di Piero Brunello
Appunti sui generi di discorso e soprattutto sui numeri relativi all’epidemia, che rispondono più alla modalità narrativa con cui vengono rilevati e comunicati che alle regole della statistica. I numeri sono quello su cui le autorità pubbliche si basano per adottare le misure che regolano le nostre vite? Allora sarebbe il caso che fossero noti i criteri di rilevazione, che ci fossero protocolli condivisi, e che i dati e il modo in cui sono raccolti fossero discussi, criticati e valutati in pubblico, invece che rispondere a “storie” (“di paura” o “edificanti” a seconda delle circostanze) da raccontare a un pubblico televisivo.
1. Da dopo Pasqua, con i dati relativi a morti e a contagiati in diminuzione, la parola d’ordine è diventata “convivere con il virus”, e così mi trovo a pensare a come sono cambiati il linguaggio e la retorica nella comunicazione pubblica sull’andamento dell’epidemia.
Non sto riflettendo su come elaborare un lutto, né su come le memorie private saranno in contrasto con quelle pubbliche, secondo quanto accade regolarmente in occasioni di catastrofi che coinvolgono una collettività (siano guerre o eventi naturali). È un tema importantissimo, naturalmente, e per questo avremo bisogno di racconti, di descrizioni e di cronache, trovando parole che aiutino a superare l’annichilimento che comportano cifre calcolate su dimensione planetaria. Quello che mi interessa ora è riflettere su quanto i numeri su cui si basano le decisioni politiche ci facciano capire che cosa è successo e sta succedendo.
Inizialmente lo scopo era quello di alleggerire la pressione sugli ospedali diluendo nel tempo l’afflusso dei malati soprattutto in terapia intensiva: di qui l’uso di termini come “collasso” (“siamo al collasso”, “evitare il collasso”) e “rallentare” (“la diffusione del virus”). In seguito lo scopo è diventato quello di “sconfiggere” e “inseguire” il virus, tanto che negli ultimi giorni si potevano leggere titoli di giornali di questo tipo: L’infettivologa: il virus si ritira velocemente dal Veneto, evitiamo passi falsi e non diamogli tregua.
Le metafore militaresche (“nemico invisibile”, “mobilitazione”, “trincea”, “offensiva”, “ritirata”, “siamo in guerra”) hanno punteggiato tutta questa vicenda, con una spiccata predilezione per la Prima guerra mondiale da Caporetto a Vittorio Veneto (al momento siamo sulla “linea del Piave”), e già questo meriterebbe uno studio a sé.
Ora è il momento di “ripartire”. Pochi giorni fa Andrea Lanza invitava ad analizzare “la costruzione delle variabili osservate”, per verificare quanto la scelta dei valori assoluti e delle percentuali da presentare sia condizionata dagli obiettivi da perseguire, oltre che da automatismi culturali e da conflitti di competenza tra istituzioni e apparati. Mi chiedo perciò se con le parole d’ordine siano cambiati anche i dati presi in esame.
Faccio qualche ipotesi tra me e me: nella prima fase (“il collasso”), dopo aver cercato “il paziente zero” nelle “zone rosse”, l’attenzione si spostava alle strutture sanitarie, e i decessi venivano contati negli ospedali e nelle case di cura, tralasciando quelli avvenuti in casa; nella seconda fase (“sconfiggere il virus”) veniva imposta la quarantena a tutta la popolazione, e quello che interessava era l’aumento in termini assoluti dei “contagiati”, con l’attesa di Erre con zero (“R0”); nella terza fase (“convivere con il virus”) la rilevazione statistica (e caso mai i test sierologici) comprenderà la popolazione sana o che non presenta sintomi (il 100% della popolazione o sarà sufficiente quel 60% che i fautori del controllo si augurano possa accettare volontariamente l’equivalente di un braccialetto elettronico, come da più parti viene proposto?).
