di Benjamin Arbel
Poco più di un anno fa, il 12 febbraio 2014, Cesare Vivante è morto a Venezia, la città in cui era nato nel 1920. Quando abbiamo chiesto al nostro amico Benjamin Arbel, studioso della presenza veneziana nel Mediterraneo in età moderna, di mandarci un suo ricordo, Arbel ci ha proposto una lettura del libro che Vivante pubblicò nel 2009, La memoria dei padri. Cronaca, storia e preistoria di una famiglia ebraica tra Corfù e Venezia. La presentiamo qui di seguito, segnalando che di questo libro esiste anche una ampia anteprima in googlebooks.
1. Ho conosciuto Cesare e Dina Vivante una trentina d’anni fa. Un amico comune ci ha presentato, e da allora abbiamo mantenuto contatti non molto frequenti ma sempre amichevoli. Avevamo qualche interesse comune. Io ero storico di Venezia e mi occupavo soprattutto della presenza veneziana nel Mediterraneo e del ruolo degli ebrei in questo contesto. Cesare (mi pare che fosse già pensionato quando ci siamo incontrati per la prima volta) era impegnato nella conservazione del patrimonio culturale della comunità ebraica di Venezia – nel restauro delle vecchie sinagoghe del Ghetto, nonché nel restauro e documentazione del vecchio cimitero ebraico del Lido (collaborò, tra l’altro, a un volume davvero notevole sul cimitero ebraico)1.
Pur non essendo uno storico di professione – prima del suo pensionamento insegnava lettere negli istituti tecnici –, si mostrò molto interessato alla raccolta documentaria attinente alla storia della sua famiglia. Nel corso di quest’ultima attività mi chiedeva ogni tanto qualche consiglio e aiuto, che io cercavo di prestargli nel limite delle mie conoscenze e possibilità.
Dallo scambio di lettere e messaggi elettronici, ho scoperto molto presto il suo talento di scrittore, e mi auguravo sempre di vedere il risultato scritto del suo lungo e tenace viaggio alla ricerca dei suoi antenati. È stata veramente una grande gioia l’uscita del libro nel 20092, quando Cesare aveva già compiuto i suoi 89 anni, e il fatto di poter festeggiare questo evento in una serata organizzata dalla comunità ebraica di Venezia. Ed è appunto a questo libro, una testimonianza straordinaria, presentata in modo magistrale, che vorrei dedicare le pagine seguenti, cogliendo molto volentieri l’iniziativa di storiAmestre di commemorare Cesare Vivante un anno dopo la sua scomparsa.
2. Chi tra di noi sarebbe capace di ricostruire un albero genealogico della sua famiglia, comprendente i suoi vari rami laterali, risalendo fino al Quattrocento? Quando ci ho provato, non sono riuscito a oltrepassare la metà dell’Ottocento. Come tanti tra di noi, Cesare Vivante si accorse quanto poco sapeva della vita di suo papà (scomparso già nel 1934). Ciononostante, una volta deciso di assumere questo carico, ha preso come punto di partenza le proprie memorie, relative alla sua infanzia e giovinezza, confrontandole, man mano che scopriva nuove testimonianze, con documenti, ritratti, fotografie, che gli hanno permesso di ricostituire, almeno in parte, un quadro abbastanza coerente delle ultime generazioni della sua famiglia. Ma la sfida più grande è stata ovviamente andare più indietro, oltre il tardo Ottocento, per rintracciare il passato più lontano dei suoi antenati. Per realizzare questo progetto bisognava compiere ricerche in altri paesi, frequentare archivi e biblioteche, trovare altre fonti documentarie, scritte in altre lingue, come il greco e l’ebraico. Cesare Vivante concluse questo impegno nel 2009, cinque anni prima di morire, pubblicando il libro, intitolato La memoria dei padri.
Le tragiche vicende che condussero al massacro dei suoi parenti nei campi di sterminio tedeschi occupano uno spazio ristretto in questo libro: conseguenza, mi pare, di una tendenza personale (ma allo stesso tempo caratteristica di tanti altri della stessa generazione) a non dar sfogo a tali memorie e sentimenti. Una sola pagina, intitolata “Congedo”, descrive la triste sorte di diciassette membri della famiglia massacrati dai nazisti, tra i quali la mamma di Cesare, tre zie, due zii, un cugino, e alcuni altri parenti meno stretti. Ma sembra sia stato proprio questo annientamento della famiglia, tanto più dopo la scomparsa dei pochi superstiti – uno zio e una sorella –, a spingerlo a documentare la storia dei Vivante.
3. Questo racconto di storia familiare comincia dunque con le memorie d’infanzia, che l’Autore ci offre in termini di affetto privo di qualsiasi sentimentalismo: uno sguardo nella vita di questa famiglia allargata nel periodo tra le due guerre mondiali. Nel palazzo veneziano che portava il nome dei suoi proprietari precedenti, i Bragadin-Carabba, vicino al teatro Malibran, abitavano non solo il piccolo nucleo familiare che comprendeva il padre Girolamo, che sarebbe scomparso quando Cesare aveva 14 anni, la mamma Gianna (cognome di famiglia Cavalieri), e i due figli (Cesare e sua sorella Bice Sara), ma anche tre zie (Alba, Ida e Anna), lo zio Costante (il “tecnico” della famiglia), nonché due sorelle provenienti dal Bellunese, Pierina e Adriana, accolte in casa Vivante dopo la Grande Guerra. Inoltre, come in ogni casa borghese di quell’epoca, c’erano anche le domestiche, e infine, il gatto Daniele, anche lui conservato nella memoria dello scrittore. Nei ricordi dell’Autore, questo insieme di persone che condividevano la vita quotidiana era abbastanza compatto.
