di Davide Zotto
Il nostro amico Davide Zotto ci manda un’altra sua lettura centrata sul tema prima guerra mondiale.
Questa volta vi presento alcune pagine dedicate alla prima guerra mondiale che si trovano nella lunga autobiografia di Vicenzo Rabito, pubblicata nel 2007 da Einaudi sotto il titolo Terra matta. È un libro che ha avuto un discreto successo, e di cui si è parlato molto per la sua originalità. Rabito, nato nel 1899 a Chiaramonte Gulfi (Sicilia), scrisse le vicende della sua vita, dalla nascita fino al 1970, in 1027 pagine dattiloscritte tra il 1968 e il 1975. Rabito morì nel 1981 e nel 1999 il figlio Giovanni propose e quindi consegnò il testo all’Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano, che lo insignì del premio Pieve-Banca Toscana nel 2000.
Il testo originale non va mai a capo e ha una punteggiatura assolutamente casuale: dopo ogni parola c’è un punto e virgola. Dal punto di vista linguistico Rabito usa un lessico proprio, infarcito di termini dialettali, ma anche di parole inventate. Si può parlare di oralità, perché la sua scrittura ricalca il parlato. Per l’edizione a stampa, i curatori – Evelina Santangelo e Luca Ricci – hanno tagliato una parte del dattiloscritto, creato una periodizzazione che ne permettesse la lettura e apportato poche modifiche al lessico, cercando di mantenere la musicalità e l’oralità della scrittura.
Doveva essere un grande affabulatore; così almeno ho pensato leggendo il libro e in particolare questa frase a p. 102: “Perché a me mi piaceva di fare la querra e magare sofrire assai, ma restare vivo, che poi quanto si n’antava concerato racontava queste fatte di querra”.
Ragazzo del ’99, Rabito fece gli ultimi mesi di guerra, arruolato come zappatore, prima nella zona di Asiago e poi sul Piave. Al termine del conflitto non fu congedato, ma rimase in servizio prima nella zona di confine orientale e poi a Firenze e Ancona. Venne congedato solo dopo la marcia su Roma.
Sono due gli episodi che ho scelto di presentarvi.
Il primo avviene dopo pochi giorni che Rabito è arrivato in prima linea, dove viene affiancato a un compagno più anziano, “Ciampietro”, che gli insegna i primi rudimenti della vita in trincea e di come fare per sopravvivere.
Il secondo si ricollega a quanto ho letto nella scheda fatta da Marco Toscano su Niente di nuovo sul fronte occidentale, a proposito del ruolo dei parroci nella propaganda di guerra: il richiamo a un Dio che giustifica la guerra, come poi canterà anche Bob Dylan nel ’64 in With God on our side. Per contrappasso, Rabito racconta in vari punti della bestemmia come forma di consolazione. Oltre che nell’episodio di Monte Fiore, che riporto, ricorre più volte, per esempio a p. 107: “E così, io e Mario, il nostro conforto era bestimiare”. Oppure quando un compagno ferito è convinto di poter passare la licenza di capodanno a casa, ma invece viene rispedito al fronte: “E bestimiava come un zeracino, perché aveva 10 mise che non vedeva la famiglia. E io ci diceva: – Pacienza facciamo, Strano…- e ci comportammo uno con l’altro [consolavamo a vicenda n.d.c.]. E una volta bestimiava io, e una volta bestimiava lui” (p. 60).
1) La prima battaglia
E così, venne il porta ordene, che gli faceva capire – non derettaminte ai soldati, ma l’ordine lo portava al comando di battaglione, che noi lo abiamo saputo lo stesso – che fra 4, 5 ciorne ci doveva essere l’ofenziva per prentere Monte Fiore, e la nostra bricata doveva fare questo sacrifizio.
Così, di Vecenza hanno fatto venire 2 battaglione della compagnia di morte, che questi battaglione di morte erino tutte Ardite, e tutte delinquente, tutte fatte uscire a posetamente della galera propia per queste deficile imprese. E poi, d’ogni battaglione di queste, erino 1.000 soldate di queste soldate delenquente, quinte erino 3 battaglione. E li stessi oficiale erino delinquente. Poi queste, davino l’asalto, quello che dovevino fare l’avevino a fare in 3, 4 ore, e in queste 3 o 4 ore la posezione vero che la conquistavono, e ni partevino 3.000 di questi malantrine soldate vive, ma ne potevino retornare 300, perché totte li mazzavino, perché certo che uno che va nella casa del’altro sempre ci aveno la peccio. E poi che, queste Ardite, dell’austriece erino prese di mira, perché portavino il destentivo della morte. E quanto li prentevino pricioniere, prima ci facevino tante sfrece, che magare ci brucuavino li coglione, e doppo che si passivino tanto piacere, non li prentevino pricioniere, ma li mazavino lo stesso, perché quello che loro facevino lo facevino volontarie, mentre annoi, se ne prentevino pricioniere, non ni ammazavano, ni lasciavino vive.
Così, queste erino il veleno dell’austriece.