2. Per quale motivo, dichiarando di voler diminuire le possibilità di contagio, si decide di ridurre il numero di corse dei mezzi pubblici, se sappiamo che questo comporta più affollamento? Perché, nel momento in cui si parla di riaprire i parchi, si ipotizza di farlo per uno, o comunque un numero ristretto, per quartiere, sapendo che meno ce ne saranno di aperti più gli unici aperti saranno affollati?
E l’obbligo delle mascherine ovunque? Problemi di distribuzione a parte (è quello che è accaduto in Toscana, per esempio, dove la regione ha sperimentato un sistema per una settimana, cambiandolo per la settimana seguente di fronte a accaparramenti e assembramenti), difendono dal contagio? Ho controllato cosa dice l’Istituto Superiore della Sanità (ISS). Il 1 febbraio 2020 “per la popolazione generale in assenza di sintomi di malattie respiratorie” la mascherina “non è necessaria”. Dopo che molte voci hanno messo in dubbio l’efficacia delle mascherine e del loro utilizzo, mettendo in guardia dal contagio che possono comportare, il 1 aprile l’ISS torna sull’argomento con un decreto in cui “autorizza l’utilizzo di mascherine filtranti prive del marchio CE e prodotte in deroga senza validazione ma queste ultime non sono considerate né dispositivi medici né dispositivi di protezione individuale ma sono destinate in generale alla collettività e non richiedono tale autorizzazione”. Cioè le mascherine per la “collettività” non sono da considerarsi “dispositivi di protezione individuale” di cui debba occuparsi una autorità sanitaria: salvo che, almeno dove vivo io, siamo obbligati a portare anche per strada un modello che a quanto pare è monouso o da buttar via non si sa ogni quanto.
Voglio dire che le misure che vengono prese non sempre né automaticamente sono coerenti con gli obiettivi che vengono dichiarati. Rispondono a logiche diverse, che uniscono alle esigenze sanitarie quelle del controllo (penso ai progetti di app o all’uso dei droni) e della rassicurazione. Il controllo infatti si subisce, ma allo stesso tempo produce effetti rassicuranti perché conferma la presunta capacità delle autorità di padroneggiare la situazione.
3. In un intervento scritto un mese fa (22 marzo), nella fase cioè in cui bisognava “sconfiggere” il virus, l’antropologo Piero Vereni sintetizzava così sulla base della opposizione simbolica tra purezza e pericolo: dentro si sta sicuri, fuori si è in pericolo.
Oltre a costruire una geografia del contagio, la dicotomia purezza/pericolo ha additato di volta in volta gli untori: dapprima i figli grandi che in Italia a differenza che negli altri paesi abitano ancora in casa con i genitori, e quindi i nipotini che contagiano i nonni (contrappasso sanitario del “familismo amorale” addebitato agli italiani), poi la gente che va a piedi…
Ma ora che si tratta della “ripartenza” non sarà venuto il momento di suggerire che invece di star chiusi in casa è meglio stare all’aria aperta? Già si vedono articoli come questo, basato su una ricerca del CNR: Covid-19: contagiosità più alta in ambienti chiusi.
È prevedibile cioè che le misure di sicurezza continueranno a rispondere a una logica simbolica purezza/pericolo, ma si sposterà su altri campi: per esempio isolamento (in pubblico) e distanza. Il blocco delle auto in quarantena è stato un toccasana per l’ambiente (quindi per la salute pubblica), ma adesso per la salute pubblica occorrerà utilizzare anche più di prima i mezzi privati (isolamento/distanza) contro quelli pubblici (affollamento). Fino a poco tempo fa pensavamo a un mondo senza plastica e al riciclo totale, ora abbiamo mascherine e guanti monouso (che non si smaltiscono e cominciano a essere gettati per le strade).
Mi colpisce che nei cambiamenti che hanno modificato in queste ultime settimane la geografia del contagio, i bambini, nonostante settimane di quarantena totale, rimangono sempre pericolosi, non perché si ammalano (a Vo’, dove i tamponi sono stato fatti due volte a tutta la popolazione, sotto i 10 anni nessuno è risultato positivo), ma perché si pensa che nonostante questo possano diffondere il contagio (dopo un primo periodo di sospetto, gli animali domestici invece hanno superato il test della diffidenza).
