di Claudio Pasqual
Pubblichiamo il testo della relazione tenuta dal nostro amico e socio Claudio Pasqual all’incontro di studi Uno sguardo psicoanalitico. La città di Mestre negli anni ’50 e ’60, che si è tenuto l’8 maggio scorso presso il Centro culturale Santa Maria delle Grazie di Mestre.
1. Avendo accolto l’invito a essere fra i relatori in un incontro dal titolo tanto insolito e originale, “Uno sguardo psicanalitico. La città di Mestre negli anni ’50-’60”, allo storico trovo che sia richiesto di cimentarsi su un terreno che non è propriamente il suo, vale a dire quello dell’antropologia urbana. Da qui il rischio di schematizzazioni e approssimazioni, per le quali mi scuso anticipatamente.
Quello che mi propongo di fare è gettare uno sguardo su una collettività cittadina che si verrà, dagli anni Cinquanta-Sessanta, lentamente costruendo, sui percorsi di integrazione sociale di una numerosa popolazione di nuovo insediamento, dal particolare angolo visuale degli atteggiamenti mentali, delle psicologie individuali e collettive, da cui conseguono scelte e comportamenti diffusi e osservabili.
Mi preme evidenziare come questa integrazione, graduale e complicata, si giochi sostanzialmente sulla tensione tra una precedente, originaria fisionomia esistenziale e culturale, per così dire traslata dal contesto di provenienza, e gli stimoli e i condizionamenti del nuovo ambiente urbano; e verificare altresì quali siano stati i modi e le dinamiche con cui i soggetti hanno autonomamente, dal basso, costruito un vissuto cittadino e il senso di una comune appartenenza; come pure i dispositivi attivati dall’alto da poteri e istituzioni per governare e facilitare questa integrazione – quando se n’è verificato il caso, e sempre in maniera frammentaria ed episodica, al di fuori di un progetto generale che non fosse la destinazione della terraferma a periferia industriale e residenziale di una Venezia provvidenzialmente consegnata alla modernità.
Dove risalta maggiormente la tensione di cui si diceva? Mi pare in una figura particolare di nuovo mestrino: l’ex contadino delle case e casette unifamiliari (spesso molto modeste, nei progetti definite “operaie”), anche autocostruite. Lascia la campagna per la città ma si ferma sulla soglia, un piede dentro e l’altro fuori, in uno dei centri ancora ampiamente rurali della cintura periurbana – Chirignago, Zelarino, Favaro, Campalto. Qui, avendone la possibilità, si compra un terreno, tira su la casa e sullo scoperto coltiva l’orto. Con una viscosità di atteggiamenti che ammette anche delle mezze marce indietro. Posso portare il caso della mia biografia familiare: un nonno materno, di famiglia di contadini senza terra, emigrato dal Friuli a Mestre negli anni Venti come ferroviere e sistemato in un appartamento nelle palazzine di via Piave, che negli anni Cinquanta si trasferisce tra la via Miranese e la Gazzera, allora quasi campagna, fa costruire casa per sé e due dei figli e intorno ci mette l’orto e il pollaio, dove alleva galline e conigli; costruisce il letamaio, addirittura pianta una piccola vigna, per cui a ogni settembre si fa la vendemmia e se ne ricava un ettolitro di vino – cattivo, ma non importa, conta la soddisfazione di averlo prodotto da sé.
I casi di due luoghi della città, il rione Cipressina e il Villaggio San Marco, consentono una doppia verifica su tendenze e comportamenti rappresentativi della maggioranza degli abitanti di questa città.
2. La Cipressina, nel quadrante nordoccidentale di Mestre, e il Villaggio San Marco, nel settore est verso laguna, nascono pressappoco nello stesso periodo, tra gli anni Cinquanta e Sessanta. La Cipressina sorge dall’iniziativa privata, principalmente a opera di vari costruttori su lottizzazioni di terreni a cavallo della Castellana, in un’area in precedenza rurale. Il Villaggio San Marco, progettato nel 1951 e terminato alla metà dei Sessanta, è invece il primo grande intervento di pianificazione urbanistica del secondo dopoguerra nella terraferma veneziana nel quadro del piano INA-Casa.
La genesi è dunque diversa, diversa la struttura urbanistica, ma non altrettanto il profilo degli abitanti. In entrambi i luoghi la provenienza dei nuovi arrivati è duplice: una parte è composta di emigranti dalle campagne, specie del Veneto orientale, l’altra di persone che emigrano da Venezia. Alla Cipressina il flusso più consistente muove proprio dalla città storica e dall’estuario, e vi si stabilisce anche una numerosa colonia chioggiotta. Qui la diversa provenienza tende a evidenziarsi nella collocazione spaziale dei gruppi e in una differente tipologia edilizia delle abitazioni. I “lagunari” si sistemano prevalentemente sul lato nord della Castellana, i “campagnoli” sul lato sud. Questi preferibilmente in case uni o bifamiliari, i primi in appartamenti su palazzine di tre o quattro piani.
