di Marco Toscano
Marco Toscano è un amico di storiAmestre che sta lontano. Per questo non ha potuto partecipare alla presentazione del Quaderno 10, ma si è deciso a mandarci una nuova lettera.
Cari amici di storiAmestre,
grazie come sempre per i vostri inviti. Mi spiace non aver potuto partecipare alla presentazione del quaderno di Guido Lanaro, purtroppo non ho più molte occasioni di capitare dalle vostre parti. Però l’ho già ricevuto: bello con la nuova grafica, la copertina – fatalità verde – con la foto. E l’ho letto con interesse, passione e gratitudine per quel che il Presidio ha fatto e prova ancora a fare. Tanto più che anche dove abito io – come ovunque ormai – ci sono comitati che cercano di impedire scempi del territorio, del paesaggio e delle vite nostre e future – sventramenti, fonti d’acqua che scompaiono da un giorno all’altro, frane, cementificazione e tutto il resto che conoscete bene.
Si potrebbero fare molte considerazioni su quel che racconta Lanaro, ma me ne preme soprattutto una, che deriva dallo stesso stupore che ho provato leggendo la cronaca sul 25 aprile a Mogliano Veneto pubblicata sul vostro sito, cioè il rapporto tra “dominante” e “dominati”. Facciamo anche che si butti via la festa della Liberazione, ma com’è che viene in mente di sostituirla con pratiche devozionali a un santo che per di più è il patrono di Venezia? Sì, l’ho letto che ora dicono “dei veneti”, ma insomma… a me ne hanno parlato sempre e solo amici mestrini e veneziani, con tanto di bòcoli e figliole di dogi da sposare alla fine della crociata. “Dei veneti” solo perché emanato da una capitale a tutti i suoi sudditi. Almeno sant’Antonio avrà esclamato “giù le mani da Padova”?
L’estate dalle mie parti son tutte giostre e palii, ma fa caldo, io esco solo a sera tardi per prender il fresco. Allora a tempo perso vado per internet a cercare storie di tradizioni inventate e una volta sono capitato anche sul sito di un palio delle vostre parti, quello di Feltre. Ho visto che è organizzato non per ricordare una data “di campanile”, ma per celebrare una “dedizione”, cioè una sottomissione “spontanea” – oggi il termine si prende alla lettera, chissà all’epoca. Mi dicono che in Toscana siano ancora a menarsi tra fiorentini e aretini – ritualmente per carità – in occasione dell’anniversario della battaglia di Campaldino. Né mi risulta che Siena o Pisa celebrino i giorni in cui furono sconfitte e incorporate nello stato fiorentino.
Sto facendo trasloco, se non fossero già nei cartoni cercherei almeno il vecchio libro di Paolo Pezzino sulle Piccole patrie e quello di due vostri amici, Filippo Benfante e Piero Brunello, quello sul calcio a Venezia, che verso la fine ha un paio di capitoli in cui si parla di rapporti tra Venezia e le altre città venete. Ma tutto si può riassumere così: come si esprime l’amore per le proprie terre, e anche la solidarietà e comunanza con i propri vicini di casa?
È quello che mi sono chiesto anche a pagina 36 del Quaderno, dove Lanaro descrive la varietà di persone che si sono ritrovate a dar vita al Presidio No Dal Molin: ci sono anche – cito – “ex leghisti”. Come “ex”? Avrei pensato che la Lega fosse la candidata ideale per raccogliere e guidare l’opposizione a qualcosa che stravolgerà completamente un territorio e una comunità, con effetti non tutti ancora prevedibili, ma che senz’altro sono calcolati tenendo conto di molte variabili tranne Vicenza e i vicentini.
Se non sbaglio, lo dice anche Emilio Franzina, in un intervento in consiglio comunale che Lanaro consiglia di rivedere su youtube. La Lega chiama a raccolta i veneti per essere “paroni in casa nostra”, ma poi non sostiene la lotta dei vicentini che si oppongono alla devastazione del territorio – una parte del Veneto – in cui vivono, anzi: come forza politica l’avversa e come governo la reprime.
L’esempio di Vicenza dimostra che lo slogan più autentico – cioè quello che meglio descrive la realtà – è “servi a casa nostra”. Oppure che il “noi” proposto della Lega è più negoziabile di quanto non sembri, e lo stesso vale per chi sono i “padroni” e qual è la “casa”. Una mia amica di Milano mi cita sempre Carlo Cattaneo. Cattaneo scriveva: “L’Italia non è serva degli stranieri, ma dei suoi”.
Sono trent’anni e passa di Lega ormai, il “fenomeno” comincia ad avere una certa età e molti governi – come il mitico partito rivoluzionario istituzionale del Messico. C’è tanta letteratura, anche di quella che si definisce “scientifica”, che non si finirebbe più di citare. Tra le cose che si sentono dire c’è che la Lega: “ha un forte radicamento nel territorio”, “è radicata nel territorio”, “è espressione del territorio” e così via. Sono frasi fatte, si capisce. Non stupisce che sia la Lega per prima a usare questa retorica da slogan pubblicitario, ma è singolare che tutti lo ripetano prendendolo per buono. Cosa vuol dire “radicata nel territorio”: radicata in un territorio cementificato? Radicata nei processi di cementificazione del territorio? Radicata nei processi di militarizzazione del territorio?
