a cura di Claudio Zanlorenzi, Maria Luciana Granzotto, Maria Giovanna Lazzarin
Claudio Zanlorenzi ha intervistato Mirco Capo, geometra che ha lavorato per oltre trent’anni anni al Consorzio Dese-Sile durante il seminario “Acque alte a Mestre e dintorni” che si è tenuto martedì 16 novembre 2010. Luciana Granzotto e Giovanna Lazzarin hanno incontrato di nuovo il geometra Capo il 5 gennaio 2011. Il testo che segue è una sintesi delle due interviste.
Il geometra Mirco Capo ha lavorato per trentasei anni al Consorzio Dese-Sile, era responsabile della manutenzione, esercizio e tutela del territorio. Gli chiederei intanto com’era organizzato il Consorzio.
Sono “nato” nel Consorzio Dese Superiore nel 1968, il 2 maggio, ho finito il 30 giugno del 2004, trentasei anni abbondanti. Quando sono entrato il Consorzio aveva sede in via Carducci. Allora c’erano due Consorzi di bonifica: il Dese Superiore, da Mestre fino a Resana, a scolo naturale, e il Dese Sile Inferiore che aveva come limite la laguna di Venezia, a sollevamento meccanico. Nel 1980 la Regione ha riunificato i due Consorzi ed è nato il Dese-Sile.
Quando sono entrato io nel Dese Superiore, il Consorzio era più amministrativo che tecnico. Eravamo ben pochi: un segretario facente funzioni di direttore, un ufficio con cinque dipendenti e quattro guardiani fuori. All’inizio l’unico tecnico del Consorzio era l’ingegner Ceron, uno dei primi ingegneri della bonifica, un “ragazzo del ’99”. Nel ’59 hanno assunto il geometra Scalon che ha cominciato a progettare qualche piccolo lavoro di manutenzione ordinaria. Nel ’66 è arrivato il geometra Vaona che si occupava di cose tecniche e amministrative. C’erano due segretarie che facevano il catasto e l’amministrazione, la signora Roiter e Natalina Gobbo, e quattro guardiani che controllavano i quattro bacini tra un canale e l’altro: Marzenego, Dese, Zero, Serra Vigonzo.
Il Dese Sile Inferiore aveva la stessa struttura e in più disponeva dei macchinisti per la gestione degli impianti idrovori.
Il suo lavoro in cosa consisteva?
Ho iniziato a lavorare al Dese Superiore facendo la meccanizzazione del catasto, che era la cosa più importante del Consorzio, perché forniva i contributi per la sua gestione. Il catasto oggi lo fanno al computer, una volta era fatto a mano con dei libroni grandi un metro per 50 e lì erano descritte tutte le proprietà e i proprietari che ricadevano all’interno del comprensorio. Noi del Dese Superiore siamo stati tra i primi a fare la meccanizzazione del catasto con il centro IBM di Verona. Andavo due volte alla settimana a Verona per imparare e poi al catasto statale per acquisire i dati delle edificazioni e trasferirli. Ma facevo anche il geometra.
Questo mi ha dato l’opportunità di conoscere il territorio, di seguire come ufficio tecnico tutti i lavori che venivano appaltati, dal primo lavoro che hanno fatto fino al 2004, quando sono andato in pensione.
Ho cominciato facendo i rilievi, i “progettini”: una volta non c’erano disponibilità economiche, come adesso, di fare grandi lavori, si facevano piccoli interventi: il fosso del Tarù e altri fossetti. Si interveniva su quella che era la capillarità dei corsi d’acqua, perché prima dell’alluvione del ’66, che ha portato i primi interventi, non c’era disponibilità economica se non per i grandi fiumi.
Nel 1980, quando abbiamo fatto la fusione dei due Consorzi, nel Consorzio Dese Sile Inferiore non c’erano i tecnici, davano tutto in appalto a un professionista esterno, l’ingegner Rinaldo. Così ho assunto il compito di conoscere tutto il territorio della bonifica, che per le sue caratteristiche risultava complicato e delicato. Anche questo mi ha dato un bagaglio tecnico e umano molto importante che son riuscito a passare a chi mi ha sostituito e per me è stata una cosa molto bella.
Dopo la fusione hanno iniziato ad assumere personale e quando sono andato in pensione la struttura era composta da settanta dipendenti.
Come sono cambiati i fiumi in questi 36 anni? la prima cosa che le salta in mente?
