di Marta Verginella
Pubblichiamo alcune precisazioni della storica Marta Verginella relative al suo saggio pubblicato nella raccolta Il perturbante nella storia, a cura di Luisa Accati e Renate Cogoy, di cui abbiamo parlato qualche giorno fa. La lettera di Verginella ci invita a riflettere sulla ricostruzione dei fatti da parte della storiografia, e sul ruolo di un discorso pubblico che privilegia (e strumentalizza) l’empatia emotiva con le vittime (e la loro sacralizzazione, proiettandole così su un piano extrastorico). Come illustrano i vari saggi del libro curato da Accati e Cogoy, i meccanismi del discorso pubblico favoriscono una de-responsabilizzazione collettiva, rinunciano a comprendere le ragioni e le precise responsabilità delle violenze e dei massacri, oscillando tra autoassoluzione, perdono e indifferenza (purché deferente).
Gentile redazione del sito di storiAmestre,
vorrei fare alcune precisazioni riguardo ad alcune considerazioni fatte da Elisabetta D’Erme nella sua recensione del libro Il perturbante nella storia, che avete pubblicato qualche giorno fa, in particolare in merito al suo succinto riassunto delle tesi da me espresse nel libro. Nel mio saggio analizzo la pratica di negoziazione del confine italo-jugoslavo e di come si sono strutturate le narrazioni italiane e slovene relative agli eventi più drammatici del Novecento, ma soprattutto quali sono state le scelte narrative e iconografiche della fiction Il cuore nel pozzo.
Trattando in particolare il tema delle foibe istriane e giuliane, presento le tesi propugnate all’indomani degli eventi da parte dei nazifascisti e da parte del movimento partigiano croato e sloveno, ma anche degli italiani che combatterono in questo movimento. Scrivo di come si organizzarono nel dopoguerra evocazioni e silenzi, narrazioni e omissioni, memorie e rimozioni dei vinti e dei vincitori. Insisto sul fatto che le versioni dei fatti non sempre coincisero con l’appartenenza nazionale dei loro portavoce o sostenitori. Ribadisco inoltre il peso dell’ascendenza politica e ideologica esercitato sia nelle file dei costruttori della memoria degli eccidi del 1943 e 1945, che tra coloro che in nome della filiazione antifascista preferirono tacere la violenza praticata dagli insorti e dai vincitori del conflitto bellico. Spiego anche come la ricerca storica sul fenomeno delle foibe risentì del quadro politico nel dopoguerra e come dagli anni Sessanta in poi, anche grazie al lavoro fatto da Galliano Fogar, iniziò una nuova stagione di approfondimenti che cercò di slegare il tema da un uso fortemente strumentale. A questo proposito riprendo le tesi degli storici italiani Roberto Spazzali, Gianpaolo Valdevit, Raul Pupo, che rispetto a Fogar evidenziarono nelle foibe il fenomeno dell’epurazione preventiva, conseguente al progetto rivoluzionario del movimento partigiano jugoslavo, il cui obiettivo finale era annettere l’intera Venezia Giulia alla Jugoslavia. A proposito delle foibe istriane, scrivo che tra le vittime della violenza partigiana «vi erano persone contrarie al movimento di liberazione croato, civili morti in seguito a vendette personale, ma soprattutto individui ferventi sostenitori del regime fascista, ex squadristi e gerarchi, distintisi non soltanto nella persecuzione nazionale dei croati e degli sloveni ma anche nella repressione degli oppositori antifascisti al regime. Erano italiani, ma non esclusivamente. Come d’altronde nemmeno tutti i liquidatori erano di nazionalità croata. Nella pratica di violenza nemmeno l’appartenenza ideologica non era in tutti casi omologante. A uccidere in Istria, tra il settembre e l’ottobre 1943, non furono quindi solo i comunisti e i sostenitori dell’annessione dell’Istria alla Croazia e alla Jugoslavia, come continuano a sostenere la gran parte della memorialistica e una buona parte della storiografia edite in Italia, ma anche i nazionalisti croati, nutriti di livore antiitaliano, contrari a un progetto di una Jugoslavia comunista e sostenitori di una Croazia ustascia. Le inesattezze e le falsificazione nella contabilità degli infoibati, presentati in più casi come italiani e civili, sebbene non manchino fonti che riportano anche le uccisioni di serbi e croati, sono secondo [Giacomo] Scotti funzionali a mistificazioni storiche, assai utili per diffondere conoscenze fuorvianti e fortemente politicizzate, il cui obiettivo principale rimane mettere sotto silenzio la violenza prodotta dalle forze tedesche e fasciste che agli inizi di ottobre massacrarono in tutta l’Istria circa 5000 persone, tra cui 2500 circa civili».
Più avanti, a proposito dei militari arrestati e processati dall’esercito jugoslavo subito dopo l’arrivo a Trieste e Gorizia, scrivo: «Gli arresti procedettero, di fatto, in base ad elenchi stilati durante la guerra, ma non mancarono anche denunce dell’ultima ora fatte talvolta da facinorosi dai trascorsi politici poco chiari. Tra gli arrestati e i fucilati vi erano personaggi criminali, torturatori e delatori, ex squadristi fascisti, collaboratori e agenti della questura. Gli arresti a Trieste colpirono soprattutto i quadri intermedi di tutte istituzioni distintesi nell’uso della violenza e nella pratica di rappresaglia contro i civili, mentre a Gorizia coinvolsero anche personaggi di primo piano della vita cittadina, come ad esempio il questore, l’ex prefetto e l’ex podestà. Tra i disarmati dell’esercito jugoslavo vi erano però anche i membri del Corpo Volontario della Libertà, protagonisti dell’insurrezione organizzata nel centro di Trieste dal Comitato di liberazione nazionale triestino, svoltasi in concomitanza con quella gestita dal movimento di liberazione sloveno. Identificati dagli jugoslavi come avversari politici per la loro contrarietà alla politica di annessione jugoslava così a Trieste come a Gorizia nonché a Fiume vennero arrestati come soggetti politicamente sovversivi. Ad essere deportati e in alcuni casi anche fucilati furono soprattutto quelli politicamente più attivi. La stessa sorte toccò ad oppositori sloveni e croati politicamente moderati e contrari ai progetti rivoluzionari della dirigenza comunista. Tra i liquidati non mancarono persone politicamente non impegnate arrestate per errore e vittime di atroci vendette personali.
Che la repressione violenta svoltasi a Trieste a Gorizia tra maggio e giugno 1945 così come nel resto della Slovenia e della Jugoslavia fosse parte integrante di una strategia di annichilimento del dissenso e dell’avvio di un progetto rivoluzionario sostenuto dalla dirigenza comunista slovena sembra oramai assodato sia da parte dall’attuale mainstream storiografico italiano che da parte di quello sloveno. Tra gli autori dei più recenti studi storici sulle foibe permangono invece notevoli differenze interpretative riguardanti il contesto politico e sociale in cui si svolsero tali pratiche di violenza».
Ho voluto riportare per esteso questi brani per far intendere meglio ai vostri lettori i contenuti del mio contributo.
Ringraziandovi per l’attenzione vi porgo i miei saluti
Marta Verginella