di redazione sito sAm
Il 22 giugno siamo intervenuti a proposito della condanna subita da Roberta Chiroli per “concorso morale” a un’azione di protesta in Val di Susa ritenuta penalmente rilevante, pubblicando una nota “a difesa del resoconto etnografico”, accompagnata da alcune pagine che Guido Lanaro ha pubblicato sul movimento No Dal Molin nella collana dei Quaderni di storiAmestre. Il 12 luglio abbiamo ospitato un intervento della stessa Chiroli. Durante l’estate abbiamo continuato a seguire e a discutere questa vicenda, e riprendiamo ora la parola in vista dell’incontro del 12 settembre Dall’Egitto alla Val di Susa. La ricerca in campo organizzata da alcuni amici di Ca’ Foscari. Questo è il nostro contributo a distanza.
Fraintendimento e attacco alla libertà di ricerca
Le prime voci a difesa di Roberta Chiroli, a metà giugno, hanno sostenuto che la condanna penale è frutto di un fraintendimento: descrivendo nella sua tesi l’azione incriminata, Roberta Chiroli ha usato la prima persona plurale (il “noi partecipativo”) e il giudice, accogliendo la tesi del PM, e ignorando entrambi gli usi della disciplina, ha visto in un espediente narrativo proprio dell’antropologia la prova del contributo all’azione. Così scrivono i quotidiani al momento in cui la condanna diventa pubblica, tra il 15 e il 16 giugno 2016, e così viene ripresa la notizia nei giorni successivi.
La tesi viene subito fatta propria da alcuni antropologi accademici. Il 18 giugno, Marco Aime, sul suo blog nel sito del Fatto quotidiano, scrive a proposito dell’osservazione partecipante seguita da Roberta Chiroli: «Ovvio poi che se si viene coinvolti in qualche evento, che può essere una cerimonia rituale o una manifestazione di protesta, nel narrarlo si usi il “noi”». Il primo luglio, Aime riprende il suo articolo sul sito Doppiozero [http://www.doppiozero.com/materiali/fuciliamo-i-pronomi-sovversivi], e attenua la dichiarazione: «Se proprio devo fare il professore, potrei dire che l’uso del “noi” implicherebbe un coinvolgimento che rischia di rendere un po’ meno “da lontano” lo sguardo dello studioso. Sarebbe comunque un appunto di tipo metodologico, non un’accusa, tantomeno una condanna»; quindi ribadisce che la condanna di Roberta Chiroli è dovuta all’uso del pronome “noi” e prende le difese della ricerca antropologica che “coinvolge necessariamente in qualche modo chi la svolge”.
Il 22 giugno il Collegio didattico del corso di laurea in Antropologia culturale, etnologia, etnolinguistica di Ca’ Foscari pubblica una “dichiarazione ufficiale” sul caso Roberta Chiroli in cui difende il “noi partecipativo”, affermando l’importanza nella ricerca antropologica di “partecipazione ed empatia che non vogliono dire condivisione, ma comprensione: infatti solo così si può capire dall’interno il fenomeno indagato” (il testo integrale si trova sulla pagina facebook Storia a Ca’ Foscari).
La pubblicazione delle motivazioni, depositate il 7 luglio, faceva capire le ragioni della sentenza e il calcolo della pena. Il giudice fonda la condanna su un brano estrapolato dalla tesi (“ci siamo diretti verso la stazione”, “gli attivisti si sono disposti davanti alzando lo striscione mentre altri sventolavano le bandiere No Tav e gridavano slogan”, “dopo una decina di minuti […] abbiamo interrotto il blocco del traffico”) per concludere che Roberta Chiroli, sulla base di “espressioni di tenore autoaccusatoria [così nel testo] da lei stessa adottate”, era “rimasta sul posto”, dando “un contributo apprezzabile alla realizzazione dei reati stessi quanto meno rafforzando la determinazione degli altri compartecipi nella messa in atto di condotte la cui efficacia è strettamente dipendente dall’effettiva presenza fisica di un numero elevato di persone, numero che la Chiroli ha concorso a formare” (pp. 7-8): tradotto in un linguaggio piano, la ricercatrice era lì e quanto meno ha fatto numero.