Possiamo dire: la Lega ha un’organizzazione territoriale o la sta costruendo, mentre le altre forze politiche no o le hanno deliberatamente distrutte. In questo c’è un elemento di verità, anche se non è sempre così. La Lega per esempio ha molti voti anche laddove non ha una sede, perché fa riferimento a parole – “d’ordine” mi sembra l’espressione adatta – che sono ripetute di continuo, e a un clima che incoraggia a esprimere certe affermazioni.
Allora possiamo dire che la Lega è fortemente radicata nel consueto conformismo della società veneta e più in generale italiana. In altre parole, c’è la solita componente del carattere italiano: affidare l’anima a qualcuno che decida per tutti, a un salvatore o a un liberatore che possa diventare presto un tiranno che ci sgravi dalla fatica di essere liberi.
La Lega è pur sempre strutturata attorno al mito di un uomo, di un capo. Scrivendo da dove scrivo, è facile aggiungere che di solito quest’uomo non è neanche veneto. “Verrà Bossi”, si sente dire; “Bravo Zaia” è lo slogan degli ultimi dieci anni nel Veneto. Il mio amico veneto, che me lo ha raccontato, mi dice che è uno slogan pensato per chi va in macchina: si leggeva prima nelle rotonde – nuovo elemento del paesaggio urbano ed extraurbano veneto – e adesso dove c’è un muro lungo strade o autostrade. A proposito, la mia amica piemontese mi dice che il nuovo presidente leghista della regione non è mica piemontese – sottinteso che essendo di Novara è lombardo, viene da fuori.
La Lega “è radicata nel territorio”. E invece il movimento No Dal Molin, e il Presidio No Dal Molin, con tanto di tendone piazzato in un campo di sorgo e di attività associativa, no. Il presidio, che Lanaro ci racconta fatto perlopiù da persone anziane, è sempre associato ai Centri sociali, sentiti come estranei al territorio. Insomma, chi vuole la Base è radicato radicata nel territorio, chi non la vuole è un alieno un’aliena.
Lo scopo di questa retorica del “radicamento nel territorio” è ribadire due cose. Primo, che gli interessi di un territorio riguardano solo quel territorio e non quello vicino, per esempio la base americana a Vicenza riguarderebbe solo Vicenza. Secondo, che c’è un unico modo legittimo di vivere in un posto, e che tutti gli altri modi non vanno bene e perciò non solo sono estranei, ma anche da reprimere.
La stessa retorica funziona anche in altri settori. Per esempio si sostiene che la Lega è radicata in un certo mondo del lavoro delle partite iva – si tralascia: dell’evasione fiscale e del lavoro in nero –, e anche in questo ci sono elementi di verità. Si può anche aggiungere: a differenza di larga parte della sinistra che guarda al lavoro pubblico dipendente o al lavoro salariato. “Partita iva” viene sbandierata come uno dei sinonimi di autonomia: lavoro autonomo. Ma si sa bene che ormai c’è una grande proporzione di partite iva che sono diventate sinonimo di nuova schiavitù o, nel migliore dei casi, di forte dipendenza da alcuni datori di lavori o di banche. Anche qui letteratura che non finisce più, ma in poche parole si può dire che c’è una retorica che intende a coprire le differenze per consolidarle e per legittimare “l’ordine”. E di nuovo – proprio come a Vicenza – nessuna protezione contro i forti, caso mai in cambio la possibilità di inferire su qualcuno più debole. Su questo magari dirò qualcosa in un’altra occasione, se il sito di storiAmestre continuerà a ospitarmi.
Le trasformazioni culturali sono il frutto di due cose: tempo e vocabolario. Girano certe parole, tutti le usano, tutti si convincono. Anche per questo ho apprezzato il Quaderno di Guido Lanaro. Si finisce la lettura con molte curiosità, volendo saperne di più, ma una cosa si capisce bene: prosa equilibrata, volontà di descrivere le cose per quelle che sono e di chiamarle con il loro nome, attenzione per sfumature e dettagli, ascolto e schiettezza: così si comincia a distruggere i luoghi comuni. Ancora schiacciati da circostanze esterne insostenibili, siamo lontani dal riappropriarci delle proprie vite, ma se non altro proviamo a farlo.
Scusate la lunghezza. In attesa di partecipare finalmente a una delle vostre iniziative, vi mando un cordiale saluto.
alessandro voltolina dice
santa panda.
Un tempo si facevano i voti ai santi: santa rita, sant’antonio, san gennaro… ma quella di santa panda è una storia del tutto rovescia, è l’unica santa nata da un voto.
alessandro voltolina dice
leggendo la bella lettera di Marco Toscano ho capito finalmente cosa bisogna fare per un buon radicamento nel territorio: è necessario scavare profondissimi buchi che devono essere adeguatamente riempiti di un buon cemento su cui spalmare nero asfalto. La ricetta è semplice, compagni. Con stima, alessandro