di Lucio Sponza
Il nostro socio e amico Lucio Sponza ha letto l’ultimo libro di Adriano Sofri (Il martire fascista: una storia equivoca e terribile, Sellerio, Palermo 2019), che ci era già capitato di incrociare sul nostro sito, sotto la penna di Claudio Zanlorenzi. Persone e luoghi a distanza di migliaia di chilometri e di decine di anni, una storia di “imprevedibili collegamenti, coincidenze, convergenze e anche digressioni – ma anche di lacune e distorsioni della memoria”.
Tra gli anniversari più o meno celebrati durante il 2020, uno poco ricordato è stato il centenario del Trattato di Rapallo (12 novembre 1920). Per il Regno d’Italia fu firmato da Giovanni Giolitti, che da qualche mese era ritornato alla guida di quello che sarebbe stato il suo ultimo governo, e dai rappresentanti del Regno dei Serbi, Croati e Sloveni – la futura Jugoslavia. Scopo della trattativa era risolvere la difficile questione del confine fra i due paesi. A sollecitare il raggiungimento di un accordo contribuì l’occupazione dannunziana di Fiume (settembre 1919), che non era fra i territori assegnati all’Italia dall’armistizio e dal novembre 1918 era sotto il comando militare interalleato.
A Rapallo furono decisi i confini: tutta l’Istria e la città di Zara passarono all’Italia, il resto della Dalmazia all’altro Regno. Fiume rimase in sospeso: fu dichiarata “città libera” (anche se non lo era) e sarebbe diventata italiana con un nuovo accordo nel 1924. Si sa che quei territori di confine etnico-geografico sarebbero stati teatro di soprusi, violenze e atrocità fra l’autunno del 1943 e i primi anni del secondo dopoguerra da parte jugoslava. Si sa anche che i primi a far le spese, vittime dell’aggressività italiana durante il fascismo, erano state le popolazioni slovene e croate – “allogene” – di quelle terre, che dovevano essere “italianizzate” più con il bastone che con la carota.
Adriano Sofri ha condotto un’indagine rigorosa su un episodio cruento accaduto nell’ottobre del 1930. Il giorno 4 di quel mese, all’inizio dell’anno scolastico, il maestro Francesco Sottosanti fu ucciso a fucilate davanti all’ingresso di casa sua a Verpogliano (ora in Slovenia: Vrhpolje); lo aspettavano la moglie e i loro cinque figli – un sesto era in arrivo.
Sul Corriere della Sera del 6 ottobre, sotto il titolo Fascista ucciso nel Goriziano in una vile imboscata si leggeva: “L’ucciso, [che] funzionava nelle ore libere da impiegato in quel municipio […] era un ardente fascista e milite della 62.a Legione Isonzo […], assolveva nel modo più encomiabile anche le funzioni di insegnante elementare nella scuola del luogo” (p.13). Ci furono funerali imponenti, con la partecipazione del prefetto di Gorizia e del Segretario federale. Su richiesta fatta dal padre direttamente (anche) a Mussolini, la salma fu trasportata a Piazza Armerina dove l’ucciso era nato nel 1894 e quando il treno passò per Catania furono convocati tutti i maestri della città; seguì un secondo funerale solenne nel cimitero di Piazza Armerina. Sulla lapide, ancora oggi, si legge: “Odio contro l’ITALIA / credette di sopprimere nel / Prof. SOTTOSANTI FRANCESCO / la grande idea della Patria / rinnovata / dal Fascismo / ma rifulse più vivida la FEDE / e l’anima del Martire s’illuminò / di Gloria // Il Fascio di Pazza Armerina 16 Ottobre 1930 VIII”.
Un mese prima si era celebrato a Trieste, presso il Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, il processo a quattro giovani “allogeni”. Era sucesso che nel febbraio di quello stesso anno costoro avevano fatto esplodere una bomba nella tipografia del Popolo di Trieste, che per diffusione nazionale era il secondo quotidiano fascista dopo Il Popolo d’Italia; credevano – dissero – che l’edificio fosse vuoto, ma morì un redattore e furono feriti due impiegati. I quattro appartenevano a una organizzazione armata dell’irredentismo jugoslavo e furono fucilati alla schiena. L’uccisione di Sottosanti fu considerata la conseguente vendetta e suscitò grande scalpore. Lo stesso ministro dell’Educazione Nazionale, Balbino Giuliano1 telegrafò: “Il mio profondo compianto al buon maestro, che per tutta la vita ha compiuto santamente il suo dovere, e che oggi la viltà dei sicari ha elevato alla gloria dei Martiri d’Italia” (p. 20).