Le famiglie dei nonni di Cesare erano state le ultime dei Vivante a lasciare il Ghetto. Tenevano alle tradizioni ebraiche, ma in un modo che non sembra troppo rigoroso. Frequentavano le sinagoghe, osservavano le restrizioni alimentari previste dalla loro religione e onoravano fedelmente le feste ebraiche, ma ciononostante Cesare non ricordava che si celebrassero in famiglia i riti dello Shabbat. Sulle pareti dell’abitazione veneziana vi erano, accanto a quadri che rappresentavano scene bibliche, anche altri con scene della mitologia greca, una cosa che oggi sarebbe impensabile in una casa di ebrei ortodossi. Da ragazzo, la nonna gli raccontava la storia dell’Amore delle tre melarance, ispirata dalla fiaba teatrale di Carlo Gozzi, molto popolare nella Venezia ottocentesca. I Vivante frequentavano in prevalenza altri ebrei, ma non esclusivamente. Come sottolinea Cesare, già alla fine del Settecento la famiglia “non era soltanto ebraica, ma anche laica, aperta a richiami del presente come alle voci più illustri del passato” (p. 24).
Alla base della saga famigliare dei Vivante sta l’albero genealogico, contenente i vari rami della parentela. Questo albero, ricostituito dall’Autore con grande attenzione, è servito da struttura sulla quale dipanare, man mano che si scoprivano nuovi dati sulle vicende familiari, una storia che contiene migrazioni tra vari paesi e continenti, drammi personali e familiari, successi e fallimenti economici, amori e odi: vicende che si leggono spesso come un romanzo. Allo stesso tempo il libro ci permette, attraverso la storia di un gruppo familiare, di seguire un po’ le sorti degli ebrei di parecchi paesi (la Francia, il Mezzogiorno italiano, Corfù, Venezia, Trieste, ma anche località più lontane come Buenos Aires e Alessandria d’Egitto), a partire dal Medioevo fino ai giorni nostri.
4. Prima di trasferirsi a Venezia nel tardo Settecento, gli antenati di Cesare Vivante avevano vissuto per circa due secoli e mezzo a Corfù, dove si erano stabiliti in seguito alla cacciata degli ebrei dal regno di Napoli, e più precisamente dalla Puglia. Un manoscritto ebraico, conservato oggi presso la Biblioteca nazionale di Parigi, fu trascritto nel 1467 da un certo Menachem di Joseph Vivante. Secondo una perizia effettuata su richiesta del nostro Autore, questa trascrizione fu presumibilmente effettuata in Puglia (a Taranto oppure a Nardò). I sovrani aragonesi, che avevano già espulso gli ebrei dai loro regni iberici, dalla Sicilia, dalle Isole Baleari e dalla Sardegna, portarono a termine questo processo nel regno di Napoli tra il 1495 e il 1541.
Ma anche in Puglia, da dove furono costretti a partire nel primo Cinquecento, i Vivante erano probabilmente arrivati in conseguenza di un’altra cacciata, quella promulgata dal re di Francia nel tardo Trecento. Difatti, le sorti della famiglia Vivante sembrano raffigurare l’immagine dell’ebreo errante, nonostante i lunghi soggiorni trascorsi da diverse generazioni in ciascuna delle tappe di questo plurisecolare vagabondaggio, permanenze che creavano un’illusione di stabilità e sicurezza. In ogni modo, varie fonti attestano che nel corso della prima metà del Cinquecento, ebrei pugliesi trovarono asilo a Corfù (veneziana dal 1386), e che vi fondarono anche una sinagoga nella quale celebrare le preghiere secondo la tradizione giudeo-pugliese. Un atto notarile scoperto da Cesare Vivante nell’archivio di Corfù, stipulato in greco il 7 luglio 1542, menziona un certo Jehuda Vivante, figlio di David, che teneva in affitto un laboratorio e un locale nei pressi del monastero della Santissima Annunziata.
Altri documenti scoperti dall’Autore, grazie alla sua tenacia e alla fortuna, indicano che questo Jehuda fu proprio il capostipite dei vari rami dei Vivante. Da altri documenti cinquecenteschi, rinvenuti anch’essi nell’archivio di Corfù, si apprende che insieme a Jehuda vi erano nell’isola tre fratelli e le loro rispettive famiglie; uno di loro, Maimon, diventò capostipite di un altro ramo dei Vivante, che si può seguire fino al tardo Ottocento.