Così, quella mattina, hanno venuto queste fanatice soldate, senza portare né zaino e coperte e né niente, neanche manciare, solo una ciacca che di dietro alle spalle c’era una crante tasca, la riempevino di bombe, il pugnale nella bocca e il moschetto con la baionetta incastata e partevino come tante cane arrabiate. E poi, prima che partevino, si bevevino mezzo litro di licuore, e magare se umpriagavino. Manciavino bene, la moseca avevino, una bamdiera italiana portavino, e partievino con tutto il coraggio che avevino.
E quella mattina, verso le ore 5, hanno dato la salto alla fortezza di Monte Fiore all’improviso, butando bombe in quelle trencieie come li diavole, che hanno fatto una carnificina; li artigliare che sparavino, sia li nostre e chelle suoi, che il Monte Fiore era deventato una vampa. E così, alle ore 10, Monte Fiore era un’altra volta italiano.
E compuro che c’era la nebia si vedeva che il monte era rosso. E tanto romore che se senteva di bombe e di cannonate, e poi che li cride e il pianto si senteva di dove era io e il calabrise. E la terra tutta tremava, e io e Ciampietro tremammo come tremava la terra, perché avemmo troppo paura. Amme mi pareva una festa, a quardare quel monte, perché aveva visto tante fuoche alte uficiale [fuochi artificiali]. Ma Ciampietro, che ci aveva stato nelli bataglie, si vedeva che ci stavino scapando li lacrime, perché sapeva che, quanto li Ardite prentevino quel monte, poi tocava annoi antarece e starece per adefenderlo, perché lo vero quaie erano doppo conquistato, Che poi li Ardite – quelli che restavino vive – si n’antavino, e noi dovemmo stare lì, a non ni lo fare levare un’altra volta, perché li austriace facevino la contra afenziva e noi la dovemmo reparare.
Così, venne l’ordene di avanzare anche noi, e antare in quello Monte Fiore pieno di catavore. Povere descraziate, quanto ni morevino! Così, tutta la bricata Ancona antiammo lì per fare la resestenza, che li austriace hanno contra atacato e li nostre comantante credavino: «Avante Savoia!» E noi, tutte con bombe ammano e baionetta incastata e pugnale e bombe, che li Ardite li stapevino fanno noi, che prima di arrevare al monte, caminanto caminanto, di quanto morte e ferite che c’erino, non avemmo dove mettere li piede.
Questa fu la prima battaglia che io ho fatto.
[…]
E poi che li autriace per 2 ciorne non ci l’hanno voluto fenire più di terare cannonate sopra Monte Fiore. E per tre ciorne fuommo abandunate del Padre Eterno, senza rancio e senza dormire, perché li mule che dovevino portare la spesa erino morte pure, e poi che la strada era tuta voltata sotta e sopra con li cannonate. Ed erimo tutte strapate e piene di fanco. E il nostro elimento era la bestemia, tutte l’ore e tutte li momente, d’ognuno con il suo dialetto: che butava besteme alla siciliana, che li botava venite, che le butava lompardo, e che era fiorentino bestemiava fiorentino, ma la bestemia per noie era il vero conforto.
2) Due padreterni, uno in Italia e uno in Austria
Recordo poi che era propia il ciorno di Natale, e propia quella nottata si aveva presentato alle nostre posezione un soldato austrieco che parlava italiano, e forse era di Trieste, e disse che si voleva rentere come pricioniere, e così la sentenella non ci ha sparato. E io lo teneva in consegna.
Propia quella ciornata era di dominica e il prete ci ha portato sotto li albere per farene sentire la messa, come tante domeniche. E così, ci ha venuto il pricioniere pure, alla messa.
Così, quanto il prete aveva fenito di dire la messa, e come tante volte repeteva che il Dio ni doveva dare la crazia di vincere questa sanquinosa querra e scacciare il nostro potente nimico, che come il pricioniere intese quella parola del prete, che «il Dio ni doveva fare la crazia di scacciare il propotente nimico», si ammesso a ridere e senza tremare ha detto: – Qualda che sono tutte li stesse li prete, che la domenica passata il nostro prete ci ha detto, quanto ci hanno portato alla messa, ci ha detto propia li stesse parole, che il Dio ci aveva a fare una crazia, che l’Austria doveva «scacciare il suo potente nemico», che ene l’Italia, e «vincere questa sanquinosa querra»… – E il triestino redeva, e non sappiamo perché redeva e ni pareva che era pazzo, e poi ni ha detto perché rideva e ha detto che forse ci sono 2 Patre Eterne, uno è in Italia, e uno ene in Austria, e non ci capeva niennte, e rideva e fece a redere a tutte, che il prete si aveva compiato li coglione e ni ha detto: – Che ci l’ha portato a questo che va contra la relicione? Portatolo fuore della messa!
Così, io me ne sono antato, perché il prete si aveva innervosito. E poi lo hanno portato al campo di concentramento, ma era uno che diceva la veretà.
Nota. Tratto da Vincenzo Rabito, Terra matta, a cura di Evelina Santangelo e Luca Ricci, Einaudi, Torino 2007 (p. VIII-416), rispettivamente pp. 52-55 e 58; le pagine dedicate alla prima guerra mondiale sono una cinquantina in tutto. (d.z.)