Le rettifiche dei corsi d’acqua.
Dopo l’alluvione del ’66 il territorio era veramente disastrato, perché l’urbanizzazione, le strade, le lottizzazioni hanno portato i grossi centri – Mestre, Zelarino, Favaro, Mogliano, Martellago – a svilupparsi e questo ha portato nei corsi d’acqua flussi che non erano abituati ad avere, sono cominciate le piene, che dopo il ’66 hanno avuto un’evoluzione periodica e abbondante un po’ dappertutto.
Per ovviare a questi inconvenienti cosa hanno pensato i tecnici? Hanno pensato di velocizzare il deflusso delle acque, in modo tale che quando pioveva le acque venissero scaricate il più velocemente possibile in laguna. Già nel ’66 hanno cominciato a rettificare qualcosa, cambiando la morfologia e trasformando i corsi d’acqua in autostrade in modo tale che l’acqua se ne andasse via il più velocemente possibile.
Questo cosa ha portato? I corsi d’acqua – il rio Storto, il Cimetto, la Dosa, il Roviego, la Bazzera – ora vanno tutti a sfociare nel canale scolmatore, che è stato costruito dopo l’alluvione del ’66 per togliere le acque che andavano nel Marzenego e poi nell’Osellino e passavano per il centro di Mestre.
Ma il percorso dei fiumi del comprensorio – lo Zero, il Dese e il Marzenego – è caratterizzato dalla presenza dei mulini che, essendo vincolati dalla sovrintendenza, rappresentano delle strozzature, in quanto non è possibile modificare le strutture esistenti. Dagli anni ’60 c’è stato un programma di soppressione dei molini che è durato circa 10 anni e questo ha comportato un miglior deflusso delle acque. Anche i livelli che una volta servivano da sfioratori per la presenza delle paratoie dei mulini sono stati chiusi quasi tutti.
Da noi per fortuna il Marzenego non si è mai rotto, tranne nel ’66. A Zelarino in 36 anni ho visto tracimazioni, ma non rotte.
Da quanto ho visto e letto è cambiato nel tempo il pensiero sulle rettifiche. Questa politica di velocizzare l’acqua si è rivelata controproducente. Gli ambientalisti e i pescatori hanno denunciato che il fiume viene snaturato diventando un letto di cemento. Anche il Consorzio ha cambiato filosofia d’intervento.
Infatti la rettifica porta a snaturare il corso d’acqua. Dagli anni ’90-95 in poi è entrata nella mentalità dei progettisti di tornare a mettere in prima persona il fiume, farlo ridiventare quello che era una volta. Hanno cominciato ad allargarlo e a trattenere le acque. Con i finanziamenti regionali ed europei si è riusciti ad avere un budget per poter effettuare degli interventi che vadano anche a beneficio del territorio. Le rettifiche sono state ridotte al minimo e si è cercato di non lasciare il terreno a beneficio dell’agricoltura, bensì farlo diventare area di stoccaggio delle acque, zona di laminazione, in modo tale che l’acqua quando arriva ha la possibilità di espandersi. Nei corsi medi tipo il Roviego, specie nella zona del veneziano, sfruttando le cave esistenti, si sono fatte delle aree di espansione dove crescono piante, arbusti, cannucce anche a beneficio degli animali. Hanno messo delle paratoie con soglia fissa in modo tale che l’acqua sedimenta e poi tracima, rallentando la velocità.
Tutto questo è nato perché negli anni ’90 eravamo i peggiori inquinatori della laguna di Venezia; ricordate le famose alghe della laguna? Tutti i nostri fiumi andavano a sfociare nella laguna di Venezia. Da lì è nato un modo diverso di fare sfalcio dei corsi d’acqua: prima le erbe andavano direttamente in laguna, ora vengono tutte fermate a monte, man mano che si taglia si raccolgono, perché contengono fosfati che andavano a far prolificare le alghe in laguna.
Siccome da monte arriva sempre molta acqua inquinata – adesso forse un po’ meno che negli anni ‘70-90 –, le aree golenali di laminazione consentono che l’acqua stando ferma sedimenti, lasci il deposito, così dovrebbe avere un tasso di inquinamento inferiore. La parola tecnica è “fitobiodepurazione”.
Vorrei fare un passo indietro. Quando abbiamo cominciato a fare questa ricerca sugli allagamenti, ci hanno parlato del guardiano dell’acqua, che sembra fosse presente anche a Zelarino.
