di Elisabetta De Poli, a cura di Giannarosa Vivian
Elisabetta “Lisetta” De Poli racconta alla nipote Giannarosa l’alluvione del 4 novembre 1966. All’epoca abitava a Pellestrina, sestiere Zennari, località Capitello. La redazione ribadisce l’invito già lanciato dal Centro di documentazione sulla città contemporanea sin dal 2007: mandateci ricordi, testimonianze, immagini e riflessioni relative agli eventi del 1966 e in generale a alluvioni e "acque alte".
1. Sono passati tanti anni dal 4 novembre del 1966 ma ricordo come fosse ieri, sono cose che non si dimenticano. Il giorno prima era sempre piovuto de longo. Era venuta su l’acqua, ma dopo si era abbassata. Non sembrava peggio del solito, era un’acqua alta come sempre. Per noi era una cosa talmente normale che ormai non ci si spaventava più perché, si sa, l’acqua sei ore cresce e sei ore la cala. Solo che poi è piovuto anche per tutta la notte. Quando ci siamo alzati (la mattina del 4 novembre) nel cortile di casa vicino alla càneva vediamo che c’è una grande pozzanghera. Perfino mio suocero Ménego che aveva sempre abitato in quella casa, ci era nato e era il più vecchio di tutti noi, diceva che una pozzanghera così non l’aveva mai vista in vita sua. Però non si impressiona, e dice “Sarà perché stanotte è piovuto tantissimo… ”.
Intanto si avvicinava l’orario che l’acqua sarebbe venuta su. Gli uomini, mio suocero e mio marito, hanno messo un sigillo, una paratìa, sulla porta d’entrata per impedire che l’acqua entrasse, ma dal pavimento venivano su gli zampilli.
La nostra famiglia era composta da me, che mi chiamo Lisetta, mio marito Angelo, mio figlio Dario, e i miei suoceri Linda e Ménego. Ci siamo messi tutti all’opera per tirare su l’acqua con dei recipienti grandi e buttarla fuori, sempre con la speranza di tenere duro finché l’acqua non scendeva. Mio suocero diceva “Vedrete che alle 11 l’acqua cala”. Noi eravamo anche stanchi, si faticava tanto senza avere nessun risultato perché intanto l’acqua continuava a salire di livello. L’acqua è arrivata anche nella camera da letto del piano terra, che era una stanza che stava più in alto rispetto alla cucina, bisognava fare un bel gradino alto per entrarci. Questo no che non era normale. E Menégo ancora a dire “Vedrete che calerà a mezzogiorno”. A un certo punto dice “Vi conviene andare al piano di sopra, su in camera”.
2. Quel giorno dovevamo mangiare baccalà in umido con la polenta. Per noi era un giorno di festa. Era una giornata che la ricordavamo ogni anno perché Ménego aveva fatto 4 anni di guerra in prima linea, aveva combattuto sul Carso, durante la prima guerra mondiale. E si era salvato la vita. Allora ogni anno prima di tutto si andava alla cerimonia del 4 novembre, e poi in casa si ricordava, si parlava.
Io, mia suocera Linda e mio figlio siamo saliti in camera. Il vento incalzava sempre di più, ma noi non prendevamo paura, eravamo abituati. Quando a Pellestrina c’era acqua alta, a volte veniva su calma calma, altre volte era agitata, mossa dal vento. Pensavamo che tutto sommato fosse normale. Verso l’una anche gli uomini sono venuti su in camera, ma l’acqua non era ancora calata.
La nostra casa si trovava nel punto dove si era aperta una rotta nei murazzi. Stavamo affacciati alla finestra e man mano si vedeva un flusso di acqua che passava sotto i nostri balconi e andava in laguna. Scavando il terreno si è fatta largo, era come una specie di torrente. Ma noi non ci rendevamo conto, credevamo che arrivasse dai canaletti che c’erano tra le vigne degli orti dietro casa. Così, riunita tutta la famiglia di sopra, abbiamo mangiato il baccalà con la polenta, seduti sopra il letto con una coperta sulle gambe perché non c’era il riscaldamento e avevamo anche un po’ di freddo.
Dalla finestra vedevamo le onde più in alto dei murazzi, e in mezzo alle onde sembrava che volassero delle scatole bianche, che invece giorni dopo abbiamo capito che quelle scatole erano i blocchi di pietra d’Istria. Sopra il montón c’è come un muretto di pietra, e quei blocchi rotolavano giù insieme con le onde.
Nel silenzio io sentivo la casa che si muoveva, e tacevo. Tempo dopo, quando tutto è passato, ho detto che io sentivo la casa muoversi… e Angelin diceva “anca mi sentivo, ma stavo sitto”…, e anche il Ménego diceva “anca mi, ma tasevo”. Per non farci prendere dal panico, tutti sentivamo la casa muoversi ma nessuno lo diceva agli altri.