Non sappiamo quanta circolazione possa aver avuto il testo delle motivazioni, ma la convinzione di un fraintendimento ha continuato a essere il principale argomento a difesa di Roberta Chiroli. L’appello In difesa della tesi di laurea lanciato da ventiquattro docenti di Ca’ Foscari il 19 luglio 2016 vuole ribadire soprattutto che una tesi è un esercizio di tipo scolastico, e in quest’ambito va valutato (sviluppando un argomento non molto diverso da quello usato da Aime il primo luglio), tuttavia inizia ricordando che Roberta Chiroli è stata condannata per aver usato nella tesi la prima persona plurale (anche questo si legge sulla pagina facebook Storia a Ca’ Foscari).
Sono soprattutto gli antropologi a sostenere l’argomento, per difendere il metodo dell’osservazione partecipante. Una Mozione in difesa dell’osservazione partecipante, sottoscritta il 21 luglio da quattro associazioni nazionali di studiosi di discipline etno-antropologiche, parte dalla constatazione che Roberta Chiroli è stata condannata per «aver usato nella sua tesi il “noi partecipativo” che implicherebbe una “identificazione” con le ragioni e le proteste del movimento No Tav. Il 22 luglio 2016 il congresso annuale dell’European Association of Social Anthropologists, che si tenne a Milano, esprime preoccupazione per la condanna di Roberta Chiroli dovuta a quanto si poteva capire a un fraintendimento della natura della ricerca etnografica (“due to what we understand to be a misunderstanding of the nature of ethnographic research”).
La tesi del fraintendimento può portare a due prese di posizioni, in genere compresenti. Da un lato, insistendo sul contesto di produzione e sulle finalità di una tesi di laurea, si dice che la magistratura dovrebbe conoscere, o essere guidata alle “regole, abitudini e codici espressivi del campo disciplinare” in cui viene scritta una tesi di laurea (o un altro documento scientifico e accademico), per evitare una lettura “ingenua, inadeguata, fonte di fraintendimenti” (così l’appello dei ventiquattro docenti di Ca’ Foscari, 19 luglio 2016). Dall’altro si denuncia un attacco alla libertà di ricerca (la dichiarazione del Collegio didattico di antropologia di Ca’ Foscari esprime “una grande preoccupazione per la libertà di ricerca in Italia, preoccupazione che speriamo venga dissipata dalla lettura delle motivazioni”; nel suo intervento del primo luglio Aime denuncia il pericolo “che la ricerca si occupi solo di cose innocue e non fastidiose per chi sta al timone” e si appella alla libertà di espressione garantita dalla Costituzione italiana; l’appello delle associazioni nazionali di antropologi del 21 luglio esprimono “viva preoccupazione per il moltiplicarsi di attacchi, anche a livello internazionale, contro la libertà della ricerca sociale in contesti caratterizzati da tensioni e violenze”).
La denuncia di un attacco alla libertà di espressione e di ricerca è il tema centrale in altre prese di posizione. Il 20 giugno il sito del collettivo Effimera pubblica un appello, scritto da chi si occupa di “narrazione”, “storytelling” e “ricerca”, che riprende l’argomento del “noi partecipativo” fin dal titolo Mai scrivere “noi”. Appello per la libertà di ricerca e di pensiero. Il fatto tuttavia che un espediente narrativo proprio della ricerca etnografica sia diventato la prova di un reato dimostrerebbe non tanto l’ignoranza da parte del giudice della prassi di una disciplina, quanto piuttosto «un inaccettabile atto intimidatorio contro la libertà di pensiero e la libertà di ricerca, ancor più grave in quanto portato avanti contro giovani studenti accusati di mettere troppa passione in ciò che fanno e minacciati di essere pesantemente sanzionati se prendono posizione, “partecipano” o osano fare politica»1.