Nella diversità, accomuna però entrambi i gruppi un’esperienza esistenziale pervasa da una sensazione di sradicamento e smarrimento, quella condizione psicologica che colpisce, in quartieri sorti dal nulla e rapidamente, una popolazione di nuovi venuti, di migranti. Eravamo “né carne né pesce”, commenta un testimone di quegli inizi, descrivendo il quartiere ma in fondo anche i suoi abitanti. Veneziani e chioggiotti e gente arrivata da luoghi diversissimi in questa estrema periferia fra città e campagna, catapultati qui dal bisogno, hanno difficoltà di adattamento, soffrono il nuovo ambiente e i suoi ritmi di vita, coltivano il rimpianto per i luoghi natii; fondamentalmente, non sentono propria la Cipressina, dove pure dovranno vivere d’ora in poi. Allo spaesamento reagiscono tendendo a riprodurre reti, modelli e forme di relazione tipici dell’ambiente di provenienza. Vedi l’abitudine, d’estate, di fermarsi la sera sui portoni dei palazzi, praticamente in strada, portando seggiole e sgabelli; anche la conversazione delle donne da finestra a finestra e i panni stesi da un balcone all’altro sono costumanze da calli e campielli. Un momento importante sono le feste tradizionali: la celebrazione del Redentore è occasione per organizzare tavolate di inquilini negli spazi angusti fra i palazzi. C’è un fiume, qualcuno trasforma l’attività della pesca in rito domenicale. Questo della pesca è uno degli aspetti anche curiosi e persino buffi, perché intervengono i pudori, le resistenze. Che alla Cipressina non ci sia stata per tanto tempo una pescheria, un intervistato se lo spiega con la ritrosia di chioggiotti e pellestrinotti, stirpi di pescatori, a farsi vedere mentre il pesce lo compravano: che vergogna! Infine, i primi veneziani a Mestre delle automobili hanno un sacro terrore; il traffico li confonde; non sanno andare in bicicletta e qualcuno non vuole nemmeno imparare: “a Venezia, a piedi o in barca; in campagna, si va in bicicletta!”.
Ecco, una prevedibile complicazione sulla strada della formazione di una realtà sociale integrata e coesa, l’attrito tra differenti matrici culturali, con le loro rigidità e pregiudizi. Nella Cipressina delle origini troviamo due tipi umani: il “veneziano” emigrato in terraferma e il “campagnolo” inurbato. La tenacità dei rispettivi schemi mentali fa sì che inizialmente i rapporti tra i due gruppi siano difficili, conflittuali, che prevalgano gli stereotipi, affermati sul piano della canzonatura, dello sberleffo, dell’ironia puntuta. Per l’ex contadino l’altro che si dà delle arie ma non sa neanche andare in bicicletta. Il veneziano per converso riprende motivi da “satira del villano”, sottolineando la rozzezza dell’idioma, dei modi e del vestire.
C’è anche che la Cipressina è un luogo che, per com’è fatto e come viene vissuto, non favorisce l’incontro, il confronto.
Prendiamo la congestione abitativa, il sovraffollamento. “La gente che vive attaccata l’una all’altra […], stipata a più non posso è restia a stare insieme al di fuori della vita privata, perché qui di privato c’è poco o niente. Così il tempo libero la gente lo vuole passare al di fuori di questa grande famiglia, per conto proprio, magari scappando appena possibile […] A farne le spese sono stati però gli stessi cittadini, che rinunciando a questa comunanza nella lotta hanno perso treni importantissimi per i loro diritti. […] Il quartiere è nato con questo handicap, e da qui ne derivano le conseguenze”. Insomma, sono molto forti la propensione all’isolamento e gli atteggiamenti individualistici.
In secondo luogo, scarseggiano i momenti e gli spazi di aggregazione. I primi edifici scolastici, le medie di via Ciardi e le elementari di via del Gazzato, quando vengono dismesse negli anni Settanta per nuove sedi, sono “scippate” al rione, occupate rispettivamente da uffici comunali e dal CONI. A lungo il solo luogo pubblico dove incontrarsi resta l’osteria “da Baldan” sulla Castellana. In questa fase l’osteria rappresenta sicuramente un fattore di integrazione nella vita urbana dei nuovi venuti, come “spazio di socialità concesso ai ceti subalterni” (così Tiziano Merlin). Da Baldan il PCI locale tiene la sue riunioni più affollate, quando gli angusti spazi della sezione non sono sufficienti. Tuttavia essa non può bastare a sostenere un percorso di crescita politica e culturale collettiva della Cipressina.