Sarà per questo che, a differenza di altri luoghi chiusi (fabbriche, magazzini, supermercati per cominciare), le scuole sembrano bloccate nella categoria “contagio”? e sarà per questo che le famiglie – a cui all’inizio si raccomandava di fare attenzione anche ai contatti tra familiari nella stessa casa – ora sono invitate ad assumere babysitter (o costrette a far ricorso ai nonni)? Non ho le competenze per rispondere, segnalo comunque un video con il motivo per cui nei Paesi Bassi le scuole dell’infanzia ed elementari verranno riaperte, con misure organizzative prudenziali.
Nel frattempo anche Danimarca e Norvegia hanno riaperto le scuole (pubbliche) per i più piccoli e altri paesi europei si stanno attrezzando.
4. Limitandomi per comodità, e perché ci vivo, ai dati forniti due volte al giorno nel sito ufficiale della Regione Veneto, prendo in esame l’aggiornamento che avevo davanti a me mentre cominciavo a scrivere queste note, alle ore 8 del 15 aprile 2020.
Il prospetto comincia con il totale dei “casi di infezione da SARS-CoV 2” (14.624), quelli che vengono detti “i contagiati”. In realtà il numero non indica “i contagiati”, che tutti presumono essere in realtà molti di più, ma gli individui a cui finora è stato fatto un tampone e che sono risultati positivi, e la cui cifra viene aggiornata quotidianamente. Qual è il numero di individui a cui è stato fatto il tampone? Non lo sappiamo, eppure più individui vengono testati, più potrebbe scendere la percentuale dei contagiati, anche se questi ultimi dovessero aumentare in termini assoluti. Quello che sappiamo è solo il numero dei tamponi, che però vengono eseguiti più di una volta sulla stessa persona (da quanto leggo, anche cinque volte sulle persone dichiarate positive e poi guarite). Non solo il numero, ma i criteri con cui si eseguono o non si eseguono i tamponi variano da regione a regione e sono cambiati nel corso del tempo: tuttavia alla fine si fa una somma a livello nazionale, con risultati privi di senso. (Oltre all’intervento di Andrea Lanza, vedi quello del vicedirettore del Post Francesco Costa, del 19 marzo 2020.)
Un altro dato del prospetto rappresenta i “decessi (in ospedale e nel territorio)” (940).
Questa cifra non include i decessi di persone non sottoposte a tampone: e tanto meno include i decessi precedenti l’inizio delle rilevazioni, in cui il virus era probabilmente diffuso e non identificato. Il caso della Lombardia dimostra quanto questi criteri di rilevazione possano portare a sottovalutare il numero dei morti. Immaginarsi poi quanto affidabile sia sommare a livello nazionale dati raccolti nelle diverse regioni con criteri diversi, e che non conosciamo.
5. Il significato dei dati di cui stiamo parlando non può essere colto dentro valutazioni statistiche, ma all’interno della modalità con cui vengono messi assieme e comunicati, che è una modalità narrativa. Il sito ufficiale Regione Veneto, a cui come ho detto mi limito, fornisce un prospetto i cui i campi rimangono gli stessi, e giorno dopo giorno cambiano le cifre che li riempiono. La struttura, che permane uguale mentre cambiano i numeri nelle rispettive caselle, ha il vantaggio di consentire un racconto dall’inizio (delle rilevazioni) alla fine, quando sarà. Si accende la televisione, si leggono i giornali o si naviga nei siti, e il racconto riprende dalla puntata precedente. C’era una volta… che cosa? Il numero dei contagiati.
