti, nella università, dove avrei studiato per avere un futuro migliore. Lei cercò di fare le carte varie, e invece alla fine non si fece niente perché entrare in America è molto difficile. Insomma proviamo tutta questa cosa qua, ma carte e visto tutto negato. La zia allora dice: “Io ho degli amici in Europa. Ho fatto dei giri, ho visto, se qualcuno mi dà una mano e ti faccio incontrare queste persone i biglietti aerei te li pago io e ti mantengo per 2 o 3 mesi e finché non riesci”.
Poi io a 16… 17…, no: 18 anni, ho fatto la richiesta del visto e a 19 anni stavo gia viaggiando ed è andato tutto ok. Sono arrivata nel 1999. Prima ho abitato in terraferma per due mesi poi sono venuta a Venezia dove sono tuttora. Lei [la zia] mi ha aiutato economicamente.
Quindi è stato principalmente questo “canale” che ti ha portato qui?
Come ti ho già detto sono state le condizioni economiche a portarmi qui. Visto che le nostre condizioni economiche erano molto difficili, era meglio che io venissi fuori dalla famiglia, non principalmente per me: io – che sono la seconda – lo facevo per i miei e per i miei fratelli. è stato un aiuto e tuttora continua a esserlo.
Riesci a mandarli dei soldi?
Sì sì, ogni mese!
Sono rimasti là tutti i tuoi fratelli?
Tutti lì. Come ti dissi, io ho avuto solo culo perché adesso ho cercato di portarli qua, almeno uno anche per aiutarmi, visto che la situazione…, e invece è stato inutile perché il mio paese non ci ha dato la possibilità: ti mettono ancora le barriere per uscire. Pensa che mi hanno chiesto dei soldi. Io per farli partire avevo bisogno di una casa, di uno stipendio e un contratto, e tutto questo non mi mancava: era perfetto. Visto che avevo una casa qua, uno stipendio fisso, robe varie, dovevo fare da garante per mio fratello, per la persona che viene come turista che poi dopo si cerca di fare permesso di soggiorno, vabbè. Mi chiesero in Perù se avevo 10mila euro in banca e nessuno dei miei parenti ha 10mila euro in banca! Insomma, alla fin fine non siamo riusciti a far niente qua. Sono sette anni che sono qua e non sono riuscita a portar nessuno.
Loro vorrebbero venire qua perché sanno che per me è un sacrificio. Poi sono comunque sette anni, e sono l’unica femmina tra i miei fratelli. Mio fratello più grande che ha 29 anni si arrangia con la sua vita, ha una sua famiglia; mia mamma dice che lui deve viver la sua vita… e quindi non si preoccupa di cosa succede agli altri piccoli. Il più piccolo ha 10 anni.
Adesso ti chiedo un po’ dell’Italia. Come è stato il primo periodo? Nel senso: sei arrivata in questo nuovo mondo e, a parte la lingua, come ti sei trovata?
Sono riuscita a integrarmi molto bene, ma non solo con la lingua, ma sotto tanti altri aspetti come le persone che conosco che per fortuna sono state sempre persone molto care e non ho avuto alcun tipo di problema, tipo mai offese e discriminazioni. Con la lingua insomma non ho avuto problemi: essendo vicini, in due mesi l’ho imparata. Mi sono sforzata tanto perché se avessi voluto chiudermi avrei potuto, e sarei diventata una semplicemente una in più di quei tanti peruviani che non sanno parlare.
Ci sono molti peruviani a Venezia?
A Venezia, no ma a Milano moltissimi, [e se fosse rimasta nella comunità,] saprei solamente dire qualcosa per comunicare, ma per il resto no.
Bene con le persone, ma da parte dello Stato, la burocrazia, cosa hai trovato? Te lo chiedo perché la settimana scorsa K. ha detto che è stato il suo unico punto dolente nel venir qua.
È una merda qua! Io non capisco! Io potrei accettare questa cosa qua dal Perù che è un paese molto indietro, ma in Italia da questo punto di vista sono veramente, scusa se te lo dico, degli stronzi! Tipo se… guarda, non trovo neanche le parole giuste per dirlo, so solo che le carte e robe varie sono… Insomma, io ho anche un bambino e per me anche se abito in Italia da sette anni fare il ricongiungimento familiare è un disastro, perché se io non ho un compagno non posso. Da un punto di vista hanno anche ragione, insomma devi poter dimostrare che per portare un bambino in Italia devi avere tutte le garanzie. Allora se ho a fianco un italiano, può darsi che tutto vada bene – un italiano che sta bene, perché se è uno che non sta bene, o son da sola, o con un peruviano, le cose si fanno difficili. Un’altra cosa che mi ha ferito moltissimo, due volte in particolare a Venezia: il mio fidanzato – che è italiano – una volta non mi è venuto a prendere in aeroporto; ho fatto la strada per uscire dall’aeroporto da sola e la polizia mi ha fermato e mi ha fatto aprire tutte le borse e le valigie perché avevo il viso da latino-americana. E mi hanno chiesto il permesso di soggiorno e gli ho detto che non era la prima volta che arrivavo qua.. Il mio permesso di soggiorno dal loro punto di vista non era valido, perché il mio permesso di soggiorno che mi diedero sette anni fa è un pezzo di cartone [come la carta di identità] molto grosso invece ora ti danno un foglio di carta punto e basta. Allora per loro era strano. Erano dei terroni perciò che dire… E chiamarono in Questura e fu tutto ok. Un’altra sera il mio fidanzato mi è venuto a prendere [sempre all’aeroporto] per far sì che mi vedessero con lui perché se mi vedevano con lui non succedeva nulla. Ed infatti è stato così. Questi sono i conflitti che ho avuto.
