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Un bene comune non è uno spazio vuoto: il campo di calcio del Real San Marco.

31/05/2023

di Paola Sartori

Paola Sartori presenta, attraverso testimonianze e dati quantitativi, il valore civico del progetto di Villaggio San Marco elaborato dagli architetti Luigi Piccinato, Giuseppe Samonà, Egle Renata Trincanato e la funzione sociale dello spazio, vincolato dal progetto a verde pubblico, dove per decenni si è allenato il Real San Marco e dove ora la Giunta del Comune di Venezia, con una variante urbanistica al piano, ha dato il via libera alla costruzione di una Torre ad uso commerciale ed abitativo, togliendo un bene pubblico alla città.   

L'intervento continua l'analisi storica di questo spazio conteso, avviata nel sito dalla lettera di Lucia Gianolla, dagli interventi all’assemblea pubblica del 3 maggio 2021 che si è opposta al progetto di Torre in quanto priverebbe il quartiere e la città di uno spazio pubblico dove poter sviluppare relazioni sociali e dall'articolo di Piero Brunello, Quartieri invisibili, città immaginate. Considerazioni a partire dall’assemblea del Villaggio San Marco, (3 maggio 2021).

 

 

In questi ultimi mesi molte sono le questioni che fanno discutere i cittadini della terraferma veneziana e soprattutto di Mestre: dai problemi legati allo spaccio di eroina e alla sicurezza variamente intesa, fino a quelli inerenti l’idea urbanistica e sociale di città: dal Buco dell’ex ospedale Umberto Primo1, alla bocciatura europea per il finanziamento, via fondi PNNR, del così detto Bosco dello sport alla prospettata Torre del Villaggio San Marco.

Sono temi non nuovi per la città, che facilmente riportano alla mente altri interventi drasticamente problematici, tipo l’abbattimento in una notte del Parco Ponci2. L’idea che ha dominato la Mestre del secondo dopoguerra sembra permanere a dispetto di ogni cambiamento culturale, sociale ed economico: un territorio da “occupare” perché privo di significatività, storia e memoria e chissà, forse allora, anche di significative interlocuzioni da parte dei suoi cittadini.

Rispetto alla seconda metà del Novecento però oggi, a Mestre, le prese di posizione di diversificati gruppi di cittadini non sono mancate soprattutto relativamente al progetto di costruire una Torre di 70 metri, poi ridotti a 60, nel bel mezzo del Villaggio San Marco, considerato che, come ben scriveva Piero Brunello in questo sito, “Il campo su cui un costruttore ha messo gli occhi per costruire una torre di oltre 70 metri, con l’appoggio della Giunta comunale di Venezia, non è uno spazio vuoto e quindi da edificare, bensì un’area pensata per il quartiere fin dal progetto costitutivo del Villaggio San Marco nei primi anni Cinquanta del Novecento”3. Si tratta infatti di un terreno destinato a “verde” che l’INA Casa, nel 1973, concede in rapporto di occupazione d’area alla società calcistica Real San Marco, sorta nel 1959 e che da qualche anno perseguiva il “sogno proibito” di avere un campo nel quartiere. Infatti fino ad allora i giocatori avevano utilizzato per gli allenamenti, cambiandosi sotto i tralicci dell’Enel, il così detto campo ex Domenichelli, situato in quella che oggi è via Sansovino, bretella che collega Viale San Marco a Viale Ancona. Per le partite casalinghe di campionato (terza o seconda categoria) la società, con le sue varie squadre, era costretta a peregrinare in diversi campi della provincia di Venezia 4.

Prime partite del Real San Marco nel campo Bellio cintato da una corda.

La vicenda di questa prospettata Torre si intreccia variamente con altre mie lontane ricerche ed esperienze. Da un lato mi torna la memoria di alcune ricerche fatte alla fine degli anni Ottanta proprio sul Villaggio San Marco e i processi di inserimento e integrazione dei suoi primi abitanti, pubblicate nel volume La città invisibile. Storie di Mestre5. Dall’altro non posso non ricordare le mie esperienze giovanili, dalla metà degli anni Settanta alla metà anni Ottanta, con le attività e i gruppi che ruotavano proprio attorno al campo di calcio “E. Bellio” del Real San Marco e alla funzione sociale che la presenza della società calcistica, con le sue diverse squadre, ha svolto, in primis per gli abitanti del Villaggio, ma anche per molti altri ragazzi provenienti da diverse zone della città.

