di Giacomo Debenedetti
Per ricordare l’8 settembre, quest’anno riprendiamo alcuni ricordi di un grande critico letterario. Nel 1946 Giacomo Debenedetti (1901-1967) rievocò il viaggio da Roma verso Cortona fatto in treno, il 13 settembre 1943, insieme alla sua famiglia, in una lettera indirizzata a un altro celebre letterato, Pietro Pancrazi (1893-1952) che quel giorno era sul treno insieme a loro. A Pancrazi i Debenedetti dovettero la salvezza di un rifugio sicuro dalla persecuzione antiebraica fino alla liberazione di Cortona (3 luglio 1944). Ma in settembre, il lieto fine era tutt’altro che scontato: “E io avevo come vergogna di me stesso, come se fossi stato io personalmente, per un colpo di testa, per un errore di calcolo, a trascinare i miei bambini in un’avventura di cui non potevo assicurare l’esito”.
Caro Pancrazi,
nessuno meglio di te è in grado di sapere che cosa abbia rappresentato Cortona, il tuo caro e bellissimo paese, per gente a cui l’8 settembre e i mesi successivi potevano creare difficoltà di vita quasi insormontabili.
Abbiamo fatto insieme, il 13 settembre 1943, il viaggio da Roma a Cortona. Il treno era carico (carico, anzi, è dir poco) di soldati ancora in divisa, che i tedeschi avevano disarmati nella zona tra Napoli e Formia (verso Sparanise, se ricordo bene). A vederli dalla riva della nostra apprensione, essi facevano pensare a quelle case, di cui i bombardamenti aerei hanno sfondato l’interno, mentre la facciata rimasta illesa mostra di ignorare il disastro: le persiane continuano ad allineare, tra il bianco dell’intonaco, il loro verde allegro, lucido e nutrito, i gerani a ridere sui davanzali. Quelli parevano nient’altro che militari congedati al termine del servizio, meglio ancora: smobilitati dopo una lunga guerra. Cantavano romanze tenere e ritmi americani, a cui si mescolava ogni tanto il pezzo di prammatica: «o macchinista della stazione…». Mangiavano, quelli che avevano qualcosa da mangiare. Offrivano – su un fondamentale amalgama di spensieratezza che a noi pareva strabiliante – quella varietà di tipi, di umori, di dialetti divenuta in qualche modo fissa e proverbiale in qualsiasi gruppo di soldati italiani, e che rievoca il ricorrere delle maschere e delle situazioni nella nostra commedia dell’arte (quel Bortolo veronese, per esempio, era impastato senza dubbio nella sostanza burlesca, offesa e strafottente, nello spirito di risorsa di Arlecchino). Poteva far pena che, per intenderci con loro, bisognasse accettarli come maschere, oppure andarli a raggiungere nel loro fondo sentimentale, di là delle circostanze enigmatiche, ma già certamente drammatiche, e prossime a diventarlo sempre più, che ci riunivano su quel treno. (Ma forse avevano ragione di sfogarsi così con quell’allegria e quel baccano: loro erano i fortunati, mentre su quella stessa linea ci toccò di vedere, o piuttosto di sentire, nelle settimane successive molti altri di quei ragazzi: gridavano, gemevano, chiedevano soccorso dai vagoni piombati, lanciavano di tra le grate foglietti su cui avevano scarabocchiato i loro nomi, e gl’indirizzi delle famiglie). Io viaggiavo con mia moglie e coi bambini: e questi erano presi naturalmente dalla solita euforia dei bambini sul treno – appetito, loquacità, smania di far prodezze – accresciuta dal sentirsi partecipi di un’avventura straordinaria e poco meno che salgariana, nonché dal contagio di quell’esuberanza dei soldati, da quei viventi bozzetti di vita militare. E io avevo come vergogna di me stesso, come se fossi stato io personalmente, per un colpo di testa, per un errore di calcolo, a trascinare i miei bambini in un’avventura di cui non potevo assicurare l’esito. Vergogna che essi si fidassero ancora dei loro genitori, i quali probabilmente non sarebbero più stati in grado di proteggerli. Ti guardavo, caro Pietro: e tu cercavi di nascondere, sotto il contegno più normale, la preoccupazione che forse nemmeno Cortona sarebbe riuscita a offrirci l’asilo sperato, non che le mancasse il buon volere, ma forse i tedeschi e i fascisti (poche ore prima avevamo avuto notizia della liberazione di Mussolini) avrebbero preso tanta forza da impedirglielo.
Così arrivammo a Cortona e per dieci mesi – quanto durò l’occupazione tedesca – Cortona ci diede l’aria libera, un agevole riparo, la fraterna «complicità» dei suoi abitanti e l’acqua, il pane e il vino, e tutto questo consolato ancora dalla vista di uno dei più bei paesaggi d’Italia e dallo spettacolo nuovo per noi delle stagioni e dei lavori in campagna; tutto questo in un tempo in cui potevano esserci riserbate ben altre accoglienze e ben altro spettacolo e ben altro vitto”.
Nota. Tratto da La piccola patria. Cronache della guerra in un comune toscano (giugno-luglio 1944) raccolte da Pietro Pancrazi, Le Monnier, Firenze 1946, pp. 135-136; l’intera lettera di Debenedetti, sotto il titolo Testimonianza di gratitudine, è alle pp. 135-140. Fa parte dell’ultima sezione del libro, “Ospiti”, che comprende anche i Ricordi di uno sfollato dello storico Nino Valeri e le Pagine di un diario [27 ottobre 1943-3 luglio 1944] di Renato Orengo, la moglie di Giacomo Debenedetti; questo diario è stato poi ripubblicato con alcune varianti e aggiunte come Diario del Cegliolo. Cronaca della guerra in [un] comune toscano: giugno-luglio 1944, All’insegna del pesce d’oro, Milano 1965 (66 p. in formato minuscolo).