E per il lavoro come è andata?
Al casinò, faccio il barman.
Immagino che tu sia arrivata qui in Italia e abbia cercato vari lavori…
Sì, all’inizio facevo le pulizie. Non parlando la lingua insomma… Io ho sempre pensato che parlare la lingua di un paese è molto importante e ti serve non solo per difenderti ma anche per capire cosa ti sta accadendo… Insomma ho cominciato con le pulizie, ma appena ho capito che potevo cercare altro ho cominciato a cercare in bar. Ho anche lavorato in Comune.
Visto che molte volte gli immigrati vengono assunti in nero dai datori di lavoro tu hai mai…
Ecco, anche questo per me c’entra con la lingua. Se non l’avessi saputa, mi avrebbero preso molte volte per il culo. In effetti il contratto è stata una delle cose per me che ho sempre voluto conoscere. Il primo periodo facevo le pulizie in giro mi davano i soldi in nero, e penso che lo facciano ancora. Però io mi facevo dare quello che mi dovevano dare!
Da quanto lavori al casinò?
Tre anni. Due anni e mezzo in Comune, 8 mesi in ristorante.
Quindi con il lavoro qui in Italia riesci a stare bene? Insomma pensi di avere più possibilità che in Perù?
Sì.
Riesci a esprimerti? A fare ciò che desideri?
Sì.
A proposito hai un bimbo o una bimba?
Una bimba.. Ma non è qui è in Perù. Spero di portarla qui. Almeno se non finisce col mio fidanzato. Se finisco con lui, le cose vanno tutte… Insomma…
Forse dico una cosa che… io do molti punti agli italiani ma gli tolgo anche… trovo che tanti, non lo dico perché facevo le pulizie allora, tanti dicono che noi extra-comunitari portiamo via il lavoro alle ragazze e ai ragazzi, ma questo non è vero. So che c’è tanta gente, ad esempio quello che viene dall’est [Est Europa] che si comporta male ed è giusto che gli si punisca. Quando ho lavorato in Comune a Ca’ Farsetti mi sono sentita molto che io dovevo dare di più perché venivo da fuori. Adesso che è passato il tempo, ora che conosco voi io mi sento di dire “io faccio il mio” e faccio il tuo una volta che ho finito il mio se posso. Perché io sono assunta per il mio tu per il tuo. Io ho fatto molte volte di più, ma sapevo che non era giusto. Però ti senti obbligato perché non sei a casa tua, sai che comunque loro [gli italiani] ti stanno accogliendo lo stesso. Tipo io sono stata assunta in quel posto come barista, ma mi facevano lavare le pentole; io non protestavo perché non me fregava niente, mi bastava aver il lavoro punto e basta. Insomma quando finivo era stanca morta, perché non solo lavavo le pentole ma facevo il doppio di ciò che dovevo fare. Ma anche ora lo faccio ma…
Ora ti senti più sicura?
Sì, ora mi sento più sicura.
Come pensi al tuo futuro? Pensi di tornare in Perù?
È un po’ difficile tornare in Perù. Tornerei anche adesso perché c’è mio figlio e i miei fratelli, ma preferirei stare qua, perché sto bene qua. Non posso dire che ho tutto quello che volevo. Ma non mi devo svegliare al mattino con l’ansia di non avere il lavoro e da mangiare, anzi sono tranquilla. Giusto ieri ho pensato: cosa farei se avessi un po’ di soldi? Me ne tornerei in Perù? Dico di sì per la mamma, ma vorrei comunque stare qui.
Vorresti avere la cittadinanza italiana se te ne fosse data la possibilità?
Sì lo vorrei molto. Non mi voglio sposare assolutamente [per avere la cittadinanza]. Io spero di poterla fare. Sarebbe semplicemente più facile portare qua il bambino..
Dicono che in Italia si sta bene, ed è effettivamente così, ma la burocrazia qua è veramente impossibile. Io andrei via dall’Italia solo a causa questo, per il resto sono contentissima di stare qua! Io andrei via per gli sprechi e per le ingiustizie. Di fatto io non ho più la televisione a casa perché non fanno vedere ciò che è. Rincoglioniscono gli italiani invece di fare veder loro cose interessanti. Li intontiscono…
P. deve scappare, quando chiudo il registratore è praticamente già fuori della porta. Mi saluta velocemente e rimango un altro po’ a parlare con K. Dopo un po’ mi congedo; rientrando al Lido penso di essere stato fortunato a fare queste due interviste, tanto più nella stessa casa.