di Guido Lanaro
Il nostro amico Guido Lanaro, tra le altre cose autore del quaderno di sAm numero 10 sulla storia del presidio No Dal Molin, ci manda alcune considerazioni dopo aver letto il quaderno di sAm numero 11, di Cristiano Baldissera, sulle occupazioni del liceo Marco Polo di Venezia dal 1995 al 2001 (per leggere alcuni brani del quaderno 11, cliccare qui).
Sono ore che penso a come iniziare questa recensione. Un po’ perché sono scarsissimo negli incipit, un po’ perché ogni volta che cerco di scegliere un pezzo di libro da cui partire, mi lascio distrarre dai ricordi e pure da un pizzico di nostalgia. Mi sembra di tornare a quei giorni in cui, con foga adolescenziale e un pizzico di ingenuità, ci si convinceva di poter stringere il mondo tra le proprie mani, disfarlo e rimetterlo a posto una volta per tutte. E probabilmente questo è il primo dei meriti di questo Quaderno, e cioè che mette sul piatto un sacco di suggestioni interessanti. Non saprei dire quanto influisca il fatto che sono all’incirca coetaneo dell’autore e dei protagonisti dei racconti, ma preferisco pensare che possa suscitare sensazioni ed emozioni simili in tutti quanti.
Cerco di spiegare meglio. Credo che capiti a tutti, prima o poi nella vita, di riflettere, di solito non senza una certa presunzione, sulle differenze tra la propria generazione e le altre, più vecchie o giovani che siano. E credo, del resto, che ogni generazione e ogni tempo abbiano delle peculiarità uniche. Secondo me il libro di Cristiano Baldissera esplora una delle particolarità della mia, ovvero quella di essere sospesa tra due ere molto diverse tra loro. Da una parte il ’68, gli anni settanta, i sogni, gli idealismi, le rivoluzioni e le conseguenti degenerazioni; dall’altro gli anni duemila, la vacuità, l’individualismo, la rassegnazione, lo spaesamento.
Al di là di aule occupate e notti passate all’insegna dei vizi e dei piaceri più terreni, tra le righe del quaderno traspaiono la complessità di vivere a cavallo di due mondi così diversi, e la difficoltà di portare sulle spalle il peso quasi insostenibile di retaggi passati, di ideologie polverose e ingombranti, di genitori liberali ma supponenti, mentre davanti agli occhi si stagliano orizzonti imperscrutabili al punto che forse non vale nemmeno la pena provare ad aguzzare la vista.
In modo più prosaico, sentirsi a metà di una frattura per cui da una parte c’è chi ti ricorda assiduamente che “mi alla to età saltavo i fossi par lungo”, mentre dall’altra c’è che ti risponde “bravo mona, chissà quante volte che te ghe si cascà drento”. Non mi invento nulla di nuovo, perché la stessa cosa la dice Silvia, in modo molto più efficace e sintetico di quanto abbia fatto io, in una nota a pagina 42:
“Io non lo so, nel senso che non vorrei che noi che cominciamo ad essere, tra virgolette, grandi, cominciassimo a fare l’errore che hanno fatto gli, tra virgolette, adulti, quando noi eravamo adolescenti, di dire ‘generazione senza ideali’, non so, tutte queste cose qui”.
Mi viene da sorridere, ma se non ammettessi che la penso un po’ così, non sarei sincero.
Del resto non posso fare a meno di notare che le scuole negli ultimi dieci anni sono cambiate radicalmente (in peggio), né posso fare a meno di credere che le molte svolte sfacciatamente securitarie e panoptiche non sarebbero state nemmeno lontanamente immaginabili nel periodo preso in esame dalla ricerca di Cristiano.
Al giorno d’oggi a scuola mancano solo i tornelli come allo stadio, i genitori vengono avvisati via sms dell’assenza dei loro figli pochi minuti dopo l’appello, i presidi collaborano con gli agenti della questura per segnalare gli studenti che partecipano alle manifestazioni, e le occupazioni non appartengono più nemmeno all’immaginario dei più giovani.