Le regole che determinavano le condizioni di vita degli ebrei nei possedimenti veneziani d’oltremare erano molto diverse da quelle che esistevano nella stessa Venezia, dove il primo Ghetto fu istituito nel 1516, nonché nei vari centri della terraferma veneziana, passata sotto il dominio della Repubblica nel primo Quattrocento. A Venezia e nei centri urbani della terraferma veneziana la loro permanenza era soggetta al rinnovo delle loro condotte, sotto condizioni sempre meno favorevoli, e le attività economiche che erano autorizzati a svolgere si limitavano al prestito a pegno, alla strazzeria e alla medicina. Nei territori dello Stato da mar, la situazione degli ebrei, ereditata da regimi anteriori, era ben diversa. Salvo poche eccezioni, la presenza ebraica era stabile, non condizionata da accordi “a termine” sul tipo delle condotte; inoltre, le attività economiche che gli ebrei potevano svolgere erano molto più numerose. Di conseguenza, la struttura socioeconomica delle comunità ebraiche dello Stato da mar era ben più articolata e varia rispetto a quella delle comunità del centro e del nord d’Italia. Questa situazione generale si rispecchia nella storia dei membri della famiglia Vivante dopo il loro insediamento a Corfù, benché l’attenzione principale del libro sia rivolta ai rami famigliari che raggiunsero alti livelli di fortuna economica.
5. Il libro contiene una serie di “microstorie” di vari membri della famiglia Vivante in diverse fasi della sua lunga storia. Le vicende legate alla figura di Moisè Vivante, figlio di Jehuda, le cui attività sono documentate tra tardo Seicento e primo Settecento, costituiscono un primo esempio del lavoro di ricostruzione realizzato dall’Autore.
Pronipote del primo Jehuda corfiota, Moisè fu tra i pochi ebrei corfioti dei suoi tempi a riuscire a mettere insieme nel corso della loro vita una cospicua fortuna. Tuttavia, dietro questo successo pare si nascondessero alcune vicende meno felici. Gli atti e testamenti notarili scoperti dall’Autore a Corfù rivelano che Moisè fosse stato sposato con tre donne: anzi, pare che almeno due di loro fossero sposate con lui contemporaneamente. Ci troviamo quindi di fronte a un caso raro di poligamia, che, secondo la legge religiosa degli ebrei (la cosiddetta Halakha), era lecita solo in casi eccezionali approvati da un tribunale rabbinico, dopo almeno dieci anni di matrimonio infecondo con la prima moglie. Ma pare che perfino la bigamia di Moisè non abbia prodotto l’esito sperato, visto che egli morì nel 1715 senza discendenti diretti. A questo punto si aprì una lunga lite nella quale furono coinvolti, da una parte, le due mogli superstiti – Chimefti Molco e Luna de Mordo – che sembrano aver mantenuto tra di loro un rapporto amichevole, e dall’altra, i due nipoti di Moisè, figli del suo defunto fratello maggiore, Maimon.
Qualche tempo prima della morte di Moisè, uno di questi nipoti, Jehuda, aveva depositato presso un notaio corfiota una testimonianza ad futuram memoriam. Morì poi nel 1716 dopo esser stato ridotto in schiavitù da soldati ottomani che in quell’anno assediavano Corfù. Fu quindi suo fratello Jacob a rendere pubblica questa testimonianza, dalla quale emergono gravi accuse mosse allo zio Moisè. Secondo lo stesso documento, Maimon, il fratello maggiore di Moisè e padre dei due nipoti, avrebbe aiutato Moisè nei suoi affari. Però, dopo la morte di Maimon, Moisè avrebbe obbligato i nipoti ad abbandonare Corfù e a sciogliere la “fraterna” (cioè la società tra fratelli formata dopo la morte del padre) nella quale erano uniti con lui. Inoltre, con false promesse, avrebbe estorto ai nipoti una somma cospicua di denaro, riducendoli in miseria. Insomma, da questo documento non emerge un’immagine molto positiva di Moisè Vivante. Però la scoperta di altri documenti, attinenti alla lite tra una delle vedove di Moisè e Jacob (l’unico nipote rimasto dopo la morte di Jehuda in schiavitù), rivela che Moisè avrebbe lasciato in eredità somme importanti di denaro ai nipoti, che avrebbero dovuto essere spese per il riscatto di Jehuda e per la dote di sua figlia, Simha, promessa in sposa a Jacob. Non sapremo mai se queste mosse risultassero dai rimorsi di un vecchio truffatore, oppure se dietro le accuse di Jehuda non si nascondesse una realtà ben diversa. A ogni modo, questa vicenda può servire da monito a non giungere a conclusioni frettolose sulla base di un solo documento.
6. Una figura chiave nella storia dei Vivante, alla quale si può attribuire la trasformazione di un ramo della famiglia in un fattore importante dell’economia corfiota, e in seguito anche di quella veneziana, fu quella di Jehuda-Leon, figlio di Menachem (c. 1700 -c. 1780). Nato in una famiglia di modeste condizioni economiche, appartenente alla sesta generazione dei Vivante corfioti, diventato presto orfano, all’età di diciassette anni cominciò a intraprendere varie imprese economiche. I documenti corfioti attestano un viaggio a Venezia nel 1720, nonché il suo matrimonio, nello stesso anno, con una certa Rachele Rietti. Da questa unione nacquero figli e figlie, tre di queste ultime decedute in tenera età. La base iniziale della sua fortuna era legata a un’attività che combinava credito rurale, tramite il contratto noto come prostichio, ed esportazione di vari prodotto agricoli, tra i quali olio d’oliva, semi di lino, cocciniglie, e vallonie (cupole di ghiande, dalle quali si estrae il tannino). Il prostichio, una tecnica creditizia molto diffusa nelle isole Ionie (non solo negli ambienti ebraici), s’inseriva nella cronica mancanza di capitale di cui soffrivano i contadini isolani. Si trattava di un anticipo di fondi, col diritto riservato al prestatore – oltre al rimborso del capitale – di comprare il primo raccolto a basso prezzo.