Provo quindi a mettere a fuoco alcuni elementi che, a mio parere, rinforzano la rappresentazione che lo spazio di quel campo di calcio, attualmente in disuso perché in attesa di bonifica, non è un “vuoto” che si possa riempire con edifici più o meno alti, ma uno “spazio potenziale” che dovrebbe svolgere la funzione sociale di incontro, scambio e reciproca conoscenza per cui allora era nato e di cui l’oggi, così frammentato e a rischio disgregazione, tanto necessiterebbe per la vita quotidiana dei residenti nel Villaggio, ma anche nell’intera città.

Senza voler tornare sul valore urbanistico del Villaggio San Marco e del progetto elaborato e realizzato allora da Piccinato, Samonà e Trincanato, che altri hanno già ricordato e illustrato, vorrei soffermarmi su come il Villaggio sia stato il primo progetto locale dichiaratamente pensato, e poi costruito, con l’obiettivo di accogliere e integrare nello stesso contesto abitativo persone e famiglie di diverse provenienze.

Molte sono le aree di Mestre e di Marghera sorte negli anni Sessanta e Settanta per dare “casa” ai lavoratori che arrivavano qui per lavorare e alle loro famiglie. Tuttavia nessun altro quartiere è stato progettato pensando ad una struttura urbanistica che metta al centro la vita extralavorativa delle persone, per favorire scambi sociali quotidiani, per sostenere la reciproca conoscenza e l’integrazione, per vivere meglio insieme. Era esplicita, nel progetto, la presenza di spazi intesi come “beni comuni”: un quartiere composto di piccoli nuclei detti “corte” quale prosecuzione della casa all’aperto per favorire così l’integrazione con gli altri, permettere che gli abitanti si riconoscano, si ritrovino all’aperto e vivano assieme6.

L’obiettivo di supportare, attraverso l’impianto urbanistico, i processi di conoscenza e socializzazione tra chi sarebbe andato ad abitare, non era, e non è nemmeno oggi, irrilevante se guardiamo alla provenienza di coloro che per primi tra il 1954 e il 1957 sono andati ad abitare al Villaggio: nelle sole corti femminili e maschili e in piazza Canova, vivevano circa 2400 unità pari a 527 nuclei familiari distribuiti in 492 numeri civici. Una popolazione il cui 38,5% era costituito di bambini e ragazzi di età inferiore ai 14 anni, giusto per dare un significato alla presenza di spazi come quello del campo di calcio.

Se guardiamo, poi, alle provenienze territoriali dei primi abitanti scopriamo che il 40% dei capifamiglia indica come luogo di nascita Venezia-estuario, il 23% Mestre-terraferma, ma un non trascurabile 37% proviene da territori vari tra cui la campagna trevigiana, il sud, altre regioni d’Italia e l’ex Jugoslavia. Provenienze extra territoriali di persone di non recentissima immigrazione, stante che circa l’88 di questi risultava presente già da qualche tempo nel comune di Venezia. Presenza che però non impedisce che “le diverse abitudini di vita, acquisite precedentemente in paese oppure in città, contribuiscano a rendere più eterogeneo il quartiere”7. Eterogeneità confermata anche dai dati relativi al profilo occupazionale dei capifamiglia che a fronte di un 75% di occupati nell’industria mostra un, comunque significativo, 25% di occupati nel terziario.

Trovo assai interessante che questa eterogeneità sia stata pensata e ritenuta un’opportunità fin dalla progettazione del quartiere, perché la storia successiva non solo di Mestre, ma sicuramente italiana ed europea, evidenzia il rischio di inserimenti monoculturali nello stesso quartiere e/o condominio come avvenuto nei decenni successivi. Se intendiamo per cultura non solo le provenienze territoriali/nazionali, ma anche le culture di appartenenza sociale, gli inserimenti monoculturali hanno prodotto isolamento, ghettizzazione e non di rado fenomeni di scontro tra il “dentro” e il “fuori”.