Il coltello dalla parte del manico ce l’hanno sempre avuto gli insegnanti (o forse dovrei dire gli adulti) ma qualche anno fa capitava che gli studenti (i giovani?) ricordassero loro che, sì, è un bel vantaggio, ma non è certo una garanzia di vittoria. Ogni tanto, anche se solo per qualche giorno, ci si prendeva la libertà di respirare a pieni polmoni quella conflittualità tra ruoli e tra generazioni che per il resto dell’anno rimaneva un po’ sotto traccia. Testa alta e petto in fuori, si godeva una volta tanto del senso di rivalsa; e al tempo stesso, la pancia gorgogliava per la tensione della responsabilità di sentirsi tutto a un tratto adulti. Ah, l’ebbrezza della libertà…
E questa è un’altra cosa che il lavoro di Cristiano ha il merito di mettere in evidenza in modo molto chiaro. Al di là della politica e dei problemi contingenti, le lotte scolastiche erano anche e soprattutto un grande momento di crescita personale, in cui ci si trovava temporaneamente esposti alla propria potenza ed al tempo stesso alla propria inadeguatezza. Chiamiamola, se vogliamo, lezione di vita? Non che la politica sia del tutto ininfluente, sia chiaro. Probabilmente a relegare i racconti di Cristiano e dei suoi compagni nel reame del passato remoto non è stato solo lo scorrere del tempo, ma anche la titanica pietra tombale che il G8 di Genova ha scaraventato sopra ai sogni e alle aspirazioni di chi in quegli anni era convinto che un altro mondo fosse possibile (per citare uno degli slogan più in voga a quei tempi). O forse, invece, eravamo noi giovani di allora che avevamo in dotazione una grammatica ormai desueta, fuori tempo massimo.
Non credo che sia un caso se su ciò che accadde attorno all’inizio del nuovo millennio si fa ancora molta fatica ad abbozzare analisi e ragionamenti, al di fuori dell’ambito più strettamente politichese.
Penso, dunque, che la ricerca di Cristiano sia un ottimo modo per tentare di ripensare a quegli anni a partire da ciò che si faceva, da ciò che si pensava, da ciò che si sognava. Racconti in cui vibrano ancora le emozioni di chi li ha vissuti in prima persona, ma che al tempo stesso riescono a rimanere lucidi e onesti ed a recidere il soffocante cordone ombelicale che li lega al tempo che li ha partoriti. Nella speranza che servano sia a capire meglio il passato, sia ad imparare di nuovo a sperare nel futuro.
Cristiano dice
Caro Guido ti ringrazio per aver letto il mio saggio e per aver espresso queste interessanti osservazioni, nate dall’aver trovato l’occasione di riaprire quella scatola polverosa di ricordi scolastici, la cui riscoperta è poi uno degli obiettivi del mio lavoro. Condivido con te l’idea di una generazione, la nostra, sospesa. Sospesa tra due mondi e alla continua ricerca di un luogo adeguato dove collocarsi, di un’azione efficace e nuova con la quale esprimersi. Quel particolare disagio suscitato dall’avvertire molti valori come contraddittori che ha reso questa generazione al contempo entusiasta e autoironica, forse non è stato più presente nelle generazioni successive sostituito da un altro disagio, o meglio una forma di rassegnazione, che d’altra parte oggi è palesemente diffusa anche nel resto della società. Quella ribellione, sebbene spesso acritica, caratterizzata dai tratti della superficialità e dell’ingenuità, era comunque espressione di un sentimento di volontà di partecipazione politica, che in qualche modo era dato per scontato ai nostri tempi. La cosa che mi preoccupa di più infatti è la mancanza nel percorso scolastico attuale di una qualche forma di educazione al pensiero e ai metodi della politica e di responsabilizzazione dei futuri cittadini che permetta loro una crescita adeguata della personalità in quella fase delicata che è l’adolescenza. Nel passaggio cioè dalla fanciullezza all’età adulta. Nonostante l’evidente follia e la donchisciottesca ideologia che soggiacevano al fenomeno delle occupazioni e tutta l’organizzazione che vi stava dietro, esso costituiva comunque un momento di confronto, esprimeva un desiderio di educazione sociale, civica, in una parola, politica.
Mancano oggi a mio avviso quei passaggi intermedi che permettano l’integrazione del giovane cittadino nel tessuto sociale.
Come credo lo sia tu, Guido, io non mi sento tuttavia pessimista verso il futuro, ma, come dici nelle frasi conclusive del tuo intervento, ritengo fondamentale rivedere i fatti del recente passato per comprendere come sarà possibile migliorare la realtà.