Poco dopo la liberazione di Cortona, Giacomo Debenedetti rientrò a Roma, dove nel settembre-ottobre 1944 pubblicò due scritti memorabili: Otto ebrei, a partire da un episodio legato al processo contro Pietro Caruso, il questore repubblichino di Roma dal febbraio 1944, ovvero l’autodifesa del commissario Raffaele Alianello, che si fregiava del fatto di aver espunto il nome di otto ebrei dalla lista dei condannati a essere uccisi alle Fosse Ardeatine; e 16 ottobre 1943, la cronaca della razzia del ghetto di Roma, a cui Debenedetti allude anche nella lettera a Pancrazi (“su quella stessa linea ci toccò di vedere, o piuttosto di sentire, nelle settimane successive molti altri di quei ragazzi: gridavano, gemevano, chiedevano soccorso dai vagoni piombati, lanciavano di tra le grate foglietti su cui avevano scarabocchiato i loro nomi, e gl’indirizzi delle famiglie”). Su 16 ottobre 1943 e altri racconti nati da quella terribile giornata, è possibile leggere sul nostro sito un bel saggio di Alberto Cavaglion (poi a stampa: Il grembo della Shoah. Il 16 ottobre 1943 di Umberto Saba, Giacomo Debenedetti, Elsa Morante, in Dopo i testimoni: memorie, storiografie e narrazioni della deportazione razziale, a cura di Marta Baiardi e Alberto Cavaglion, Viella, Roma 2014, pp. 245-261).
Per finire, due parole sul libro curato da Pancrazi. Come avvisa il sottotitolo, si tratta di una raccolta di “cronache che testimoniano e raccontano il passare degli Eserciti Tedeschi e Alleati e della guerra nel territorio [di Cortona], tra il giugno e il luglio del 1944” (così Pancrazi nella Prefazione, p. V). Le testimonianze arrivano da preti, partigiani e altri che si trovarono a vivere quei giorni, e riguardano le varie zone del territorio di Cortona: montagna, centro cittadino, pianura. Pancrazi indica due ragioni profonde alla base di questo lavoro di raccolta. La prima è l’invito di Benedetto Croce a registrare “l’esatto ricordo di un tratto della storia della nostra Italia, della quale, col passar del tempo, di disperderebbero e in gran parte si perderebbero testimonianze e documenti”, a fissare “in un nitido e sobrio quadro, di carattere rigorosamente storico, la notizia di tutte le stragi e di tutte le distruzioni che i tedeschi hanno fatto nell’Italia […] dal 9 settembre 1943 all’aprile del 1945”.
Il secondo “stimolo o movente”, prosegue Pancrazi, è “più difficile a dire e a definire, perché più vicino a un sentimento che, come tutti i sentimenti sinceri, ha la sua ritrosia e il suo pudore: la carità del natio loco, la pietà della propria gente. Non ce lo siamo detti ancora; ma, tra tante rovine della patria grande, a molti italiani la guerra insegnò per un momento a riconoscere e ad amare di più, e di più geloso amore, la piccola patria” (tutte le citazioni fin qui alle pp. V-VI).
Scritto nel 1946, è un libro intriso di umanità, apertura al mondo, ottimismo si direbbe forse in una parola: “E un’altra cosa voglio ricordare di quel tempo che fu, sì, atroce tempo di guerra (e con le facce dure dei tedeschi, vide lividi i volti di molti italiani), ma ch’ebbe pure, quasi a compenso, una sua particolare, improvvisa e inattesa umanità e carità.
In quei mesi o in quelle settimane, in verità nessuno di noi restò qual era: e chi non divenne più cattivo, era diventato più buono. Forse perché tutti avvertimmo di esser sensibilmente entrati nel giro di un destino e tra cose troppo più grandi di noi; e nello stesso tempo tutti sentivamo di scontare un peccato, di soffrire per una colpa anche nostra; due sentimenti quasi in contrasto, che però si accordano nel dare un religioso senso alla vita. ma soprattutto perché le improvvise grandi cose e l’incerto destino avevano fatto tutti più leggeri: ciascuno aveva scrollato da sé molto del «di più», del vano e del privilegio, per cui più spesso l’uomo è estraneo o nemico all’uomo. Per un momento almeno, gli uomini si accorsero che quello che li unisce può valere assai più di quello che li divide” (p. VIII).
“Ora qualcuno dirà che il sentimento nostro di allora, quella carità e pietà umana e quella speranza, furono il bene quasi soltanto di un momento; e che presto ciascun uomo e tutti gli uomini si rinchiusero nuovamente nel loro riccio e lasciarono rispuntare gli aculei dell’invidia o dell’avarizia, o soltanto della antica stupidità loro; e che questo fu poi sempre l’unto su cui si muovono le ruote del mondo. questo taluno può anche dire; ma nessuno e niente può fare che quella carità e quella speranza, allora e in quel momento, non siano state; e che, a quel ricordo, qualche cosa anche oggi in noi non si commuova” (p. IX). (f.b.)
pergentino visentin dice
Bene la pubblicazione della lettera di Debenedetti a Pancrazi, anche perché mi ha regalato l'extrabonus di leggere "Il grembo della Shoa", che a suo tempo mi era sfuggito. Stamattina, appena apre, filo dritto in biblioteca a procurarmi "Scorciatoie e raccontini". Ce l'hanno. Speriamo abbiano anche "la resistenza in convento". Debenedetti sul 16 ottobre ce l'ho. Così la Morante, ma è quatrifoglio che non raccoglierò. Così mi piacciono i periodici. Leggi un pezzo? Ecco che ti fa venir voglia di leggerne altri tre (minimo).