Dopo aver letto le motivazioni della sentenza
Il 14 luglio abbiamo potuto vedere le motivazioni della sentenza pronunciata dal giudice Roberto Ruscello nei confronti di Roberta Chiroli e di altri due coimputati che avevano scelto il processo con rito abbreviato. Un’amica, dopo aver notato che le voci a sostegno di Roberta Chiroli si erano concentrate sulla questione del “noi partecipativo”, ci invitava a soppesare invece il linguaggio tecnico del diritto, soprattutto la formula “concorso morale”. Questione molto grave, perché – ci spiegava la nostra amica – il “concorso morale” non è semplice simpatia o adesione al “crimine”, ma un effettivo contributo psicologico all’azione, e deve essere provato un rapporto di causalità efficiente tra l’attività incentivante del concorrente morale e l’attività dell’autore del reato. Ci rimandava infine a una sentenza della Cassazione: “in tema di concorso morale la partecipazione psichica consiste nell’aver provocato o rafforzato l’altrui proposito criminoso e cioè l’attività del partecipe deve influenzare la commissione del reato o perché provoca o rafforza il proposito criminoso (istigazione) o perché ne facilita la preparazione o l’attuazione (agevolazione). Ne consegue che l’azione deve rendere più probabile l’offesa o favorirla, per cui non sussiste responsabilità allorquando il destinatario dell’anzidetta azione istigatrice sia già fermamente determinato a commettere il crimine” (Cassazione penale, sez. I, 16 dicembre 1987 Mambro Cass. pen. 1989, 198). Su questa base, la sentenza contro Chiroli sarebbe davvero sostenibile?
Proprio per provare a capire meglio almeno alcune questioni tecniche, abbiamo sottoposto il testo delle motivazioni a qualche altro amico. Un autorevole giurista ha commentato parlando di “aberrazione giuridica” e di strumentalizzazione del testo di Roberta Chiroli da parte del giudice che lo avrebbe usato come unica prova della “coscienza e volontà dell’imputata di aderire in via preventiva alla commissione dei reati” (p. 8 della sentenza). Anche altri hanno osservato la fragilità giuridica di una condanna basata esclusivamente sul racconto dei fatti riportati nella tesi di laurea (del resto il rito abbreviato scelto dalla difesa non prevede l’ascolto di testimoni e la produzione di documenti come in un dibattimento). Altri ancora hanno notato che non fosse chiaro come la tesi di laurea, di cui l’autrice aveva negato la consultazione, fosse finita tra gli atti del processo, passando da prova a difesa a prova di reato (cambiando fisionomia nel tragitto: l’avvocato difensore aveva presentato il frontespizio della tesi, prova che la sua assistita era presente a fini di ricerca accademica, mentre il PM aveva acquisito e allegato copia integrale della tesi dove scopriva le “espressioni autoaccusatorie”).
Chi osserva chi?
Le discussioni sul “noi partecipativo” concentrano l’attenzione sui caratteri propri dell’antropologia, fino a sottolineare le differenze con altre discipline come la sociologia2. Ma volendo spiegare le regole dell’antropologia a chi si suppone non le conosca o non ne riconosca il valore e pertanto – come sarebbe capitato al giudice – ne fraintende i risultati, si rinuncia ad applicare le categorie antropologiche all’analisi del dispositivo giuridico e quindi della sentenza.
Se si guarda esclusivamente all’imputato, si suggerisce l’idea che solo il suo comportamento abbia bisogno di spiegazione, mentre quello del giudice no, assumendo che lo sguardo del giudice – a cominciare dal suo modo di interpretare e applicare la legge – è un dato che non va discusso. Eppure da tempo l’antropologia ha spostato lo sguardo dalle popolazioni native al missionario, all’esploratore e all’etnografo; dai movimenti di protesta agli apparati repressivi; dai soggetti sfruttati ai meccanismi dello sfruttamento; dai marginali ai consumatori di un centro commerciali o agli utenti di un metrò. Qual è nel nostro caso un buon soggetto antropologico: il giudice, l’imputato, gli altri attori in scena? E qual è il contesto in cui inquadrare l’osservazione: le pratiche accademiche, lo statuto di una tesi di laurea, la libertà della ricerca, la libertà di manifestare e le forme dell’intimidazione o della repressione del movimento No-Tav?
Rispondendo a questi interrogativi con gli strumenti dell’antropologia si offrirebbe una visione della realtà sociale da angoli di visuale normalmente interdetti o ignorati, e non ci sarebbe modo migliore di dimostrare l’utilità della ricerca etnografica. Nel caso delle proteste in Val di Susa – ma vale lo stesso per altri movimenti e per vicende che negli ultimi anni hanno riguardato singoli individui – a essere oggetto di sguardo e di sanzioni penali è solo chi si oppone perché spesso le procedure penali nei confronti delle forze dell’ordine sono impossibili: per cominciare gli autori di eventuali abusi non possono essere identificati, cioè sono preventivamente sottratti alla visibilità3. L’antropologia, così come la storiografia, ha tutto da guadagnare nell’applicare sguardi che sovvertono gli schemi dominanti, le gerarchie vigenti, per cogliere gli eventi da una prospettiva diversa.