Il guardiano dell’acqua aveva la funzione di proteggere i corsi d’acqua. Di solito era una persona che risiedeva nel territorio, aveva la bicicletta e per contratto doveva girare una volta al mese tutti i corsi d’acqua, vigilare che i frontisti non danneggiassero gli argini o le sponde dei canali, non piantassero alberi sulle rive, non scavassero la terra, non immettessero i fossati dentro i canali senza autorizzazione, tagliassero l’erba delle sponde. A Zelarino abitava Giuseppe, il papà dell’ingegner Mariano Carraro; l’ho conosciuto perché quando sono entrato nel ’68 lui era andato in pensione l’anno prima. Dopo Carraro è venuto Omero Saccarola che abita a Maerne, vicino al cimitero. Angelo Favaro, di Trebaseleghe, aveva la zona tra il Marzenego e il Dese, De Pieri Rino, di Mogliano, controllava il bacino Dese, e Gattello Ubaldo, che abitava a Zero Branco, seguiva il bacino Zero e di Serra Vigonzo, un piccolo Consorzio autonomo che stato unito al Dese Superiore.
Il guardiano aveva anche un’altra prerogativa importante per il Consorzio: faceva i verbali di contravvenzione. Io ne ho visti pochissimi, perché per redigere un verbale c’era una procedura complicata per pene irrisorie. Però c’era sempre questa spada di Damocle e la gente aveva paura. Mi ricordo che i guardiani erano persone rigide, serie; quando uscivo con loro, i proprietari rivieraschi, che abitavano lungo il corso d’acqua, li rispettavano e loro si facevano rispettare.
Fino agli anni ’60, il Consorzio era molto rispettato dai frontisti, dai contadini, perché sapevano che in qualche modo portava via l’acqua. Poi questa figura ha perso la sua importanza, perché sono cambiate le persone. Le generazioni successive hanno detto: “Perché devo sottostare a certe regole quando sono proprietario fino al primo pelo dell’acqua?”. Bisogna tener presente che quando hanno fatto l’impianto del catasto in tutt’Italia hanno messo come proprietà pubblica una misura media del pelo medio dell’acqua; la sponda e l’argine erano di proprietà privata. Il Consorzio una volta provvedeva a pulire solamente il fondo, dove c’era proprietà demaniale, i proprietari tagliavano l’erba dalla sponda e dall’argine per foraggiare mucche e cavalli.
Quando questo non è stato più necessario si è arrivati all’abbandono della sponda e degli argini. Dagli anni ’70 in poi il Consorzio ha dovuto prima tagliare il fondo e la sponda, poi la sponda per tre metri e oltre. E farsi strada coi gomiti! Mi ricordo che negli anni ’70 abbiamo comperato il primo trattore con il braccio meccanico che tagliava l’erba solo del fondo. Per manutenere un corso d’acqua si impiegava un’infinità di tempo, bisognava entrare in una proprietà, fare il giro, uscire, andare nell’altra proprietà, perché non c’era continuità lungo i corsi d’acqua.
I guardiani dell’acqua sono scomparsi?
Non sono scomparsi, ma hanno perso in parte la loro funzione. anche perché hanno avuto altri compiti. Negli anni ’60 si assumevano degli operai avventizi per lo sfalcio delle erbe sul fondo dei corsi, agricoltori che d’estate ci tenevano a prendere un soldo. Si radunavano in 15-16, mangiavano lungo il corso d’acqua con la pignatina, tiravano le corde sul Marzenego per tagliare il fondo, imbullonavano le falci una con l’altra – il ferro lo chiamavano, in testa avevano due pezzi di ferro e lì legavano due corde –, buttavano le falci in acqua controcorrente e facendo il movimento delle corde tagliavano il fondo. Un lavoro disumano, quando tagliavano certi corsi d’acqua erano anche in sette, otto per corda. Ricordo l’aneddoto che il più giovane che veniva assunto aveva la carriola e la fiasca del vino, per portare da bere alle persone fino a sera.
Questo è andato avanti fino agli anni ’70 e i guardiani facevano da capioperai, avevano la responsabilità della squadra. Il geometra Scalon programmava il lavoro della settimana, loro ogni venerdì mattina venivano in Consorzio, portavano i rapportini e si faceva una riunione.