3. Alle tre del pomeriggio si sente una voce che grida “Cristiani, venite fuori dalle case che ci sono i vapori che vi portano a Venezia in salvo”. Andare fuori, è una parola! L’acqua era alta, bisognava che qualcuno venisse a prenderci. Allora mio suocero dice “Voi mettetevi al riparo, noi stiamo qui in casa”.
Come si fa? Un giovanotto, gentilmente, ci ha portato a cavallotto in spalla fin dentro a una barchetta. Con la barchetta dovevamo attraversare tutta la laguna, e montare su un vapore grande…, non so… sembrava una nave da guerra. Montare su! È una parola! Le nuvole sembrava di toccarle con le mani. L’acqua della laguna in burrasca la vedevi tutta intorno a rotoloni, e noi in quella barchetta… e tanta gente dentro spaventata. Bisognava far presto perché poi con quella barchetta dovevano tornare a riva a prender su altra gente.
Arrivati al vapore, dovevamo montarci dentro salendo per una scala di corda a pioli. Io ero giovane, ero una ragazzina al confronto degli altri, ma avevo tanta paura. Il vento spostava di qua e di là la scala, che tra l’altro era verticale, non era come una scala normale in pendenza. Tra il vento, ‘ste sottane che si alzavano… insomma io me la vedevo brutta. La preoccupazione maggiore era per mio figlio che aveva 13 anni, che non gli succedesse qualcosa di male. Siamo saliti insieme con tanta altra gente. Ci si passava parola, eravamo tutti del paese. A bordo saremo stati in centinaia. Davanti alla Rosa c’erano altri vapori, erano quelli soliti che facevano il servizio di trasporto passeggeri in laguna, per esempio il Rialto, il Torcello…
Quando siamo partiti da Pellestrina, che le nuvole si potevano toccare con le mani, quasi all’improvviso è cambiato il vento. Si è calmato lo scirocco, ed è venuto avanti un altro vento, dal nord (l’ostro?). E così, quando è cambiato il vento, è calata anche l’acqua. Il mattino dopo si sono viste le rotture, le brecce sui murazzi … Il dottor Toni, dopo, diceva sempre “Era come se Pellestrina fosse venuta fuori da un disastro della guerra”.
4. Intanto si era fatto buio. Il vapore si muove da Pellestrina e arriva a Venezia che è già sera. Entriamo in arsenale. Ci hanno fatto scendere, stessa paura per venire giù, col buio, dalla solita scala di corda. I soldati facevano luce con le lampade. C’era anche tanta gente anziana. Una parte di gente è stata messa in ospedale, noi invece siamo saliti su delle lance belle grandi e ci hanno portati al Lido, alla caserma Pepe. Saranno state le sette di sera. I militari erano pieni di premure per noi. Dalla laguna per andare dentro la caserma c’era un tratto di strada tutto scuro, non c’erano lampioni. Allora ogni tanto c’era un militare con la lampada in mano per fare chiaro lungo la strada.
In caserma hanno preparato la cena, non mi ricordo cosa c’era da mangiare ma ricordo che erano pieni di premure. Noi da casa non ci eravamo portati niente di ricambio. Scarpe e calze tutte bagnate, una sciarpa al collo e basta. In tasca avevo un piccolo portamonete, conteneva pochissimi soldi, circa mille lire.
Dopo cena siamo andati in camerata, i letti erano doppi, a castello. Mia suocera ha dormito in quello in basso, e io in alto. Non hanno lasciato che Dario dormisse in camerata con noi, perché anche se era giovane era alto di statura. È venuto un sergente a dividere le donne dagli uomini. Era vestito in grigio verde, di traverso sul petto aveva una fascia azzurra. Sarà stato un sergente. “Il ragazzo deve andare a dormire con gli uomini”, ha detto. “Ma guardi che è giovane – ho detto io – lasciatelo con noi”. Perché a me non piaceva che andasse a dormire con quegli uomini vecchi, non mi pareva una cosa che andasse bene. Però il sergente ha insistito e Dario è andato con lui.
5. In caserma con noi c’era tanta gente di famiglie di pescatori del paese. In buona parte erano vecchie, vecchi, e bambini. Il giorno dopo (siamo il 5 novembre), i pescatori sono venuti a prendere i loro famigliari con le barche a motore.
A quel tempo non c’erano i telefonini, e in paese mancava la corrente elettrica. A Pellestrina non sapevano dove eravamo stati portati, e noi non potevamo telefonare. Se dovevi uscire dalla caserma per fare una spesa (per esempio per i bambini piccoli avevano bisogno di pannolini) bisognava passare prima per la portineria, dire il proprio nome e far sapere che si usciva.