Un freno molto forte all’integrazione e coesione sociale è la tendenza a considerare il rione un posto di passaggio, da lasciare appena possibile. Testimoni riferiscono, in quei primi tempi, un ricambio dei residenti ogni sette, otto anni; un’intensa mobilità territoriale non ingenera attaccamento, semmai estraneità ai luoghi, immobilismo e passività.
3. Le problematiche sociali di un agglomerato urbano giovane e in rapidissima crescita non sono certo ignorate dal discorso pubblico, cittadino e non solo. Il Villaggio San Marco rappresenta la traduzione sul piano urbanistico e abitativo di una politica dell’integrazione; lo strumento, ne accennavo all’inizio, con cui le istituzioni e il meglio dell’intellighenzia veneziana – il gruppo di architetti riuniti attorno a Giuseppe Samonà – tentano di pianificare un inserimento morbido nel tessuto cittadino della popolazione migrante. L’ispirazione di fondo è “l’idea di una città-società come organismo” (Paola Di Biagi); un luogo con un’“organizzazione della vita in piccoli nuclei autonomi – le corti – in cui gli abitanti si riconoscano, si ritrovino all’aperto e vivano assieme come in appartata, tranquilla frazione di paese” (Giovanni Astengo). Le abitazioni, a schiera su due piani, affacciano sulla corte comune, intesa come prosecuzione della casa all’aperto; sul retro, un piccolo scoperto riequilibra questa forte connotazione pubblica con un luogo intimo e riservato. È evidente, oltre alla forte caratterizzazione sociale e collettiva del nuovo insediamento, l’intento di creare un contesto urbano che, sovrapponendo le tipologie insediative dei due principali ambienti di provenienza dei prossimi abitanti, Venezia e la campagna, faciliti l’acclimatamento nella nuova realtà: “chi veniva dalla campagna poteva ritrovare il nucleo paesano e chi veniva da Venezia addirittura la stessa struttura” (Paola Sartori).
Problemi però si manifestano assai precocemente. L’emergenza abitativa spinge ad assegnare gli alloggi man mano che vengono ultimati, a cantieri ancora aperti. Nei primi anni la gente vive in condizioni più che disagiate: domina un paesaggio di sterpaglie, sterrati e acquitrini; il viale è ancora in costruzione, le strade bianche; alla notte niente lampioni e buio pesto; con le piogge un mare di fango, “i sassi davanti alla porta par poter caminar”. I servizi sono latitanti: niente autobus; negozi solo a Mestre centro; unico luogo di ritrovo un paio di povere osterie. Poi si finiscono le case, arrivano asfalto e illuminazione pubblica, le cose migliorano almeno un po’…
Gli elementi in comune con la Cipressina si saranno già intuiti. Vi si ritrovano le stesse dinamiche, ma enfatizzate dalla diversa conformazione urbanistica dell’insediamento, con le corti che accentuano il peso del contatto reciproco, della vicinanza. Anche questo è un mondo di sradicati. La reazione emotiva, psicologica del veneziano è di sentirsi un espatriato suo malgrado, punito senza colpa: “ho tanto pianto… mi sembrava di essere in esilio”; “mio marito… da matti è stato quando ci siamo trasferiti qua”; e che nell’ossessivo “no ghe gera niente”, detto del luogo, riflette il senso di vuoto, di smarrimento di sé, della perdita di identità. E c’è l’ex contadino, contento del lavoro sicuro e della casa “moderna”, ma a disagio nell’ambiente urbano a lui sconosciuto, timoroso del giudizio altrui, di essere emarginato per i suoi gesti e discorsi e il dialetto da campagnolo. Le differenze antropologiche, di codici culturali e di usanze si esaltano nello spazio comune delle corti. Le reciproche rappresentazioni sono un fattore di frammentazione, un ostacolo alla formazione di un corpo sociale che si riconosce entro un orizzonte condiviso. I veneziani “considerano i mestrini chiusi, arretrati, conservatori, poco al passo coi tempi e poco combattivi: ‘i se de campagna, i se tacai a la ciesa’”. I “continentali” per contro inclinano ad additare i lagunari in blocco come un elemento di disordine: si ricordano strade malfamate e poco sicure, bande di teppistelli che bruciavano porte e materassi e facevano sparire la roba messa fuori; le donne di città soprattutto sono criticate per una presunta disinvoltura di costumi – fumano, si truccano e si agghindano, “faseva debiti”.