Sarebbe interessante analizzare la morfologia che presiede al racconto (allontanamento, divieto, infrazione, raggiro, marchiatura, ritorno, salvataggio, riconoscimento, ostacoli, punizione; e poi il cattivo, l’aiutante, il donatore, l’eroe, gli oggetti magici, eccetera): in altre parole sarebbe interessante capire quanto i dati stessi e il modo in cui sono raccolti e presentati riflettono la logica del racconto e le aspettative del pubblico a cui è rivolto, e che giorno dopo giorno torna all’infanzia e ascolta la storia. Il primo personaggio a comparire sulla scena è stato l’eroe (il o la medico, il primo guarito, l’infermiere o infermiera, il o la volontaria ecc.), e via via, per una sorta di congruenza narrativa, si sono aggiunti gli altri ruoli: senza pensare non solo a dare i numeri in modo ragionato, ma anche a come funzionano o dovrebbero funzionare gli apparati amministrativi, oltre che alle procedure e ai ruoli di responsabilità previste per le emergenze.
Sarebbe anche da riflettere su chi ha titoli per raccontare (un adulto che parla a bambini? un primo ministro che parla agli elettori? un amministratore sanitario ai suoi potenziali pazienti?), e su come il racconto costituisca dispositivi di governo e di controllo, secondo il vecchio detto che i rapporti di sapere implicano rapporti di potere.
6. Per motivi che chi vuole può trovare in nota1, è molto difficile – mi baso sulle linee-guida dell’Istituto Superiore della Sanità (ISS) –, stabilire la causa di morte da coronavirus quando la grande maggioranza dei decessi riguarda pazienti con due o tre patologie croniche preesistenti. E questo vale normalmente per i decessi da virus influenzale, con cui si può fare un confronto, e per cui però abbiamo solo stime: ho visto infatti che l’Istat conteggia l’influenza solo se risulta essere la “causa iniziale di morte”. La domanda può avere più di una risposta, di qui la difficoltà di basarsi sui certificati di morte.
In ogni caso, sempre secondo l’ISS, ogni anno (in pratica ogni inverno) muoiono d’influenza in Italia circa 8.000 persone. Ma dipende dagli anni. Uno studio pubblicato nell’International Journal of Infectious Diseases stima che nei quattro inverni dal 2013-14 al 2016-17 in Italia ci sia stato un totale di un po’ più di 68.000 morti per influenza, con più di 20.000 nell’inverno 2015-16 e quasi 25.000 nell’inverno 2016-17. E nella primavera del 2017, riportando la stima dell’allora presidente dell’ISS, un articolo di Repubblica titolava: L’anno nero dell’influenza: “Morti ventimila anziani in più”.
7. Lascio in nota, per chi volesse, qualche appunto sulla possibilità o meno di raffrontare le stime dei decessi a causa dell’attuale epidemia con quelli delle ondate influenzali degli anni scorsi2.
Per quanto mi riguarda, mi ha colpito il tono leggero se non divertito con cui un telegiornale del gennaio 1970 (su youtube in cui si può vedere manca la data precisa) dà notizia di una influenza che aveva fino a quel momento contagiato 13 milioni di italiani (uno su quattro), con strade fabbriche uffici mercati “mezzi vuotati”, messo a dura prova gli ospedali (“doppi letti negli ospedali”), “e cinquemila sono passati a miglior vita” (oggi si stimano invece ventimila decessi). E per rimanere alle cose che mi hanno colpito, quel titolo di “Repubblica” del 2017 che ho citato (L’anno nero dell’influenza: “Morti ventimila anziani in più”) sarebbe stato possibile nel 1970?
In altre parole, che cosa è cambiato dal 1970 a oggi nel modo in cui in Italia (e probabilmente nel mondo) reagiamo a una epidemia? Conta qualcosa la simultaneità planetaria della diffusione del Coronavirus (l’influenza dell’inverno 1969-1970 era iniziata a Hong Kong un anno e mezzo prima)? E conta, almeno in Italia e in Europa, l’aumento dell’aspettativa di vita?
Ancora più curioso: perché i ventimila decessi causati dall’influenza del 2017 non hanno provocato l’allarme sociale che oggi quei dati causerebbero (19.996 morti da coronavirus in data oggi 16 aprile 2020)? Forse perché nel 2017 i decessi venivano attribuiti al fatto che pochi anziani si erano vaccinati (allora il vaccino era disponibile)? Può essere cioè che la cifra dei 20.000 morti tre anni fa non venisse usata per impaurire tutti indistintamente, bensì per convincere le persone anziane a una vaccinazione di massa: e che per questo il messaggio sembrasse alla fine rassicurante tanto da far dimenticare il numero assoluto dei morti, su cui oggi invece viene concentrata l’attenzione.