Nel corso del Settecento, la produzione dell’olio d’oliva e la sua esportazione verso Venezia diventarono il settore più importante dell’economia di Corfù, e parallelamente cominciò a diventare una fonte importante di reddito anche per lo Stato veneziano, per via dei dazi che venivano riscossi su questo traffico.
Nella prima fase della sua attività, i legami commerciali della ditta di Jehuda-Leon Vivante con Venezia dipendevano da mercanti ebrei del Ghetto vecchio, che fungevano da suoi fattori o soci. Ma dopo l’insediamento a Venezia di Menachem, primogenito di Jehuda-Leon, nel 1751-52, la ditta familiare poté svolgere le sue attività in modo indipendente. Altri due figli, Lazzaro e Maimon, rimasero a Corfù, aiutando il padre a gestire gli affari nell’isola, mentre il quarto figlio, Jacob Vita (che sarebbe poi il capostipite del ramo al quale appartiene il nostro Autore), si trasferì a un certo punto anche lui a Venezia e finì per sposare sua nipote, figlia del fratello Menachem. Ma anche il patriarca, Jehuda-Leon, e i due figli che rimanevano a Corfù facevano spesso visite a Venezia.
La famiglia di Menachem abitava nel Ghetto novissimo, ma stranamente, pur essendo stati sudditi veneziani prima di insediarsi a Venezia, e avendo gli stessi diritti di esercitare l’attività commerciale come gli ebrei “levantini” e “ponentini”, essi erano considerati formalmente “ebrei forestieri”, e come tali dovevano versare cento ducati l’anno alle casse della Nazione Tedesca di Venezia, una tassa che con gli anni fu aumentata.
Il volume del traffico tra Corfù e Venezia gestito dai Vivante, soprattutto quello dell’olio d’oliva, incrementò continuamente nel corso del Settecento, tranne una breve interruzione nel 1770-71, in seguito a misure anti-ebraiche, presto abolite per le ripercussioni negative sull’economia veneziana e corfiota. Le loro attività mercantili si espansero ulteriormente grazie ai prodotti che, da Venezia, essi esportavano verso Corfù e altre destinazioni, come occhiali, specchi, vetro soffiato e cannocchiali. Inoltre, alle loro imprese economiche si aggiunsero l’assicurazione marittima e l’attività armatoriale. Negli anni 1775-76 erano proprietari di tre navi, una delle quali si chiamava Il Leon, presumibilmente riprendendo il nome del capofamiglia corfiota, mentre le altre due, chiamate Bella Rachele e Regina Ester, proclamavano apertamente la loro appartenenza ad armatori ebrei.
Nell’ultimo quarto del XVIII secolo gli ebrei costituivano più del 12% degli abitanti del capoluogo dell’isola di Corfù, che contava in tutto circa 8.000 persone. I rapporti tra greci ortodossi ed ebrei non erano dei migliori, e il successo economico di alcuni ebrei rafforzava la tradizionale animosità da parte della maggioranza cristiana nei confronti della minoranza ebraica. Un episodio spiacevole, diventato famoso a Corfù, portò queste relazioni difficili a un punto critico, tanto da costringere tutta la famiglia di Jehuda-Leon a lasciare l’isola per trasferirsi definitivamente a Venezia. Le cose andarono così. Maimon, uno dei figli di Jehuda-Leon rimasti a Corfù, morì relativamente giovane attorno al 1774, lasciando una giovane vedova incinta, Bella, e sei figli, ai quali poi si aggiunse il nuovo nato. La famiglia di Maimon abitava nella casa di Jehuda-Leon, insieme a quella dell’altro fratello. Dopo la morte di Maimon, i nonni dovettero quindi occuparsi anche dei sette orfani. Nella settimana santa del 1776, come al solito da secoli, era proibito agli ebrei di Corfù di uscire dalle loro case. Il periodo pasquale era sempre un momento di tensione nelle difficili relazioni tra ebrei e cristiani nel capoluogo dell’isola. Nella notte tra il 15 e il 16 aprile 1776, un giorno dopo la Pasqua di Resurrezione e poche ore dopo la tradizionale cena della Pasqua ebraica trascorsa con i suoi famigliari, la sedicenne Rachele, figlia primogenita del defunto Maimon, già promessa al suo cugino Menachem (Mandolin), scappò da casa (rapita, secondo la versione dei familiari) per raggiungere un giovane aristocratico corfiota, Spiridione Bulgari, figlio dell’influente parroco della chiesa dedicata al patrono dell’isola, san Spiridione. Il giorno dopo venne battezzata con il nome di Caterina e unita in matrimonio in una frettolosa cerimonia che le autorità veneziane e la famiglia Vivante cercarono invano di impedire. Queste vicende furono accompagnate da disordini e violenze che ebbero gravi conseguenze sui rapporti tra ebrei e greci ortodossi a Corfù.
Le autorità veneziane dell’isola non furono in grado di prevenire o bloccare atti compiuti da potenti figure della società locale. Nemmeno il protopapàs greco, la somma autorità religiosa della chiesa ortodossa a Corfù, riuscì a modificare quello che ormai era diventato un fatto compiuto. In seguito all’intervento tempestivo degli Inquisitori di Stato, la magistratura più potente dello Stato veneziano, Rachele-Caterina, che insisteva nel dire di essersi unita al giovane Bulgari di propria volontà, fu spedita a Venezia. Il vecchio Jehuda-Leon, sentendosi leso e insicuro in seguito a questa vicenda, si decise a lasciare l’isola e di trasferirsi con tutta la famiglia a Venezia (magari anche per seguire Rachele?).