Negli anni ’80-90 sono stati messi in opera chilometri di tubi, per chiudere i fossati che si immettevano a bocca libera nel corso d’acqua e permettere il passaggio dei mezzi meccanici. Ci sono stati centinaia di conflitti con i proprietari, perché non volevano che il loro fondo fosse collegato a quello del vicino per chissà quali alchimie. Ci son voluti vent’anni, ma solo così si riesce a fare la manutenzione meccanica, sennò avrebbe un costo eccessivo.
Sta dicendo però che alla fine si è perso il controllo del territorio.
Un po’ sì, però il guardiano ha sempre nel suo contratto il compito di fare verbali di contravvenzione. La legge sulla bonifica è del 1904 è ancora valida, ve lo posso garantire. L’unica cosa che non è più valida è la distanza delle piantagioni e delle cose dalle rive, perché una volta andavano tutti a piedi a fare la manutenzione, adesso bisogna utilizzare i mezzi meccanici e la distanza è aumentata.
Ma come avviene il controllo adesso che l’uomo non cammina più?
Il corso d’acqua lo deve vedere ogni volta che va a fare la manutenzione, mediamente questo avviene due volte all’anno. Quindi due volte all’anno controlla il corso d’acqua, da una parte o dall’altra; ha una borsa di chiavi, come un sanpiero, perché deve aprire e chiudere un cancello, una sbarra. Qualche volta qualcosa sfugge, però il territorio lo guarda ancora.
In caso di pioggia cosa succede? Visto che – sia leggenda o verità – quando si va sotto c’è sempre chi dice che non hanno attaccato le pompe o non hanno alzato le chiuse: concretamente come funziona il controllo?
Nei primi anni c’erano i guardiani che facevano il controllo del territorio quando c’era una piena, andavano in giro in bicicletta o in motorino con uno o due operai, per motivi di sicurezza. Non c’era il telefonino e quindi si trovavano in luoghi prefissati per fare il punto della situazione: da Bellinato a Zelarino oppure al Turbine in via Marignana, alla baracca di Trebaseleghe, a Robegano. Io andavo in giro per il comprensorio con la mia macchina, il Consorzio non possedeva neanche macchine a quel tempo. Eravamo in due, io e il geometra Scalon e eravamo responsabili di quattrocento chilometri di canali. Un po’ alla volta è arrivata la radio portatile, poi il telefono.
Nel frattempo cosa ha fatto il Consorzio? Ha fatto un sistema di telecontrollo di tutto il territorio. Ha cominciato a dire: vediamo dove nascono i nostri corsi d’acqua, le derivazioni, le immissioni che ci sono a monte, specie sul Marzenego, meno sullo Zero e sul Dese e ha cominciato a installare dei rilevatori pluviometrici e di portata lungo i corsi d’acqua fino ad arrivare un po’ alla volta in laguna.
Gli impianti idrovori sono più complicati da gestire, una volta c’era una persona fisica per ogni impianto che era in servizio ventiquattr’ore al giorno per trecentosessantacinque giorni all’anno, persi in mezzo ai palù alla fine del mondo. Quando pioveva attaccavano le pompe, se mancava la corrente fermavano le pompe perché non c’erano i gruppi elettrogeni. Il Consorzio del Dese-Sile ha otto impianti idrovori, sette più lo scolmatore che è stato ultimato con le ultime pompe un paio di anni fa. Un po’ alla volta dagli anni ’80 ha cominciato ad automatizzare questi impianti idrovori, a mettervi dei gruppi elettrogeni e dei rilevatori automatici. Prima, quando pioveva, si mandavano 5-6 persone davanti alle griglie con delle lunghe forche per raccogliere l’erba, una “montagna di erba”, perché quando c’è la piena l’acqua corre così velocemente che le erbe che sono relegate sul fondo si staccano e arrivavano tutte alle griglie. Con il telecontrollo si è provveduto a rilevare le portate dei corsi d’acqua a monte e a valle, si sono automatizzate le paratoie del Marzenego a Mestre, dove c’è la tangenziale, di Eger a Noale, dello scolmatore, del Dese a Marocco e quella che in centro a Mestre permette di mantenere una quota costante dell’acqua, come a Noale, per un problema igienico sanitario, perché alcuni impianti fognari scaricano ancora nel Marzenego.
Adesso non c’è più una persona fissa, c’è un sistema di controllo che funziona a cadenza, cioè il TSM o il telefono che dà la comunicazione delle problematiche, il geo-radar, installato quasi sempre negli impianti idrovori, i galleggianti, che sono sempre i più sicuri, e alla fine c’è l’uomo.