8. Sarebbe utile conoscere i dati di mortalità in generale (tot decessi su tot popolazione in tot periodo), cercando di capire nel nostro caso se il totale dei decessi del primo trimestre del 2020, con le restrizioni e i divieti di mobilità, sia superiore, uguale o inferiore a quello dei corrispondenti periodi degli anni scorsi, tenendo conto (non io, ma chi è del mestiere) delle residenze per anziani, dei reparti ospedalieri, della densità abitativa, dell’inquinamento ambientale, dell’età e del genere, della professione e così via.
Interessanti i dati relativi alla provincia di Treviso riferiti dal Corriere del Veneto (Silvia Madiotto, Treviso, morti in ospedale in linea con gli anni scorsi. “Non nascondiamo nulla”, “Corriere della Sera” pagine “Corriere del Veneto. Venezia e Mestre”, 1 aprile 2020, p. 3): al 1 aprile il numero dei decessi negli ospedali dei primi tre mesi del 2020 è “in linea con quello degli anni scorsi”; il dato viene confermato dalla società che ha in gestione l’appalto dei cimiteri “in buona parte” della provincia di Treviso, secondo cui sepolture e cremazioni dal 1 gennaio al 24 aprile 2020 a Treviso e Montebelluna sono sostanzialmente gli stessi degli anni precedenti (le cifre in S[ilvia] Ma[diotto], A Treviso sepolture e cremazioni sono in linea con gli anni scorsi: “Non risultano aumenti sensibili”, “Corriere della Sera”, pagine “Corriere del Veneto. Treviso-Montebelluna”, 26 aprile 2020, p. 9). È un campione molto ristretto, ma è uno dei dati che mi sarei aspettato ci venisse fornito via via nelle settimane scorse: ora si tratta di interpretarlo, e di estendere l’indagine ad altre aree geografiche.
Per il Veneto ho trovato però solo dati relativi ai decessi annuali, che nel periodo 2000-2017 vanno dai 41.000 circa ai 49.000, quasi tutti per tumore, in Relazione socio-sanitaria della Regione del Veneto (Anno 2019, dati 2017-2018) (p. 22).
Quanto ai dati nazionali, l’Istat ha da poco comunicato i dati sui decessi nel periodo 4 gennaio-4 aprile 2020 rispetto al dato medio dello stesso periodo degli anni 2015-2019, però ha concentrato l’attenzione su un piccolo gruppo di Comuni che presentano almeno dieci decessi in tutto il periodo, e che hanno fatto registrare un aumento dei morti pari o superiore al 20% rispetto al dato medio dello stesso periodo degli anni 2015-2019, concentrandosi in sostanza sui focolai del contagio. Il risultato è mostrare un’impennata delle morti nella bergamasca, ma escludere dall’analisi le altre zone. Quando potremo avere dati più precisi? Ci vuole tempo: “a dicembre 2019 sono state prodotte le statistiche di mortalità relative ai decessi verificatisi nel 2017, entro la fine del 2020 verrà diffuso il dato relativo al 2018”.
La difficoltà di interpretare i dati sarà cruciale anche nel momento di fare bilanci: il confinamento è stato utile? Quanto ha pesato per esempio la conseguente diminuzione di incidenti stradali e di morti sul lavoro? Dall’Organizzazione Mondiale della Sanità sono già arrivati elogi agli Stati che hanno applicato il distanziamento sociale e la quarantena, perché avrebbe effettivamente evitato l’epidemia. Ma “quanta” epidemia avrebbe evitato? La discussione diventa più complicata perché i dati si confrontano con una curva di previsione, ma come facciamo a sapere quanto la curva sia “giusta”?