4. Questo rapporto estraniato con la città, questo impasto di chiusura culturale, nostalgia del passato e dell’altrove, frustrazione e diffidenza non può durare per sempre. Ci sono solidi fattori reali che spingono in altra direzione. Per prima cosa, la stabilizzazione della residenza: Mestre e il quartiere che con il tempo vengono vissuti come la propria dimora definitiva. Poi, un tessuto sociale abbastanza omogeneo: Cipressina e Villaggio San Marco sono entrambi quartieri popolari e proletari, con una composizione prevalentemente operaia. Ma soprattutto c’è la scoperta di condividere i medesimi problemi e mancanze del luogo, quello che non c’è o non funziona: alla Cipressina mancano un centro sociale, la farmacia, le fognature, e poi ci sono i continui allagamenti; al Villaggio i lavori fatti male e le case umide e che cadono a pezzi. E da qui la presa di coscienza che bisogna fare qualcosa, muoversi in prima persona, se si vogliono cambiare in meglio le cose.
Penso che un potente catalizzatore per molti nuovi mestrini del senso di appartenenza alla città e per l’integrazione siano state le lotte, la mobilitazione sociale, le battaglie collettive intraprese a partire da situazioni concrete per rivendicare diritti e vedere soddisfatti bisogni comuni. In questo senso, e non solo in termini di direzione e di efficacia della protesta, un contributo significativo hanno dato forme organizzate di partecipazione dei cittadini. I partiti, e in particolare, in due rioni popolari e operai, il PCI, sono stati importanti non soltanto come centri di formazione politica ma anche per la crescita dello spirito civico.
Alla Cipressina, la prima a organizzarsi e muoversi è soprattutto gente del PCI e del PSI. In un sito basso, con il Marzenego pensile, la protesta contro gli allagamenti è l’iniziativa di lotta promossa dal PCI attorno alla quale finalmente si mobilitano molti abitanti del quartiere, attraverso raccolte di firme ma anche tentativi di blocco stradale della Castellana, con la tensione e le proteste che durano fino alla realizzazione dello scolmatore. “Abbiamo fatto battaglie feroci per ottenere una farmacia”, “grandi lotte per i nostri figli, perché avessero un asilo dove giocare, una scuola pubblica dove studiare”; e poi i passaggi a livello, la tangenziale, il verde pubblico, l’arredo urbano.
Al Villaggio, sui partiti spicca come polo di aggregazione e centro di formazione politica e civica il Comitato Inquilini: ”avevamo creato questo Comitato sia per rivendicare presso l’INA-Casa gli interventi necessari a migliorare l’alloggio, come i magazzini, il gas, il riscaldamento, che per aumentare la sensibilità degli assegnatari verso la cura della loro casa e il rispetto del quartiere… e se oggi le case sono su è anche grazie a questo Comitato che per tanti anni ga batuo el ciodo fino a quando nella mentalità della gente sono entrate queste idee”. Dalle testimonianze, emerge un forte protagonismo del mondo femminile, e le donne appaiono le più battagliere: “Son vegnia a abitar qua nel 1961, dopo 8 ani de domande… Se sempre sta na bataglia co ste case… Alora quando che se sera ndemo dal sindaco… Semo ndae tante volte dal sindaco che no la ga gnanca un’idea ea! El gaveva el teror de le done de Vial S. Marco e ndavimo par tuto, parché ne pioveva dentro e l’Ente Autonomo no ne faseva le fature, par el marciapie, la ciesa, le strade, le scuoe, e insoma s’è sorto el vial…”. Fianco a fianco si ritrovano l’ex veneziana e l’ex campagnola e questa comunanza nei problemi e nella lotta aiuta ad abbattere artificiosi steccati. I risultati ottenuti concorrono così a formare una rappresentazione del Villaggio come conquista, costruzione personale e collettiva, nella quale rintracciare i segni della propria storia, un luogo che finalmente è il proprio e al quale si sente di appartenere, e se ne ha cura e si vuole migliore, più bello, confortevole e sicuro.
