di Enrico Zanette
La tesi di dottorato del nostro amico, socio nonché webmaster Enrico Zanette è da poco diventata un libro: Criminali, martiri, refrattari. Usi pubblici del passato dei comunardi, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2014. Si tratta di uno studio dell’uso che avversari e fautori della Comune di Parigi del 1871, all’indomani della repressione, fecero del genere biografico per denigrare e condannare o al contrario per commemorare ed esaltare come modello rivoluzionario le personalità più in vista della tentata rivoluzione parigina. Zanette prende inoltre in esame le autobiografie che due ex comunardi, Jules Vallès – che già in altre occasioni abbiamo ricordato sul nostro sito – e Louise Michel, pubblicarono a distanza di alcuni anni, e le interpreta come strumenti di comunicazione politica, per la costruzione e la diffusione di due diverse idee di rivoluzionario e di rivoluzione. Su gentile concessione dell’editore, proponiamo ai nostri lettori alcune pagine del libro (con minime modifiche e senza tutte le note).
All’indomani della repressione, circa un centinaio di comunardi acquisirono quello che Juri M. Lotman ha chiamato il diritto alla biografia1. Un diritto alla biografia esercitato, in questo caso, esclusivamente dai vincitori, nella gestione autonoma del significato complessivo delle vite dei vinti. In un’epoca di affermazione dei mezzi di comunicazione, il monopolio esclusivo della costruzione della memoria si presentava come lo strumento più efficace di cancellazione. In effetti, la censura, formalizzata dalle leggi del dicembre 1871 e novembre 1872, che durò per un decennio fino alla legge generale del 1881 sulla libertà di stampa, non impediva di parlare della Comune e dei comunardi, ma di parlarne liberamente, senza esprimere giudizi di chiara condanna. Nel sistema di propaganda messo in piedi all’indomani della repressione, la biografia mirava quindi alla presa di possesso dell’identità dei rivoluzionari dopo la presa brutale sui loro corpi. La biografia non veniva impiegata per comprendere il processo di mobilitazione, o per illustrare la complessità e la fragilità delle esperienze, delle aspirazioni, delle convinzioni, il loro interagire con le circostanze storiche della guerra e delle trasformazioni economiche, bensì per richiudere le vite degli insorti all’interno di alcune traiettorie biografiche che, come sbarre retoriche, ne avrebbero controllato le possibili, scomode, eccedenze. Erano traiettorie che poi sarebbero state disponibili per utilizzi successivi, poiché, come scriveva uno dei biografi, non ci si doveva accontentare di contrastare le idee rivoluzionarie, ma anche coloro che le avevano e le avrebbero diffuse.
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Quando i comunardi cominciarono a riprendere parola, raramente lo fecero parlando di sé. Fin dai primi mesi dopo la Comune, che fossero in esilio, in carcere o deportati, evitarono l’autobiografismo, preferendo la posizione, più defilata, del testimone, quand’anche protagonista, di un evento che stava diventando bagaglio del movimento rivoluzionario internazionale.
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Il silenzio biografico fu rotto fuori dai confini francesi, in Italia, prima sulle colonne del «Gazzettino Rosa» e poi sulla «Plebe», che dedicò lo spazio di una rubrica proseguita per tre anni, con tanto di ritratti in prima pagina.
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Il titolo della rubrica [della «Plebe»], I martiri della Comune, non lasciava dubbi sull’iniziativa editoriale. Centrale era il carattere martirologico, con il tema della morte e delle terribili sofferenze subite dai comunardi. In alcuni casi la morte sembrava essere il momento più significativo della vita dei rivoluzionari, riassumendone globalmente il significato.
Le narrazioni presentavano gli elementi tipici dell’agiografia religiosa: stile encomiastico, tono celebrativo, abbondanza di immagini cruente, abnegazione e sacrificio, centralità dell’ideale, ecc. Per esempio, a proposito della morte di Vermorel si scriveva: «la trovò in parte sulla barricata del Chateau d’Eau, tutta a Versailles, grave però di agonia, di catene, perché il martirio, a partorire i suoi frutti deve essere solenne, e completo»2. Oppure, come nel caso Charles Longuet si assiste a una sorta di illuminazione divina, presagio del martirio: «il suo volto si illuminò stranamente, i suoi occhi brillarono di una luce intensa, misteriosa… Sembrava che un foco ignoto, tremendo gli abbruciasse i visceri. Era un vaticinio? Egli è morto da martire e abbruciato»3.