Ma c’è del vero quando dicono: “si è allagato perché non hanno attaccato le pompe”?
Da una decina d’anni tutti gli impianti funzionano in automatico, anche per la tranquillità del Consorzio. Però la presenza dell’uomo deve esserci sempre. È stato valorizzato il personale, sono stati organizzati corsi di informatica, per poter utilizzare le apparecchiature. Nei periodi di piena vengono collocate una o due persone a controllo di ogni impianto idrovoro.
Dov’è il problema? La miriade di paratoie ad uso irriguo che negli ultimi dieci anni sono state inserite nei corsi d’acqua, comprese quelle per la laminazione. Quindi ci vuole un certo tempo tecnico per poterci arrivare. Noi abbiamo quattro persone che dotate di furgoncino provvedono a sollevare tutte le paratoie che non sono collegate all’energia elettrica. Avevo delle paratoie che erano distanti da tutto il mondo.
Sono rimasto sorpreso quando ho saputo che i fiumi di risorgiva, se fossero alimentati solo dalle risorgive, si seccherebbero. L’acqua che vediamo scorrere, non è l’acqua del Dese e del Marzenego: c’è un sistema di equilibrio con acqua che arriva da altri posti.
La derivazione più importante avviene dal fiume Piave, in località Pederobba.
Una volta dalle risorgive di Castelminio e Resana, attraverso fossi e fossetti, l’acqua arrivava nei fiumi Zero, Dese, Marzenego. A Trebaseleghe, Piombino Dese, Resana e Scorzé le abitazioni non erano allacciate agli acquedotti comunali, perché attingevano l’acqua dalle fontane o dai pozzi artesiani in quanto l’acqua si trovava a pochi metri dal sottosuolo.
Poi cos’è successo? Sono sorti la San Benedetto e il Consorzio acquedotto del Mirese, che hanno cominciato a prelevare acqua dal sottosuolo e ne portano via fin che si vuole. Di conseguenza la falda si è abbassata. I vari fossi, fossetti e fontanazzi hanno cominciato a diminuire la portata. Il Consorzio Brentella di Pederobba, totalmente a uso irriguo – zona Montebelluna, Marostica fino a Castelfranco – prende l’acqua dalla derivazione del Piave a Pederobba. D’estate c’è poca acqua, specie nel mesi di luglio e agosto, perché distribuiscono l’acqua agli agricoltori che la pagano e la trattengono totalmente. Quindi i nostri fiumi sono quasi completamente asciutti. Invece negli altri periodi si riesce ad avere l’acqua.
Nella zona di Mogliano nel 1969-70 hanno realizzato circa 1000 ettari di irrigazione a pioggia che prelevavano l’acqua da tre impianti sullo Zero. Dal 1970 al 1976 non vi furono problemi per l’approvvigionamento. Negli anni successivi si dovettero turnare gli impianti per mancanza d’acqua.
Ci vuole raccontare qualcosa sugli scolmatori?
Lo Scolmatore del fiume Marzenego è stata per me l’opera più importante che ha realizzato il Consorzio: è stato progettato per portare 40 mq/sec. Il Marzenego con i suoi due rami, il ramo Beccheria e il ramo Campana, entra nel cuore di Mestre e poi si riunisce in via Colombo e prende il nome di canale Osellino. Lo Scolmatore ne ha preso tutti gli affluenti che c’erano a monte: rio Cimetto, Dosa, Roviego, Rio Storto, il fosso del Terraglio, Bazzera, li ha intercettati e li ha portati a scaricare direttamente in laguna. Sono 40 mq/sec. tolti dal Marzenego di Mestre, che può continuare a passare tranquillamente per centro città, senza più nessun problema, portandosi appresso un unico affluente, il Draganziolo, che incrocia a Robegano di Salzano.
Quest’opera è riuscita a salvare Mestre e le zone limitrofe (Zelarino, Favaro, Tessera, Chirignago) dal rischio idraulico delle acque di monte.
Il Consorzio Dese Sile Inferiore ha iniziato a costruire lo Scolmatore nel 1972-73 e i lavori sono proseguiti fino agli anni ’80. Il Consorzio Dese Superiore ha proceduto all’allacciamento dei canali di monte dal 1975 al 1980, collegando tutti e sei i canali e mettendo in funzione il sistema Scolmatore a cui però mancava l’impianto idrovoro di sollevamento. Io ho collaborato con la direzione dei lavori per sei anni.