Intanto a Corfù fu avviato un processo, condotto dal Provveditore generale veneziano. Su ordine degli Inquisitori, gli imputati furono mandati a Venezia, tranne quelli ecclesiastici, che furono solo ammoniti. Però la procedura criminale s’imbatté in una nuova difficoltà, dovuta al parere di un teologo domenicano in risposta a una richiesta ufficiale di esaminare gli aspetti legali del battesimo e del matrimonio. La sua conclusione era netta: il battesimo e il matrimonio effettuati per libera volontà di Rachele-Caterina erano validi. Visto che anche Caterina continuava a insistere sul suo diritto di riunirsi a suo marito, che intanto era fuggito da Corfù, le fu finalmente concesso di farlo. Ma questa storia non finì come un bel romanzo d’amore. Il rapporto con Spiridione si guastò in fretta, e Caterina tentò perfino di suicidarsi. Riuscì a ottenere l’annullamento del matrimonio e a sposare un giovane medico veneziano, dal quale ebbe alcuni figli. Morì poco dopo aver compiuto quarant’anni.
7. Dopo la morte di Jehuda-Leon attorno al 1779, e la misteriosa scomparsa, l’anno prima, del primogenito Menachem, il cui cadavere fu trovato in laguna, i quattro nuclei famigliari continuarono ad abitare nella stessa casa grande nel Ghetto nuovissimo. L’attività armatoriale era il settore principale delle loro imprese economiche, ma i Vivante erano coinvolti anche nei settori dell’assicurazione marittima (in associazione con imprenditori cristiani), nel commercio marittimo (compresa la fornitura di grano), e nel prestito. Tutte queste attività furono condotte nell’ambito di una fraterna nella quale partecipavano le quattro famiglie discendenti di Jehuda-Leon. Si sposavano talvolta tra cugini, presumibilmente per non disperdere il patrimonio comune. Alcuni tra di loro si stabilirono a Trieste, che era ormai diventato il centro adriatico più importante nel settore marittimo.
Il successo economico si rifletteva naturalmente anche nella posizione dei Vivante all’interno delle organizzazioni comunitarie degli ebrei veneziani. Fatto curioso che richiede un approfondimento dello sviluppo storico del termine “Levante”: pur non essendo sudditi dell’Impero Ottomano, i Vivante appartenevano alla Scuola Levantina, costituita nel 1541, appunto per i sudditi ebrei del Sultano ottomano, considerati “viandanti”, cioè mercanti la cui presenza a Venezia era considerata, almeno formalmente, solo passeggera. Ma nel tardo Settecento, anche i possedimenti veneziani nel sud del Mare Adriatico erano ormai considerati “Levante”.
Nel 1792 ci fu la dissoluzione della fraterna famigliare in seguito all’iniziativa di Giuseppe Emanuele, fratello della famosa Rachele-Caterina, che insisteva sul suo diritto ad agire come imprenditore indipendente. Secondo una denuncia portata davanti agli Inquisitori di Stato, sembra che Giuseppe Emanuele fosse un carattere piuttosto anticonformista. Abitava, insieme a un cameriere cristiano, fuori dal Ghetto, e teneva nella sua biblioteca libri di Voltaire e Rousseau, ritenuti allora “pericolosi”, oltre alle opere del poeta libertino Giorgio Baffo. Due anni dopo lo scioglimento della fraterna, si convertì al cattolicesimo, e di seguito lo troviamo denominato (probabilmente sedicente) Conte Giuseppe Giacomo Albrizzi. Era legato a patrizi veneziani e coinvolto nella vita culturale e artistica di Venezia. Tra l’altro era in possesso di alcuni celebri lavori di Antonio Canova, tenuti nel suo palazzo sul Canal grande, ammirati da alcuni famosi visitatori, come l’imperatore d’Austria Francesco I, e Lodovico, figlio di Massimiliano di Baviera. Nel 1830, per difficoltà finanziarie, fu costretto a vendere il pezzo più pregiato della collezione, la statua di Ebe, al re di Prussia. Morì undici anni più tardi.
Torniamo al 1792: grazie agli inventari preparati al momento dello scioglimento della fraterna, e soprattutto grazie a Cesare Vivante e ad alcuni suoi collaboratori che li hanno studiati, possiamo avere un’idea abbastanza completa della fortuna, dei gusti e del mondo culturale dei Vivante. Gli inventari contengono liste di case, diciassette bastimenti, capitale liquido, oggetti preziosi, gondole, libri, arredi e corredi, merci, strumenti musicali, quadri e oggetti di culto. In particolare, gli inventari dei libri (cinque inventari comprendenti le biblioteche delle quattro famiglie e quella di Giuseppe Emanuele) ci permettono, soprattutto quando sono dettagliati, di avere un’idea sulle conoscenze delle lingue, sugli argomenti che interessavano i loro proprietari, sui loro orizzonti culturali e sulle loro sensibilità. La biblioteca di Lazzaro Vivante comprendeva circa 150 titoli (e molti più volumi, visto che c’erano collezioni di decine di volumi ciascuna) in ebraico, italiano francese e inglese, relativi a materie molto svariate, caratterizzata da una presenza notevole della cultura dell’Illuminismo, con grande spazio alla letteratura e alle opere classiche, rinascimentali e settecentesche. Alcuni libri trattano argomenti marittimi e commerciali, come il Dizionario di Comerzio del Savari, il Codice della Veneta mercantile marina, il Consolato del mare, e le Lezioni di Comerzio del Genovesi. La lista dei libri ebraici della stessa biblioteca è oggetto di un’analisi separata, curata da Piergabriele Mancuso, in Appendice al libro. Le altre biblioteche, pur essendo descritte con meno dettagli, presentano simili caratteristiche, con qualche preferenza personale, come per esempio una certa inclinazione per argomenti di carattere inglese nella biblioteca di Jacob Vita.