Nella stessa direzione andava la biografia di Gustave Flourens che si esauriva totalmente nella narrazione dettagliata della sua tragica morte, redatta dall’amico Cipriani testimone oculare: «Mentitore, ripeté il gendarme divenuto verde di bile; e senza aggiungere una sillaba di più, con un colpo di sciabola, dato con la maestria di un carnefice, gli aprì la testa in due. Il sangue scorse abbondantemente; il misero Flourens cadde all’indietro, dibattendosi nelle ultime atroci agonie. Un vile sbirro, salterellando colmo di gioia si avvicinò al martire, e disse: sono io che lo finisco. E gli appuntò un revolver all’orecchio destro; il colpo partì spargendo le cervella al vento, lasciando al suolo uno sfigurato cadavere»4.
L’atmosfera cupa, la predilezione per i toni macabri e le ultime immagini strazianti del cranio spappolato rivelano la presenza di un’estetica oscura con elementi si direbbe oggi splatter, che ricorda l’estetica romantica del movimento rivoluzionario italiano. Un aspetto infatti non isolato, se si pensa che nello stesso periodo «La Plebe» pubblicava la lettera disperata di un giovane repubblicano, spinto al suicidio dalle continue persecuzioni poliziesche: «Mi ucciderò stassera… fra mezz’ora… fra un’ora»5.
In tal modo, attraverso il martirologio, ai criminali spesso inumani delle biografie anti-comunarde, venivano contrapposti i santi martiri della rivoluzione in un tipico ribaltamento di prospettiva proprio della finalità apologetica.
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Interessante notare come vi fosse stata sovrapposizione tra gli elementi delegittimanti delle biografie ostili alla Comune e quelli invece legittimanti su cui si reggevano le biografie più martirologiche della «Plebe» e l’autobiografia di Louise Michel. In Michel in particolare, l’argomento della violenza che era stato enfatizzato dalle biografie ostili, veniva riproposto in senso positivo; la questione della devianza in quanto donna rivoluzionaria – nonostante il tentativo di affermare la propria normalità – veniva confermata nel richiamo continuo alla sua eccezionalità di genere; lo spirito ribelle che non si limitava allo stile di vita, ma sfociava nell’illegalità comune, come nell’episodio del furto delle caramelle o nell’apologia del brigante. Michel appariva paradossalmente vittima degli stereotipi anti-comunardi che avevano costruito la sua immagine pubblica e quella degli altri compagni e si era quasi limitata a certificare quel mito negativo attraverso la propria narrazione autobiografica. L’operazione è singolare perché mentre faceva l’apologia di se stessa, contribuiva a confermare gli elementi sui cui si era fondata la sua condanna.