Perché lo scolmatore è stato fatto in cemento quando, ad esempio, a Padova, che ha avuto grossi problemi, c’è lo scaricatore, che è molto grande ma è fatto in terra?
Il piano generale di bonifica aveva l’indicazione di progettare lo Scolmatore in terra, ma si doveva costruire un canale talmente grande e profondo che avrebbe stravolto l’ambiente. Inoltre si sarebbero dovute costruire delle arginature (a quota 13,00), un metro oltre la quota registrata con l’alluvione del 1966 (1,98 sul medio mare). Così hanno progettato il canale in calcestruzzo, in modo da restringere la sezione del corso d’acqua. Questo ha permesso di progettare la quota del fondo più bassa, creando una vasca di contenimento e installando alla foce in laguna un impianto idrovoro di sollevamento delle acque provenienti da monte.
All’inizio lo Scolmatore era stato costruito senza impianto idrovoro, perché a quei tempi non c’erano i fondi necessari, per cui è stato necessario arginarlo, per permettere l’allacciamento di tutti i corsi d’acqua di monte. Poi pian piano hanno costruito l’impianto idrovoro a Tessera; hanno iniziato a installare le pompe, prima una da 2500 l/sec., poi altre due da 5000 litri e un gruppo elettrogeno di emergenza. Nel 2008-9 la Regione ha finanziato il completamento con le ultime tre pompe da 5000 litri al sec. ed installando un ulteriore gruppo elettrogeno di emergenza. Sono state sostituite le paratoie di interclusione danneggiate dalla salsedine con nuove paratoie in acciaio che consentono l’interclusione alle maree del canale Scolmatore.
Però non tutti sono entusiasti di quest’opera.
Lo Scolmatore è stata un’incisione notevole dal punto di vista ambientale ed ecologico, però quando nel 1966 il centro di Mestre e la sua piazza sono stati sommersi da più mezzo metro d’acqua non c’erano altre alternative!
Qual è il problema dello Scolmatore? Che è stato costruito a una quota di fondo troppo bassa, circa 3 metri sotto il pelo medio dell’acqua della laguna.
Si capisce che dalla sua costruzione fino agli anni ’90 dentro allo scolmatore si è creato l’interramento. Non essendoci velocità, si crea la sedimentazione; quando l’acqua va fuori normalmente, non c’è nessun problema, ma quando la marea raggiunge +1 sul medio mare, vengono abbassate le paratoie e vengono messe in funzione le pompe di sollevamento.
Ma con l’allagamento del settembre 2007 lo Scolmatore non c’entra niente. Dopo quell’evento, quando c’è allerta meteo, vengono chiuse le paratoie e si prosciuga il più possibile lo Scolmatore con le pompe in modo tale che la piena di monte venga in parte invasata per circa 10 km nel canale evitando problemi di rigurgito dei corsi d’acqua di monte. Il canale Scolmatore diventa così anche vasca di contenimento.
Ma allora perché Mestre va sott’acqua?
Il motivo per cui Mestre va sott’acqua non è da attribuirsi al Consorzio Dese-Sile, ma al Comune stesso di Venezia, che ha permesso la chiusura e il tombinamento dei fossati, togliendo così invaso all’acqua. Mestre è una delle poche città che ha una fognatura di tipo misto e quindi quando piove le condutture non riescono a smaltire l’acqua, si sollevano i chiusini, la fognatura fuoriesce allagando case e scantinati.
Il Comune di Venezia ha provveduto a potenziare gli impianti fognari di sollevamento installando pompe sempre più potenti, mettendo però in crisi il sistema idraulico di valle che non riesce ad assorbire tutta l’acqua sollevata.
Ci saranno problemi anche nei corsi d’acqua del Consorzio, ma il problema principe è il tombinamento dei fossati che c’erano in campagna. Mi ricordo che in campagna una volta c’erano fossi larghi 4-5 metri, profondi un metro, un metro e mezzo, e quando pioveva l’acqua andava a finire là dentro. Adesso hanno chiuso tutto, fanno le scoline larghe un metro e profonde 40 e di lì deve passare tutto quanto. Succede poi che gli agricoltori seminino anche dentro le scoline, se fosse possibile, perché seminano anche sulle strade dove dobbiamo passare noi, creando problemi di deflusso. Una volta c’erano sette-otto fossi, che gli agricoltori curavano in inverno, adesso non c’è più niente.