Solo molti anni dopo si conosceranno i nomi e le vicende dei due autori dell’omicidio: Danilo Zelen, che nel 1930 aveva 23 anni, e Tone Černač, che ne aveva 25. Sarà il secondo a raccontare come andarono i fatti in un libro di memorie pubblicato a Lubiana nel 1995. Appartenevano a formazioni irredentiste e avevano già eseguito degli attentati alla fine degli anni ’20, ma agivano anche come antifascisti. Prima di quell’ottobre del 1930 erano andati a Parigi e avevano preso contatto con membri della Concentrazione antifascista che risiedeva nella capitale francese per averne l’appoggio, ma ottennero solo la consulenza di Raffaele Rossetti2 sull’impiego di congegni elettrici per esplosivi. Ritornati in Slovenia, Černač ricorderà il proprio turbamento alla notizia della fucilazione a Trieste dei quattro giovani – di cui uno era stato suo compagno di scuola – e il desiderio di vendetta uccidendo l’odiato maestro fascista. L’altro attentatore, Danilo Zelen, nel ’29 era entrato nella direzione di una delle organizzazioni armate dell’irredentismo jugoslavo. Nel ’36 era tornato a Parigi e aveva incontrato Carlo Rosselli. Un mese dopo l’aggressione italo-tedesca alla Jugoslavia (aprile 1941) morì in uno scontro a fuoco con carabinieri italiani. “In patria – scrive Sofri – Zelen è commemorato come il comandante militare della prima formazione che si sia opposta con le armi al fascismo in Europa” (p. 106).
Ma torniamo a Francesco Sottosanti. Furono arrestati due ‘allogeni’, ma uno di loro dimostrò che quel 4 ottobre si trovava altrove; sul secondo – ritenuto l’omicida – fu spiccato un mandato di cattura ma rimase latitante. Se quella era la pista privilegiata, nel buio delle indagini, non mancarono altre ipotesi. Per le origini siciliane di Sottosanti, fra i carabinieri e i poliziotti del Goriziano si insinuò il sospetto che il delitto fosse di origine mafiosa, quasi a non limitare i pregiudizi agli altri “allogeni”. Si disse anche che il Sottosanti fosse stato ucciso per vendetta dal fratello di una giovane del paese che lui avrebbe sedotta e rovinata. Secondo la stampa di Lubiana e di Zagabria il maestro era odiato per il suo comportamento oltraggioso e violento verso gli scolari di origine slovena: li puniva, si sosteneva, se parlavano la loro lingua – cosa diventata proibita dalla Riforma Gentile (1924) – sputandogli in bocca; si rincarava poi l’orrore facendo circolare l’idea che il maestro fosse malato di tubercolosi.
Insomma, da una parte Francesco Sottosanti era rappresentato come un buon maestro, un ottimo padre di famiglia e un combattente per l’italianità di quelle “nostre sacre terre” – amato da tutte le persone giuste; dall’altra come persona brutale e ripugnante – odiata da tutte le persone equilibrate. Ma ecco emergere la probabile risposta a questa contraddizione solo apparente: ci fu uno scambio di persone – chi doveva essere ucciso era il fratello minore di Francesco, Ugo. Anche lui si era trasferito dalla Sicilia al Goriziano; anche lui insegnava nella scuola elementare del fratello, sia pure per un tempo limitato in qualità di supplente. Era anche il Segretario politico di Vitipacco, vicino a Verpogliano. Era stato di Ugo – ormai non c’erano dubbi – il comportamento violento e rivoltante, tanto che era stato allontanato dall’insegnamento e dai suoi incarichi politici. La realtà metteva a disagio sia il versante italiano che quello sloveno: “L’italiano, che teme la comparsa, dietro il martire fascista, del fascista fratello minore e del suo ignobile operato. Lo sloveno, che deve riconoscere che la punizione del maestro razzista e cattivo ha colpito l’uomo sbagliato” (p. 71). Quasi per far quadrare il cerchio un giornale di Lubiana sostenne che Francesco era stato ucciso dal fratello, di cui era nota la perversione; solo che Ugo era ritornato in Sicilia prima dell’omicidio e proprio nel giorno dell’assassinio era entrato all’Accademia Fascista della Farnesina, che era allora l’unico istituto superiore di educazione fisica in Italia. Si diplomò nel febbraio del ’33 e dopo essere stato insegnante di ginnastica altrove tornò a Piazza Armerina come ordinario di ruolo di educazione fisica.
Che Ugo Sottosanti fosse tisico, quindi, è da escludere proprio in ragione del suo ingresso all’Accademia Fascista della Farnesina. D’altra parte Sofri scopre che in quelle terre di confine orientale c’erano altri casi di insegnanti italiani di cui si diceva che sputassero in bocca ai bambini che parlavano nella loro lingua, sloveno o croato – e la cosa è ripetuta come vera ancora ai nostri giorni. Ma probabilmente la condizione della tubercolosi è da mettere nel conto della “coloritura” delle tesi aprioristiche e dei pregiudizi, che non mancavano da entrambe le parti. Ugo ebbe il suo momento di gloria nel 1937, quando Mussolini visitò Piazza Armerina: in onore del duce egli diresse a bacchetta le Piccole italiane in una manifestazione ginnica nel Giardino Garibaldi.