Il possesso delle navi era senza dubbio l’espressione più cospicua del successo economico dei Vivante. Un’altra Appendice del libro, curata da Gilberto Penzo, è dedicata a questo argomento. Sei navi erano di intera proprietà, cinque per la maggioranza dei “carati” (cioè quote), due per la metà, e quattro con quote di minoranza. Erano di tipi diversi: una fregata, quattro “navi”, due brigantini, un trabaccolo, mentre le altre erano cecchie e pollache. Il valore complessivo dei carati tenuti dalla fraterna Vivante era di 86.800 ducati. Con lo scioglimento della fraterna, queste navi furono divise tra gli ex soci, con reciproci compensi.
Al posto della fraterna, si crearono tre società indipendenti: una, di Lazzaro, Jacob Vita e nipoti Vivante (i discendenti di Menachem e di Maimon), centrata a Venezia; un’altra, gestita da Leon e Aron (figli di Menachem), il cui centro di attività era Trieste; e quella di Leon Vita, figlio di Maimon, che si occupava soprattutto degli scambi con Corfù. Quest’isola continuava a costituire un perno delle attività marittime dei Vivante, ma le loro navi raggiungevano anche San Giovanni d’Acri (per l’esportazione del cotone palestinese), Alessandria d’Egitto (per lo zucchero e il caffè), i porti del Maghreb, Livorno, Genova, Marsiglia, Barcellona, Lisbona e Londra.
8. In seguito alla caduta della Repubblica nel 1797 e all’istituzione della cosiddetta “Municipalità provvisoria” sotto la tutela francese, gli ebrei veneziano ottennero, per la prima volta, pieni diritti civili e politici. Alcuni esponenti della famiglia Vivante non tardarono a svolgere varie funzioni pubbliche. Il più in vista fu Jacob Vita Vivante (ossia il nonno del nonno dell’Autore), uno dei i tre esponenti dell’Università degli ebrei che fecero parte della nuova amministrazione cittadina, all’interno della quale era anche membro della Commissione commercio e arti. La ditta capeggiata da Jacob Vita aveva già avuto prima della caduta della Repubblica l’incarico (secondo lo stesso Jacob Vita, impostogli) dell’approvvigionamento delle armate francesi, e lui stesso continuò a occuparsene anche dopo il 1797. Raffaele e Momolo (Maimon) Vivante diventarono ufficiali nella nuova Guardia nazionale. In questa prima fase dell’era post-aristocratica, la ricchezza dei Vivante appare ancora molto rilevante. In occasione della prima tansa attribuita dalla Municipalità provvisoria, nella categoria degli esercenti e mercanti, essi pagano la cifra più alta di tutta la città.
Pare che Jacob Vita fosse ben cosciente della precarietà della situazione politico-militare nel nord-est italiano, e soprattutto di un possibile passaggio alla dominazione austriaca. Approfittando della possibilità, nuova per gli ebrei, di acquistare beni fondiari, la ditta si affrettò a comprare imponenti proprietà nel padovano e nel Veronese, quest’ultime appartenenti in passato a due grandi abbazie – quella di San Zeno Maggiore e quella della Santissima Trinità – soppresse da Napoleone e messe all’incanto pubblico. Vedere famiglie ebree tra i grandi proprietari terrieri, un settore dal quale erano esclusi da sempre, era un fenomeno del tutto nuovo in questa parte del mondo.
Ma la precarietà della condizione degli ebrei si fece presto palese quando, nel 1798, Venezia e il Veneto (fino all’Adige) passarono sotto il regime austriaco. Pur non ripristinando la segregazione nei ghetti, il regime imperiale abolì il diritto degli ebrei di possedere beni fondiari. Quindi i Vivante dovettero rinunciare al possesso delle terre acquisite, soprattutto dopo il 1799, quando si completò l’annessione ai territori austriaci della riva destra dell’Adige.
Ma dopo la vittoria francese a Austerlitz (dicembre 1805) e il breve ritorno dell’egemonia francese nel nord d’Italia, i diritti civili degli ebrei furono ripristinati, e le tre ditte dei Vivante colsero di nuovo l’occasione per grandi investimenti in immobili a Venezia e in fondi rurali in terraferma. Tali acquisti potevano anche risultare da iniziative governative. Per esempio, nel 1807, fu imposto alle ditte commerciali di Venezia, tramite la Camera di commercio, di acquistare dal Demanio proprietà ex-feudali. Quindi, le tre famiglie veneziane dei Vivante si misero d’accordo per acquistare circa 1356 campi a San Polo di Piave, nel Trevigiano, già proprietà della famiglia patrizia Gabriel, estintasi durante il primo dominio austriaco.