Ma il Consorzio non può dire nulla sul tombinamento dei fossi?
Il Consorzio non poteva dire nulla prima, anche i guardiani non potevano dire nulla sui corsi d’acqua privati, l’unico che poteva intervenire era il Comune. Il Consorzio sulla proprietà privata o comunale non aveva competenza, dava solamente dei pareri tecnici se uno doveva tombinare un fosso in prossimità dei corsi d’acqua, per capire quali caratteristiche doveva avere. C’erano dei bravi proprietari che chiedevano al Comune l’autorizzazione a tombinare il fossato; altri invece li tombinavano dalla mattina alla sera, con manufatti quasi sempre di dimensioni insufficienti.
La Regione, con la legge 12 dell’8 maggio 2009, ha dato responsabilità al Consorzio di emettere anche il parere tecnico sui piani regolatori comunali e sui manufatti da costruire nei fossi privati.
Nel 2003 il Consorzio ha iniziato a sensibilizzare i Comuni all’applicazione delle nuove norme regionali e a predisporre i piani delle acque: l’incarico veniva affidato al Consorzio che provvedeva con i pochi tecnici e guardiani a ispezionare i territori comunali metro per metro, strada per strada, fosso per fosso. I dati raccolti venivano trasferiti su cartografie, indicando le varie competenze dei fossati: privati, pubblici, stradali, comunali, consortili, provinciali, ferroviari. Ha dato un nome a tutti. Alla consegna al comune sono state date le disposizioni generali sul loro utilizzo.
Il Comune cosa dovrebbe fare? Quando un privato va a chiedere di costruire, che so, un pontesel, ora è in grado di attribuirne la competenza (al Comune o al Consorzio). Forse adesso le cose andranno meglio, ma il pregresso non si salverà più e non c’è neanche più storia. Nei Comuni c’erano dei tecnici che solo loro sapevano dove erano i tombinamenti, ma non c’era una cartografia che li indicasse e Mestre, Zelarino, Favaro, Gazzera, Chirignago sono sorte così. Mi ricordo, quando ero piccolo, a Favaro si faceva una strada, un lotto venti per venti, una casa, un lotto venti per venti, una casa, la strada in mezzo e avanti; e i fossi no c’erano più, perché una volta Favaro era tutta campi, adesso ci sono solo case e quindi quando salta il sistema salta tutto.
alessandro voltolina dice
In margine a questa bella intervista al geom. Capo, permettetemi un piccolo ricordo di quello che si faceva nelle nostre scuole negli anni settanta e ottanta anche su temi ricchissimi come quello delle bonifiche e delle acque e sulle persone che ci vivevano vicino.
Leggo (da “Una sacheta de saco co’ un fioreto”, ed. Cluva, Venezia 1980 a cura di G. Cuffiani, G. Lazzarin, G. Mulatero) una intervista a P. Capiotto fatta nel 1978 da alunni e insegnanti di una seconda e una terza media di Jesolo Lido.
“senta e a scuola nel Novecento…”
“niente scola, niente… el me primo figlio partiva di qua a piedi non con queste sacoce che i porta adess, ste bustine di cuoio, lu gaveva uno scatolino de patina due penini, sà che se scrivea col canoto, sua mama ghe à fato na sacheta de saco co’ un fioreto, e mi ò preso i zoccoleti e due scarpe, pareva che li adorasse, le se patinava col coso de la pentola che si fa la polenta, no era soldi per la patina, le lustrava tuto contento, e arivava a casa a un boto e mezo a piedi, se sedea, i fagioli, con un libro sempre davanti, l’ho perso, signorina, signora quel che l’è, non era nissun ben alevà come quel fiol là, studiava, fea anca due classe l’ano come rider… mangiava e ‘l nono ghe fasea “Nino, quando che te ga finì te sa che te ga da venir aiutar el nono” “sì nono” mangiava e po’ ‘ndea aiutar el nono; gavevo i pozzi, gaveva trenta capi de bestie e per tirar su sta aqua ti vedea sto putel co’ i sachi grossi cussì, na volta l’altra – me lò dito – me se nega el putel – ghe disevo “sta atento moro, sta atento sà” e lu “no aver paura” e tirava su aqua per tute le bestie.
Confermo quello che ho sempre pensato: brave insegnanti in una scuola che mi pare fosse migliore.
Alessandro