Per approfondire le circostanze e il contesto di questi avvenimenti, Sofri ha visitato sia i paesi del Goriziano coinvolti in questa storia (che in parte conosce, da triestino che frequentava quei luoghi) che Piazza Armerina, incontrando chi ancora aveva memoria di quei tempi, se non di quei fatti. Ne risulta un quadro di imprevedibili collegamenti, coincidenze, convergenze e anche digressioni – ma anche di lacune e distorsioni della memoria, che conferma a Sofri la “malleabilità dei ricordi e dei racconti, e della loro involontaria mescolanza” (p. 170).
A Piazza Amerina una delle strade principali era stata dedicata al “Martire Fascista Francesco Sottosanti”, ma dopo la guerra quell’iscrizione fu trasferita in altra parte della città, dopo aver eliminato il “Martire Fascista”. Sofri nota anche che una strada è dedicata a un altro nativo di Piazza Armerina, Salvatore Principato: “Maestro socialista partigiano / assassinato dai nazifascisti/ in Piazzale Loreto a Milano // Piazza Armerina 2.5.1892 / Milano 10.8.1944”. Salvatore Principato aveva meritato una medaglia d’argento al valor militare durante la Grande Guerra, alla fine della quale ritornò all’insegnamento a Milano, dove si era trasferito ventenne; era stato attivo nel Partito socialista, frequentando la casa di Filippo Turati e Anna Kuliscioff; era sempre stato sorvegliato dalla polizia e nel 1933 aveva subito il carcere; dopo il 25 luglio 1943 aveva rappresentato il suo partito nel C.L.N. Arrestato nel 1944 fu tra i quindici fucilati di Piazzale Loreto.
Milano ritorna nelle pagine finali del libro per un’altra, più recente, strage – quella avvenuta nella Banca dell’Agricoltura di Piazza Fontana il 12 dicembre 1969. Uno dei sei figli di Francesco Sottosanti, Antonio – “Nino” – (nato a Verpogliano nel 1928 e morto nel 2004) era giunto da Piazza Armerina, dove viveva, a Milano perché si era offerto di testimoniare in favore di un giovane anarchico che aveva conosciuto e che ora era detenuto per un “attentato dimostrativo”. A tale scopo si incontrò con Pino Pinelli, che coordinava gli aiuti ai compagni anarchici in carcere, proprio quel 12 dicembre. Questo contatto contribuì a sollevare i sospetti su Pinelli anche perché – questa vicenda ha dell’incredibile – Sottostanti somigliava a Pietro Valpreda tanto da esserne considerato, quando l’errore fu chiarito, il sosia. Furono amici di Valpreda a originare l’errore nel tentativo di scagionarlo, ma finendo per ingarbugliare di più le cose. Nino partì da Milano il 24 dicembre lasciando alle sue spalle ambiguità e – lo si sarebbe saputo molto più tardi – tracce di un suo ruolo di confidente al soldo degli Affari Riservati del Ministero dell’Interno. Su questa storia Sofri aveva già dedicato due libri, mettendo in luce l’equivoca figura del personaggio – che amava definirsi “Nino il mussoliniano” – il quale era “negli anni a ridosso del ’68 un esemplare della torbida confusione di eversione di destra, pseudoanarchismo e […] disponibilità alle polizie pubbliche e segrete” (p. 205-6).
Questo deve essere stato il punto di partenza di Sofri per risalire alla vicenda di Francesco Sottosanti; come punto d’arrivo del libro qui esaminato, l’autore riproduce parte di un antico mosaico che si trova nella Villa del Casale a Piazza Armerina. Vi è rappresentata una tigre che diventa vittima di un inganno: le si lancia una palla di vetro dove l’animale si specchia e, vedendo la propria immagine rimpicciolita, crede di riconoscere un suo cucciolo e mentre viene così distratta, i cacciatori le rapiscono i piccoli. “È una celebrazione della crudeltà ingegnosa degli uomini – conclude Sofri – i quali devono aver tratto ingegnosità e crudeltà dalla propria stessa esperienza di animali cacciati e ingannati, prima che cacciatori e illusionisti” (p. 212).
- Una curiosità. A questo personaggio, che in tempi lontani si considerava socialista idealista, Antonio Gramsci dedicò uno sferzante articolo uscito sulla rivista di Piero Gobetti “Energie Nove”, dove si leggeva: “Il Giuliano non è un idealista – scriveva – è un positivista all’inglese, con una incipriatura di fraseologia idealistica”; si veda A. Gramsci, Stato e sovranità, “Energie Nove”, nn. 7-8, 1-28 febbraio 1919, ora in Id., L’Ordine Nuovo 1919-1920, Einaudi, Torino 1955 (Opere di Antonio Gramsci, 9), p. 190 (189-92). [↩]
- Il leggendario affondatore della corazzata austriaca Viribus Unitis nel porto di Pola il 1 novembre 1918, medaglia d’oro al valor militare ed esule antifascista. [↩]