Noi avevamo saputo che c’era una motonave che faceva le fermate di Malamocco e degli Alberoni e poi si sarebbe fermata anche a Pellestrina. Io e mia suocera Linda decidiamo che all’indomani (cioè il giorno 6), prendiamo su e torniamo a casa. Ai pescatori abbiamo detto “Diséghe a quei che del Capitello che noialtri sémo alla caserma Pepe del Lido”. Ma verso le cinque di sera capita in caserma mio fratello Giovanni. Ci aveva cercato dappertutto, negli ospedali, e per ultimo era venuto in caserma Pepe. Aveva fatto difficoltà a arrivare, non c’erano poi tanti mezzi da Venezia fino al Lido. Lui voleva a tutti i costi firmare e portarci via da lì, voleva portarci a casa sua. Lui insisteva, a noi invece sembrava più facile tornare a Pellestrina partendo dal Lido, ci sembrava di essere più vicini. Alla fine siamo andati a casa di Giovanni, a Castello, e abbiamo dormito da lui, ma solo una notte.
A mio suocero Ménego, poveretto, avevano detto che eravamo in caserma al Lido, e là è venuto a prenderci. Si era portato sul braccio i nostri paltò, perché era novembre, sapeva che avevamo freddo e che non eravamo attrezzati né con scarpe né niente. E là in portineria gli hanno detto che il giorno prima eravamo andati via.
6. Il giorno 7 novembre siamo tornati a casa al Capitello, non ricordo con quale mezzo di trasporto. Di sicuro non in corriera, probabilmente sarà stato in vapore. La casa era piena di fango, non c’era acqua per pulire, l’acquedotto non funzionava. L’acqua del canale era bassa, non si poteva prendere, perché dopo ha fatto bassa marea. E poi dicono che l’acqua salata non si asciuga mai.
Con l’alluvione, l’acqua salmastra ha corroso tutto, i muri erano pieni di nafta, tutto era da buttare via. Un brutto odore da tanfo, un odore sgradevole di marcio, di fogna… abbiamo perso la mobilia. Siamo riusciti a portare di sopra i cassetti di qualche mobile, ma il resto è rimasto sott’acqua.
In paese tutti hanno cercato di rimboccarsi le maniche e cominciare da capo. Solo che per il Ménego, che viveva col lavoro degli orti, non è stata una cosa rimediabile. Tutto si è inzuppato di acqua salsa, i pali delle vigne, le arelle che riparano le piante dal vento…, tutto si è trasformato in detriti…, la forza del vento ha buttato tutto per aria, è stato un disastro. Noi ci siamo detti: meno male che abbiamo salvato la vita, che poteva essere un disastro.
Il nonno Toni, mio papà, è venuto a Pellestrina, e ha detto “Non potete stare qua, venite a casa mia a Mestre”. Allora ci siamo divisi così: io Angelin e Dario ci siamo trasferiti in villaggio San Marco. Invece i suoceri da una loro figlia a Marghera. Abbiamo cominciato la via crucis. Si capiva che a Pellestrina non si poteva tornare. C’era l’inverno davanti e tutta la roba era ancora bagnata. Allora tutta l’invernata siamo stati così, in casa di altri, soldi non ce n’erano per andare in affitto. ‘Ste due famiglie divise. Per un giorno, due, si può essere ospitati, ma dopo al nostro mantenimento dovevamo pensarci noi, è naturale. I miei suoceri lo stesso. Ma soldi non ce n’erano.
Abbiamo cominciato a fare domande per la casa, per il lavoro…, qualcuno ti metteva a conoscenza di come fare. È stato così che anche io sono andata a lavorare per aiutare la famiglia. Prima di allora mi ero sempre arrangiata a lavorare da sarta, in casa. Facevo camicie da notte, le ricamavo davanti, a quel tempo si usava che le spose si facevano la dote. Ma i soldi che guadagnavo erano proprio briciole. Adesso avevo bisogno di soldi per aiutare la famiglia. Mio suocero prendeva 5 mila lire della pensione dei coltivatori diretti, ma erano tanto poco. Finché aveva avuto il suo orto da lavorarci potevano ancora ancora bastare, ma nel 1966 queste 5 mila lire erano tanto poco.
7. L’anno dopo, quando è tornata la bella stagione che il sole scaldava, mio suocero, poveretto, non si trovava a Marghera, dove non aveva né amicizie, né libertà. Aveva nostalgia. Allora è tornato a Pellestrina. Apriva la casa vecchia, e lui e la Linda stavano là per tutta l’estate. Coltivavano il terreno e abitavano in quella casa, ma non erano i proprietari. Era così da sempre. Comunque Ménego, là, si sentiva a casa sua, anche se puoi immaginarti l’odore che c’era dentro.
Il Comune ci ha assegnato un alloggio a Chirignago. Che noi neanche sapevamo che esistesse ‘sto paese. E poi ci abbiamo abitato per 32 anni. Il 31 agosto 1967 ci hanno consegnato le chiavi dell’appartamento di via Bosso e il primo di settembre siamo entrati. L’appartamento di Chirignago ci sembrava una reggia, la casa era nuova, e abbiamo cominciato a respirare.
Intervista trascritta in italiano da Giannarosa Vivian
Campalto, 6 novembre 2011
Nota della redazione: Lisetta De Poli è una delle zie che Giannarosa Vivian ha interpellato per raccontare Pellestrina nel Quaderno 7 di storiAmestre, a cui rimandiamo.