Tuttavia, le imprese marittime continuarono a costituire un elemento centrale dell’attività familiare. A queste fu legata un’occasione spettacolare nel 1806, quando il principe Eugenio e la sua consorte, Amalia di Baviera, visitarono Venezia: gli ospiti regali parteciparono al varo di una nuova nave della ditta di Jacob Vita, che avrebbe portato di seguito i nomi della regal coppia.
Ma questi momenti di gloria sarebbero durati poco. La crisi economica dell’area adriatica finì per colpire vari rami della famiglia, soprattutto in seguito della diminuzione dell’attività marittima e commerciale a causa delle frequenti guerre e dei blocchi marittimi, e per la difficoltà di recuperare crediti. Nel secondo decennio dell’Ottocento il ramo triestino si trovava in grande ristrettezza finanziaria, e dovette cedere agli altri rami dei Vivante una serie di proprietà in diverse località di Venezia e terraferma in cambio del loro aiuto. Ma ormai anche i tre rami veneziani, benché ancora facoltosi, non figuravano più tra le più ricche casate della città, e il prolungarsi della crisi non tardò a colpire anch’essi. Il loro crollo avvenne abbastanza rapidamente, in seguito a un’iniziativa che a distanza di tanti anni pare piuttosto folle: l’acquisto di grandi beni demaniali, finanziato con somme cospicue prese a prestito. La crisi economica non permise di ottenere guadagni tali da permettere la restituzione del debito e degli interessi che si erano accumulati, e a partire del 1813 i tre rami veneziani furono costretti a svendere la gran parte dei loro possedimenti: case a Venezia, proprietà terriere in terraferma, navi eccetera.
Solo un ramo dei Vivante, quello dei due figli di Lazzaro – Mandolin (Menachem) e Sabbato – riuscì a superare la lunga crisi dell’economia veneziana: anzi, come scrive l’Autore, l’attraversarono “sulla cresta dell’onda”. Uno dei fattori di questo successo fu la politica matrimoniale della famiglia, che si unì a un’altra importante famiglia ebraica di alto livello socio-economico – i Treves de’ Bonfil (loro stessi esito di una simile alleanza matrimoniale): due figlie di Mandolin si sposarono infatti con due figli del barone Giuseppe Treves de’ Bonfil. Anche questo ramo dei Vivante era impegnato nel settore marittimo e assicurativo. Dopo la morte del fratello, Sabbato continuò a dirigere le imprese, diventando, tra l’altro, nel 1832, uno tra i soci fondatori delle Assicurazioni Generali (allora denominate Assicurazioni Generali Austro-Italiche). Nel 1848, un anno prima della sua morte, lo troviamo, assieme a Spiridione Papadopoli (al quale aveva già venduto un terzo della tenuta di San Polo di Piave), alla direzione della Veneta Società degli Assicuratori.
Come spiegare la differenza tra la fortuna di questo ramo e quella degli altri rami dei Vivante? Il nostro Autore non trova soddisfacente una spiegazione generica che l’attribuirebbe a un diverso tipo di comportamento imprenditoriale: una maggiore prudenza nelle scelte e un maggior senso della misura, un maggior realismo e una capacità di adeguarsi al mutamento dei tempi, una maggior abilità nel coglier le occasioni, combinata con una giusta dose di coraggio. A me pare, invece, che tali elementi potrebbero almeno servire da ipotesi da sottoporre a un’ulteriore indagine.
In ogni modo, mi pare abbastanza significativo il fatto che nei momenti drammatici della rivoluzione del 1848-49, nella quale diversi ebrei veneziani parteciparono svolgendo un ruolo importante, non si trova nessun Vivante tra i protagonisti di queste vicende.
9. Con le figure di Rachele-Caterina e quella di suo fratello, Giuseppe Emmanuele, alias Conte Giuseppe Giacomo Albrizzi, abbiamo già avuto l’occasione di incontrare, grazie a Cesare Vivante, due percorsi di vita piuttosto insoliti, frutto dei rapporti tra la società ebraica e l’ambiente cristiano nel quale le famiglie ebree cercavano di mantenere la loro propria identità. Un’altra microstoria presentata dal nostro autore ci rivela un caso alquanto diverso. Elena (Lea), figlia di Jacob Vita Vivante, rimasta vedova ancora giovane nel 1813, ebbe, due anni dopo, un figlio illegittimo di nome Angelo, nato a Trivignano-Zelarino, nei pressi di Mestre. Visto che il padre rimase ignoto, Angelo prese il cognome della madre. Stabilitosi a Treviso, mantenne ancora legami con il resto della famiglia. Sposò un’ebrea goriziana, Isabella Luzzatto. Questa coppia ebbe due figli maschi, Fortunato Moisè e Giuseppe, che furono circoncisi dal cugino Jacob Vita Vivante (il secondo a portare questo nome, fratello del nonno di Cesare Vivante). Da adulto, Fortunato Vivante, il primogenito, stabilitosi a Trieste, fece una certa fortuna, ottenne lo status di nobile, e in seguito fu insignito dall’imperatore Francesco Giuseppe del titolo di barone di Villabella. Sposò una donna di umili origini, ma non ebbe figli. Suo fratello Giuseppe sposò una certa Natalia Schmitz, sorella di chi sarà meglio conosciuto con il nome di Italo Svevo. I discendenti di quest’ultima coppia furono poi tutti massacrati ad Auschwitz, dove finirono nelle camere a gas anche i parenti veneziani del nostro Autore, nonché alcuni parenti che erano rimasti a Corfù fino al tardo Ottocento, e che si erano rifugiati a Trieste in seguito al pogrom anti-ebraico avvenuto nell’isola nel 1891.