Molti studi, storicizzando lo sguardo del giudice e dell’inquisitore, hanno mostrato come i rapporti di sapere e i rapporti di potere si costruiscano insieme e si rafforzino l’uno l’altro. Chi ha pratica di storia delle procedure inquisitorie non stenterà a cogliere nella sentenza qualcosa di familiare: il giudice produce una confessione che l’imputata non ha reso, estrapolando un brano dai suoi scritti; l’oscillazione tra assoluzione (da intendersi non in senso giuridico ma cattolico: contrizione, penitenza, indulgenza e remissione del peccato) e ammonizione o avvertimento. Dal momento che Roberta Chiroli dimostra “modesta capacità a delinquere” allora le si concede la sospensione condizionale della pena e la non menzione sul certificato penale; il giudice peraltro parla di “effetto deterrente della presente condanna”: e su questa base formula “una prognosi di non recidivanza”.
Per concludere, non contestare lo sguardo del giudice rischia di tradursi in una linea difensiva che, invece di sottolineare l’inconsistenza delle imputazioni, tende a deresponsabilizzare l’autore o l’autrice nei confronti di ciò che ha scritto: in questo caso, una svalutazione della tesi di laurea (per quanto sia pacifico che il suo luogo di discussione è l’università, non un’aula di tribunale) e della scrittura stessa. Roberta Chiroli è una osservatrice a scopo di ricerca, laureanda e poi laureata; inoltre ha negato la consultazione pubblica della sua tesi di laurea. È molto importante perciò che ventiquattro docenti di Ca’ Foscari, con il loro appello, abbiano voluto difendere e salvaguardare il contesto didattico in cui Chiroli ha prodotto il suo scritto. Tuttavia, se ci si concentra solo sul contesto e sulle pratiche accademiche, una difesa di questo genere tende a prendere toni corporativi, lasciando al proprio destino chi descrive e documenta le proteste ad altro titolo, oltre a chi protesta. Le discussioni hanno fin qui toccato solo parzialmente il tema della scrittura, passando dalla difesa della libertà di ricerca alla difesa delle consuetudini di una disciplina o di un prodotto accademico: ci auguriamo che l’incontro del 12 settembre possa ampliare lo sguardo e toccare il tema della scrittura come responsabilità civile.
Il silenzio di Ca’ Foscari
Il 5 agosto Giuliana Arnone e Anna Di Qual, dottorande a Ca’ Foscari, pubblicano un “contributo al dibattito” in cui denunciano il silenzio “inopportuno e inspiegabile” di Ca’ Foscari, pur a distanza di un mese dal deposito delle motivazioni della sentenza (si legge sulla pagina facebook Storia a Ca’ Foscari). Roberta Chiroli, dicono, “non ha fatto altro che mettere in pratica gli strumenti e le pratiche del mestiere etnografico insegnati in ambito accademico”, perciò Ca’ Foscari dovrebbe prendere la sua difesa, dichiarando il proprio “concorso morale”, anche in nome della Costituzione della Repubblica italiana che garantisce l’autonomia della ricerca accademica. Al contrario, concludono Arnone e Di Qual, il silenzio di Ca’ Foscari induce studenti e insegnanti all’autocensura e alla rinuncia ad affrontare argomenti scomodi.
C’è un altro silenzio, oltre a quello denunciato da Arnone e di Qual, al quale alludeva l’appello In difesa della tesi di laurea dei ventiquattro docenti di Ca’ Foscari, e cioè quello relativo alle modalità di richiesta da parte della magistratura e di consegna da parte dell’istituzione di una tesi dichiarata non consultabile.