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Altro era invece il caso dell’autobiografia di Vallès e delle biografie più realistiche della «Plebe». Queste si poggiavano su diversi elementi, favorendo un discorso legittimante che uscisse da una logica puramente oppositiva tra criminali e martiri. Vallès, in particolare, aveva preso distanza dagli aspetti religiosi della mobilitazione e dalla questione della violenza politica. Riconosceva in questo alle biografie anti-comunarde una parte di verità da cui però intendeva smarcarsi. Un aspetto non dissimile da quello sostenuto da Mazzini nella polemica con i comunardi e i simpatizzanti della Comune, quando aveva messo in guardia dal fascino della violenza e della ribellione fine a se stessa: «Oggi, v’è troppo del ribelle, troppo poco dell’apostolo in noi. E la bandiera dell’insurrezione ci affascina dovunque sorga e per qualunque cagione… Ogni audace affermazione trova un’eco nell’anima dei nostri giovani, non perché, scrutata maturamente, enunzi una parte ignota finora di vero, ma perché audace»6. In Vallès, però, l’accento non poteva esser messo sull’assenza dell’‘apostolato’, che suonava troppo religioso e paternalistico, bensì sulla mancata socializzazione della sofferenza individuale. Per Vallès la mobilitazione politica non trovava origine né nell’interesse egoistico, né nel sacrificio altruistico dell’‘apostolo’. Negava il discorso della frustrazione egoistica su cui si erano fondate le biografie anti-comunarde e che era servito a Richepin per deresponsabilizzare i bohémien; e insieme quello del sacrificio altruistico del fedele, che faceva dell’attivismo rivoluzionario del ‘privilegiato’ una scelta spesso paternalistica. Affermava invece un discorso vittimizzante del ‘privilegiato’ attraverso l’immissione di sé e dei refrattari nell’ampio proletariato della fédération des douleurs, che si trasformava, sul piano della narrazione biografica, in un rifiuto delle miserie dello stile di vita borghese tale da portare al declassamento e al sostegno di spontanei movimenti di base. La ribellione del refrattario nasceva sì dal privato, ma non si risolveva nel privato di un conflitto famigliare o egoistico, bensì nel pubblico, nell’unione alle sofferenze degli altri, dove poteva trovare la sua realizzazione. In una fase in cui il movimento rivoluzionario era ancora molto frammentato e in assenza di partiti di massa organizzati, l’autobiografia di Vallès esaltava la rottura individuale rispetto all’adesione incondizionata a una dottrina o a un partito. Un attivismo che prevedeva un’avanguardia rivoluzionaria di fuoriusciti, di ribelli, che avrebbero portato alla riproduzione di sempre più numerosi ribelli, fino a generalizzare la rottura con la società e i suoi meccanismi di sfruttamento ed esclusione.
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L’espansione del socialismo nel corso degli anni Ottanta si caratterizzò per una svolta delle forme organizzative, che andavano a conformarsi – sia pure con le dovute differenze – al modello della socialdemocrazia tedesca, con lo sviluppo di partiti politici di massa e l’adesione sempre meno timida al parlamentarismo. Un cambiamento radicale che, in prospettiva, esigeva dai protagonisti della lotta politica l’abbandono della centralità del vissuto individuale, dell’antiautoritarismo e dell’autonomia organizzativa, privilegiando all’opposto la centralità dell’ideologia e della disciplina di partito. Il modello biografico privilegiato diveniva sempre di più quello del mediatore, figura cardine del complesso funzionamento tra base e vertice dei partiti politici di massa.
La biografia del ribelle che si affermò fu pertanto quella formalizzata nelle narrazioni della propaganda anti-comunarda, sia che fosse utilizzata per condannare – dai reazionari quanto dai rivoluzionari più parlamentaristi – sia specularmente per elogiare – da Michel e un certo anarchismo nichilista. La proposta alternativa di Vallès rimase invece sullo sfondo di una storia che stava cambiando.
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Tratto da Enrico Zanette, Criminali, martiri, refrattari. Usi pubblici del passato dei comunardi, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2014, pp. 4-5, 28, 36-37, 143-147.
- J. M. Lotman, La semiosfera: l’asimmetria e il dialogo nelle strutture pensanti, Venezia, Marsilio, 1985, p. 181 e sgg. [↩]
- «La Plebe», 23 luglio 1873. [↩]
- Ibidem, 6 luglio 1873. Anche qui il redattore compose la biografia in modo piuttosto fantasioso. Longuet, infatti, non morì nei giorni della Comune e nel 1872 divenne suocero di Marx. [↩]
- Ibidem, 29 giugno 1873. [↩]
- Un’altra vittima, «La Plebe», 18 ottobre 1873. Il giovane era Augusto Franzoi. [↩]
- G. Mazzini, Il Comune di Francia, «La Roma del popolo», 26 aprile 1871. L’articolo comparve anche in estratto sotto il titolo di La Roma del popolo agli operai. La citazione è in N. Rosselli, Mazzini e Bakunin. Dodici anni di movimento operaio in Italia 1860-1872, Torino, Einaudi, 1967 (ed. orig. 1927), p. 248. [↩]