10. Concludendo questa rassegna di un libro veramente affascinante, vorrei sottolinearne alcune caratteristiche generali. In primis, la grande varietà delle fonti alla base di questa ricerca pluridecennale. Comprendono documenti appartenenti a tante serie archivistiche dell’Archivio di Stato di Venezia: quelle giudiziarie, notarili, e finanziarie; i documenti degli Inquisitori sopra gli Ebrei, del Magistrato alla Sanità, della Camera di Commercio di Venezia, dei Provveditori sopra banchi, dei Provveditori sopra Oli, delle Scuole Piccole, il catasto Napoleonico e la Statistica demaniale, e altri fondi ancora. Sono stati controllati documenti degli Archivi di Stato di Verona, Milano e Treviso, nonché atti notarili e amministrativi conservati nell’Archivio del Distretto di Corfù, documenti conservati nella Biblioteca nazionale di Parigi, nella Biblioteca Nazionale Marciana, nell’Archivio Municipale di Venezia, nei Civici Musei di Storia e Arte di Trieste, nel Hofkammerarchiv di Vienna, nel Jewish Theological Seminary a New York, nel Jewish Museum di Londra, nell’Archivio Centrale del popolo Ebraico a Gerusalemme, nel Museo ebraico di Venezia, e negli archivi delle comunità ebraiche di Venezia e di Trieste. Tra i documenti più originali e ricchi di informazione ci sono quelli tenuti dai vari superstiti della famiglia, compreso l’archivio privato dell’autore. Quest’ultimo contiene tra l’altro i registri di circoncisioni tenuti da alcuni membri di questa famiglia che, accanto alle loro attività commerciali fungevano anche da circoncisori (mohalim). È una fonte straordinaria, che copre un arco cronologico piuttosto lungo, tra il 1776 fino a 1882, con dettagli (nome dei genitori, dei neonati, dei padrini e talvolta altre informazioni) su oltre duemila nati soprattutto ma non solo a Venezia. Nel libro si trova un ritratto, che desta impressione, di uno di questi circoncisori, il già ricordato Jacob Vita Vivante fu Aron (fratello del nonno dell’autore), eseguito nel 1878, accanto a molte altre illustrazioni che riguardano la storia di questa famiglia straordinaria.
Un altro tratto caratteristico del libro è la cautela colla quale vengono trattate le varie testimonianze contenute nei documenti scoperti dall’autore nel corso della sua ricerca, e il modo in cui egli coinvolge i lettori nelle sue considerazioni. L’Autore ci presenta in modo molto chiaro non solo il grande valore di questa documentazione, ma anche le sue lacune, le incertezze e la confusione incontrate nel corso delle sue ricerche. Ecco per esempio come descrive il suo modo di procedere nell’identificare i suoi lontani antenati nei documenti archivistici tenuti a Corfù (p. 154, n. 36):
È significativo, ad esempio, che due fonti tipologicamente diverse, e diverse anche per origine e funzione – l’elenco dei contribuenti e gli atti notarili considerati nel loro complesso – rechino gli stessi nomi […]; che le fonti notarili di ciascuno di essi ricorrano a pochi anni di distanza l’una dall’altra […]; che i rispettivi intestatari siano sempre identificati con la medesima qualifica, e con qualifiche tra loro compatibili: Elia sempre come artigiano, Jacob ora come prestatore ora come mercante. Un particolare approfondimento merita infine la coincidenza dei nomi dell’elenco dei contribuenti con quelli delle fonti notarili (atti e testamenti). L’elenco, garantendo per la sua stessa funzione il numero e il nome dei capifamiglia catalogati nel 1578, costituisce infatti il naturale punto di riferimento delle altre fonti; e collocandosi d’altra parte al centro di un periodo già di per sé relativamente breve, avvalora con la sua autorevolezza l’ipotesi che i “suoi” tre Vivante coincidano con gli omonimi delle fonti notarili che li precedono di pochi o pochissimi anni…
Infine, Cesare Vivante si rivela uno scrittore di grande talento. Come già segnalato, pur essendo risultato di una ricerca storica fondata su di un apparato scientifico accurato, il libro si legge come un romanzo. Siamo veramente fortunati che il nostro caro amico ci abbia offerto, prima di lasciarci, questa preziosissima testimonianza sulla lunga e talvolta drammatica storia della sua famiglia.
- Si tratta di La comunità ebraica di Venezia e il suo antico cimitero, ricerca a cura di Aldo Luzzatto, edizione a cura di Bernardo Crippa, Alessandra Veronese e Cesare Vivante, Il Polifilo, Milano 2000. [↩]
- Cesare Vivante, La memoria dei padri. Cronaca, storia e preistoria di una famiglia ebraica tra Corfù e Venezia, Giuntina, Firenze 2009, 270 pagine. [↩]
Gadi Luzzatto Voghera dice
Un ricordo appassionato di un intellettuale che ha lasciato un’impronda discreta e indelebile. Grazie Arbel!