È una questione che, pensiamo, l’istituzione potrebbe affrontare esplicitamente, senza bisogno di reticenze o cautele. A due mesi dal deposito delle motivazioni della sentenza, Ca’ Foscari continua invece nel suo silenzio. L’incontro del 12 settembre in Aula Baratto Dall’Egitto alla Val di Susa. La ricerca in campo si apre con i “Saluti” di Michiele Bugliesi rettore di Ca’ Foscari. Immaginiamo che “Saluti” sia un understatement con cui gli organizzatori dell’incontro auspicano di ottenere “Dichiarazioni” o “Spiegazioni”. Magari spiegare nei dettagli le modalità di consegna alla magistratura di una tesi che Roberta Chiroli aveva dichiarato non consultabile, anche per “far valere – per quanto la legge consente – la garanzia della riservatezza, quando sia stata espressamente richiesta”, come chiede l’appello dei ventiquattro docenti di Ca’ Foscari; e poi dire se Ca’ Foscari difende Roberta Chiroli dall’accusa di aver messo in pratica insegnamenti ricevuti all’università di cui è stata allieva. Tutti citano il consiglio del regista Pudovkin secondo cui chi osserva deve “prima arrampicarsi sul tetto d’una casa per vedere dall’alto il corteo nel suo insieme e calcolarne la grandezza; poi deve scendere a guardare da una finestra del primo piano per leggere i cartelli portati dai dimostranti, e infine deve mescolarsi con la folla per farsi un’idea dell’aspetto esteriore dei partecipanti”. Ca’ Foscari – dal rettore agli insegnanti – approva e passa questo consiglio ai suoi studenti oppure, dopo la sentenza di Torino, lo ritiene imprudente?
Il contesto in cui si svolge il processo, e nei confronti di chi
Anche soffermarsi sulla sentenza struttura e delimita un campo di discorso: in pratica non si fa più caso al reato ascritto – al modo in cui viene descritto e rubricato e alla sua effettiva entità – né al contesto in cui si svolge un processo. Non ci si interroga per esempio sulle forme di controllo sociale e sull’operato delle istituzioni, compresa la criminalizzazione delle azioni di protesta. Come ha scritto Roberta Chiroli nel nostro sito: «Non mi aspettavo nemmeno un processo perché da diretta testimone posso affermare che le accuse sono spropositate, come per esempio quella di violenza privata: se bloccare una strada e quindi il transito di un camion per qualche minuto sventolando bandiere e uno striscione è considerata violenza privata contro il conducente forse dovremmo riflettere sulla legittimità e i limiti odierni del concetto di “disobbedienza civile”».
Abbiamo tenuto presente questo argomento e abbiamo scritto questa rassegna sul caso di Roberta Chiroli per esprimere la nostra piena solidarietà a lei e a chi ha subito e subisce gli effetti di condanne intimidatorie, e a quanti si oppongono alla linea alta velocità Torino-Lione che ha militarizzato un territorio (con poliziotti, esercito, filo spinato, reti metalliche, check-point, sistemi di videosorveglianza) per un’infrastruttura che per primi i cittadini che ci abitano, e non i soliti attivisti, non vogliono. Ci uniamo a quanti dicono no alle grandi opere inutili, costose, devastanti per l’ambiente e la vita delle popolazioni oltre che a rischio di infiltrazioni della criminalità organizzata: il tutto a scapito di quegli interventi sociali e di quella cura del territorio di cui questo paese avrebbe bisogno.
- Cinque dei docenti universitari firmatari dell’appello (Alberto Fumagalli, Cristina Morini, Francesca Coin, Stefano Bonaga, Maurizio Matteuzzi) lo hanno poi indirizzato, con una lettera aperta, a Chiara Appendino neo-sindaco di Torino pubblicata sul Fatto quotidiano del 23 giugno 2016, a p. 13, ribadendo che la sentenza trasforma «un espediente narrativo fondante della ricerca etnografica, il “noi partecipativo”, nella prova di un supposto “concorso morale” con le condotte contestate dall’accusa». [↩]
- Così per esempio la relatrice della tesi di Roberta Chiroli, Valentina Bonifacio, in un’intervista ora disponibile sul sito della rivista Lo Straniero, datata 15 luglio 2016 [↩]
- Su questo, interessante l’intervento dell’avvocato Stefano Bertone, del movimento No Tav, pubblicato sul sito notav.info il 28 agosto; è una replica a quanto avevano scritto tre procuratori di Torino, Francesco Saluzzo, Armando Spataro, Alberto Perduca, apparso sulla Stampa del 14 luglio; tutta la documentazione è accessibile tramite il primo articolo citato. [↩]
enrico dice
Giusto. Non si tratta qui tanto di difendere una corporazione né la libertà di espressione né tantomeno la pratica sconsiderata dello storytelling ma la descrizione o quello che chiamate la scrittura civile.