9. Perché abbiamo bisogno di elementi di fatto, e in tempi più rapidi? Per decidere – mi scrive un amico con cui ho discusso di queste cose – se quello che stiamo attraversando è un’epidemia nel senso proprio (dalla peste alla Spagnola), oppure non sia “una impasse tragica (tutto quel che si vuole) che ha rivelato una delle fragilità maggiori dei sistemi sanitari industriali (detti nazionali), considerando naturalmente le differenze tra i vari casi regionali”.
“C’è un punto – continua il mio amico – sul quale vorrei essere persuaso che sto sbagliando. Un conto è un’epidemia un altro un errore di progettazione. Davvero avere una stima realistica dei decessi verificatisi nel trimestre mortifero è un dato inutile? Non potrebbe essere invece utile ai decisori per rivedere le stime su quanti è bene che siano i presidi per favorire la respirazione ogni mille abitanti? Quelli in essere all’inizio del 2020 il meno che si possa dire è che erano inadeguati”. Insomma – conclude l’amico – quello che ci dobbiamo chiedere è se il numero di morti attribuite al Covid “non misuri altro che l’inadeguatezza dei presidi di sanità industriale a fronte del numero dei contagiati: in altre parole, le postazioni di terapia intensiva come vengono distribuite sul territorio? sulla base di quali rapporti tra letti disponibili e abitanti? fondandosi su quali serie statistiche?”.
Certo, non esistono fenomeni “naturali” che non siano strettamente correlati al sistema sociale in cui si sviluppano. Vedo per esempio sul Guardian che da una prima indagine in Gran Bretagna i “non bianchi”, che rappresentano il 13% della popolazione, risultano essere il 35% dei malati gravi da Coronavirus. Proprio per questo non possiamo guardare ai numeri relativi al comportamento del virus, come se questo non riguardasse in primo luogo le strutture sanitarie e le politiche che le governano. Le cose da ripensare riguardano più in generale le condizioni di vita, ambientali eccetera: ma farsi una domanda alla volta potrebbe aiutare a trovare la risposta.
Sarebbe una questione da mettere in agenda per la fase 2, e l’annunciata “convivenza con il virus”. E, dal momento che servono a prendere e giustificare misure pubbliche, sarebbe il caso che i dati e i numeri fossero discussi, criticati e valutati in pubblico, senza essere ridotti a “storie” (che possono essere, a seconda, “di paura” o “edificanti”) raccontate a un pubblico televisivo.
PS A proposito di storie, scrivendo questi appunti ho pensato anche alle possibili conseguenze dell’epidemia da coronavirus sugli studi di storia. Giusto per non sottrarmi all’arte divinatoria, ecco dieci previsioni.
1. In un primo periodo niente più appelli sull’utilità della Storia.
2. In un secondo momento gli appelli abbandoneranno la politica del Novecento (nazismo in primis) a favore della storia delle epidemie.
3. Forte flessione della domanda di Public History legata a marketing territoriale, musei, sagre ed eventi pubblici.
4. Torna di moda la Storia quantitativa dopo anni di discredito.
5. I manuali di storia per le scuole, messi sotto accusa non più perché c’è poco spazio per Resistenza, foibe, colonialismo italiano, ecc., ma per il poco spazio dedicato alla Spagnola, si adegueranno.
6. Raccolta di firme per introdurre a scuola nell’orario settimanale un’ora di Statistica.
7. Competenze legate alla network analysis + conoscenze informatiche abbandoneranno la Microstoria e la Demografia storica per essere richieste nei gruppi di ricerca che sviluppano app per il controllo sanitario della popolazione.
8. Le tesi di laurea basate solo su notizie recuperabili online (causa l’attuale chiusura delle biblioteche e degli archivi) diventeranno normali.
9. Pausa (momentanea) dei discorsi secondo cui gli storici sono avvantaggiati dal fatto di conoscere la conclusione delle vicende: l’esperienza di questi momenti insegna infatti, se mai ce ne fosse stato bisogno, che non si può capire un periodo storico se non si capisce l’incertezza che lo contraddistingue.