Un secondo efficace vettore di integrazione e di amalgama va rintracciato a mio avviso nell’esperienza delle feste popolari e dei riti collettivi, tradizionali ma anche moderni. Alla Cipressina, veneziani e chioggiotti, complice la fascinazione dell’evento e dell’ora, non resistono a mescolarsi agli altri a concelebrare, davanti all’osteria da “Baldan”, la piroea paroea, o pan e vin, i falò notturni dell’Epifania, riti propiziatori legati al ciclo dell’agricoltura, dunque a un trascorso vissuto rurale e contadino, nonché a bruciare la vecia a metà Quaresima. Altro momento importante: le feste di sezione dell’Unità, frequentate senza distinzione da tantissima gente del quartiere, anch’esse dunque una tappa nel processo di socializzazione della cittadinanza. Ma si pensi anche al ruolo avuto in tal senso dalla televisione degli albori: quando di apparecchi ce ne sono pochissimi, al Villaggio si officia il rito della visione collettiva, con il televisore del fortunato proprietario in entrata e la gente in corte sugli scagnei.
Nel frattempo in strada i bambini, una vera folla in quel pezzettino d’Italia dei Cinquanta – nel 1957 quasi il 40 per cento dei residenti del Villaggio ha meno di quattordici anni –, non inquinati da luoghi comuni e pregiudizi, giocano assieme senza remore, fraternizzano. Saranno loro, o i loro fratelli maggiori, la prima generazione di “nativi” (o quasi) mestrini, a sciogliere quella tensione dei padri tra un passato che non passa e un presente ostico da accogliere e a vivere senza riserve, o senza troppe riserve mentali, l’appartenenza alla città: rappresentata in tanti modi, anche molto critici, ma comunque la propria.
Nota bibliografica
Oltre che qualche ricordo personale, per preparare questo intervento mi sono state preziose alcune letture. Andrea Darisi per la Cipressina, Paola Sartori e Maria Teresa Sega per il Villaggio San Marco hanno basato le loro ricostruzioni principalmente su interviste a residenti, dalle cui testimonianze provengono le citazioni che si trovano nel mio testo – e al primo debbo anche la definizione dell’osteria ripresa da Tiziano Merlin, alla seconda le osservazioni dell’architetto e urbanista Giovanni Astengo sulla funzione delle corti. Si vedano: A. Darisi, Cipressina. Storia di un quartiere di Mestre nel secondo dopoguerra, pubblicato con la collaborazione di ex Quartiere 11 e associazione “I sette nani”, [Mestre] 2005; P. Sartori, I primi anni del Villaggio San Marco e M.T. Sega, “No ghe gera niente …”. Tempo, cambiamento, identità, in La città invisibile. Storie di Mestre, Atti del convegno, Mestre 25-27 marzo 1988, a cura di storiAmestre e MCE, Arsenale Editrice, Venezia 1990, pp. 107-117 e 118-126. Sull’urbanizzazione del settore orientale di Mestre, che comprende il Villaggio San Marco, ha scritto P. Di Biagi, Il nuovo margine lagunare e la “città pubblica” di terraferma, in La grande Venezia. Una metropoli incompiuta tra Otto e Novecento, a cura di G. Zucconi, Marsilio, Venezia 2002, pp. 141-147. Un caso paradigmatico di autoedilizia è ricostruito da C. Zanlorenzi, Casette operaie. Un esempio di autocostruzione a Zelarino (1957-1963), in appendice a V. Beretta, Fare ordine nella città metropolitana. Mestre, Spinea, terraferma e il progetto di terza zona industriale (1950-1970), Cierre, Sommacampagna (Vr) 2002, pp. 129-158 (parzialmente disponibile su questo sito); dal canto suo, Beretta indaga, partendo da Spinea, i tentativi di pianificazione urbanistica negli anni cruciali della formazione dell’area metropolitana veneziana. Infine, una molteplicità e varietà di osservazioni e testimonianze sulla città metropolitana nata intorno a Venezia, Mestre e Marghera, pertinenti per il tema affrontato dalla giornata di studi, è stata raccolta negli anni Novanta dalla rivista Altrochemestre. Documentazione e storia del tempo presente, diretta da P. Brunello e L. Pes, uscita in sei numeri fra il 1994 e il 1998 e oggi consultabile dal sito dell’associazione storiAmestre.
Claudio Pasqual dice
caro Rodolfo,
no, non mi sono occupato di Zelarino, se non per l’editing del volume di Giuliano Codato, “Zelarino Novecento”, pubblicato nel 2011 nella collana Obiettivo Novecento del Centro di documentazione sulla città contemporanea.
Ciao
Claudio
rodolfo marcolin dice
Sarei curioso di sapere se questo tuo percorso di studio psicologico sulla comunità della Cipressina si sia poi ampliato anche sulla collettività di Zelarino che fino quasi alla fine del secondo millennio ha vissuto una certa separazione (fisicamente acuita dalla presenza del secondo passaggio a livello ferroviario) con il resto della città.
Ciao Rodolfo