10. Gli appassionati e le appassionate di Storia troveranno nei fatti di cronaca di questi ultimi tre mesi molti spunti per capire meglio situazioni simili nel passato: per esempio come “la crisi del consenso” può nascere per code davanti a negozi e distribuzioni mal organizzate, o altre vicende come la caccia all’untore che in un altro momento sarebbero parse bizzarre.
Tavolo con il computer in camera con uso di finestra, 15-26 aprile 2020
- Il bollettino dell’ISS su “Caratteristiche dei pazienti deceduti positivi all’infezione da SARS-CoV-2 in Italia”, emanato il 13 aprile 2020 e relativo a un campione di 18.641 pazienti, conclude che il 61,6% dei pazienti aveva 3 o più “patologie croniche preesistenti”, e che solo il 3,3% dei pazienti presentavano 0 patologie: negli altri casi i pazienti presentavano 1 (13,8%) o 2 patologie (22,8%) (https://www.epicentro.iss.it/coronavirus/sars-cov-2-decessi-italia). Ho visto che è una faccenda ben conosciuta nel caso di virus influenzale. Stando all’ISS infatti, “spesso il virus influenzale aggrava le condizioni già compromesse di pazienti affetti da altre patologie (per esempio respiratorie o cardiovascolari) fino a provocarne il decesso”, ragione per la quale “spesso il virus influenzale non viene identificato o perché non ricercato o perché il decesso viene attribuito a polmoniti generiche” (https://www.epicentro.iss.it/influenza/sorveglianza-mortalita-influenza). [↩]
- Nell’aggiornamento in data 16 aprile 2020 alle ore 16, l’ISS comunica che i dati dei decessi collegati al Coronavirus in Italia sono fino a quel momento 19.996. Dovremmo comparare i decessi fin qui attribuiti al contagio da Coronavirus con quelli attribuiti alle influenze degli anni scorsi? Molto difficile, date le avvertenze di metodo sottolineate dall’ISS. E poi, si può fare un confronto tra un periodo in cui vigono misure di distanziamento sociale e uno in cui ci si muove liberamente? No. O almeno bisognerebbe fare stime tra qualche tempo, a maggior ragione se fosse vero che gli individui guariti possono tornare positivi al contagio; e tanto più se, come leggo riferisce un articolo di Science, “L’isolamento potrebbe determinare una minore immunizzazione della popolazione, con la conseguenza di avere ugualmente un picco – nel momento in cui vengono eliminate le restrizioni – simile a quello che si sarebbe ottenuto senza interventi”, citato dal Post che rinvia a Kissler et al., Projecting the transmission dynamic of SARS-COV-2 through the postpandemic period, “Science”, 2020). Naturalmente, dato che i morti per coronavirus si concentrano soprattutto in alcune aree della Lombardia, un totale nazionale non avrebbe senso: tanto più in quanto le attuali modalità di rilevazione sono così disparate. [↩]
Piero Brunello dice
Caro Carlo, grazie del commento. Ci sono le domande che si fanno in prospettiva storica (non saprei come guardare alla realtà se non così) e quelle che si fanno da cittadino contribuente. Da cittadino contribuente, la prima domanda da farsi, credo, è quella formulata nello scambio con l’amico esposto al punto 9. Un caro saluto, Piero
Carlo Cappellari dice
Caro Piero, ho letto tre volte il tuo articolo, una per il gusto di leggerti che per me è sempre piacevole, due per capire come ragiona uno storico alle prese con una vicenda che storica lo è, sempre che ci sia qualche vicenda che storica non è, e il terzo per fare il conto delle domande che vi sono formulate (34 in tutto, una nel cappello, 31 nel testo e due in nota 2). Le 34 domande non hanno risposta in 29 casi, ce l'hanno negativa in 3 e dubitativa in 1 caso. Il succo del discorso è quindi che abbiamo moltissime domande e quasi nessuna risposta. Ho letto anche che a fronte di tante domande c'è un solo modo di procedere che citandoti sarebbe: "farsi una domanda alla volta potrebbe aiutare a trovare la risposta". E allora quale potrebbe essere la prima domanda? Basi grandi e grati Carletto