Mi chiedo se si possa imparare qualcosa dalla storia. Aver pensato, allora, di poter accompagnare i processi di interazione e integrazione sociale anche attraverso una scelta urbanistica orientata all’incontro, rappresenta un esempio assai evoluto di intervento di edilizia pubblica. Sottolineo il piano della struttura urbanistica, perché poi, come hanno variamente testimoniato i primi abitanti, il processo di sviluppo di strade, servizi, scuole non è stato rapido e ha causato non pochi disagi alla popolazione, che però ha potuto viverli come “necessari” al processo di crescita umana e sviluppo lavorativo. In questa situazione di disagio, in cui c’erano paludi e dune al posto del viale San Marco e acqua e fango nella stagione invernale, viene in soccorso la struttura urbanistica del quartiere che offre un luogo che privilegia il rapporto con gli altri, almeno con i vicini: la corte rappresenta innanzitutto il luogo di gioco per eccellenza, vissuto dalle madri come posto sicuro, tranquillo dove lasciare i figli, che diventava motivo per gli adulti di sedersi fuori della porta di casa e chiacchierare così tra vicini: “ci si sedeva fuori, seduti sui gradini, si stava fino a mezzanotte, fino a che giocavano, a volte si giocava insieme, altrimenti si stava qua, si ciacolava, si passava la sera…..Con l’arrivo della televisione in alcuni casi la corte diventa un prolungamento della casa che possiede l’apparecchio: andavamo là la sera, con i scagnei, ci sedevamo fuori della porta, perché la mettevano in entrata la televisione”8.

Quel progetto urbanistico aveva pensato anche ad un altro “bene comune”: uno spazio verde che sarebbe potuto diventare ulteriore luogo di incontro e scambio e che, divenuto campo di calcio, ha in effetti esercitato la sua funzione per decenni. Il campo, che si trova nel mezzo del territorio definito complessivamente Villaggio San Marco, fa parte di una zona che comprende la chiesa, il patronato, l’asilo nido, la scuola dell’infanzia, il servizio adolescenti, e la ex sede del quartiere ora sede di ambulatori medici, servizi sociali e spazi associativi, configurando un territorio “di passaggio” tra le corti del Villaggio e i Quartieri San Teodoro e Aretusa, dedicato all’incontro sociale, alla crescita dei più piccoli e dei più giovani.

Quell’area verde ha radunato gruppi di diverse età, dai piccoli pulcini alla prima squadra, passando per i giovanissimi, gli esordienti, gli allievi, favorendo con l’attività sportiva la crescita, il confronto, l’uscita dall’isolamento, l’autostima, l’acquisizione delle regole sociali. Ma soprattutto, all’interno delle squadre dei più giovani, ha permesso a ciascun ragazzo di sperimentare la convivenza tra diversi. Diversi perché il campo ha accolto non solo abitanti del Villaggio, ma molti ragazzi provenienti da diverse zone cittadine, compreso negli anni Novanta il campo di accoglienza dei Rom kossovari di San Giuliano.

Tutti ugualmente desiderosi di giocare, seppur differenti tra loro per contesti di vita: da quelli più consueti della classe operaia, a coloro che venivano da famiglie in condizioni di disagio, fino a quelle con genitori insegnanti o dirigenti. Durante gli allenamenti e le partite, avvenivano incontri e scambi, in primis tra ragazzi, ma anche tra gli accompagnatori adulti. Confronti che talvolta diventavano anche scontri, soprattutto tra gli adolescenti, ma che, se ben guidati dagli allenatori, potevano rappresentare un’occasione di sperimentare le possibilità evolutive, individuali e collettive, insite nei conflitti così detti “costruttivi”.

Ecco perché, quando un paio di anni fa si è saputo del progetto di costruire una Torre ad uso commerciale ed abitativo facendo una variante urbanistica al piano che vincolava lo spazio “a verde”, sono rimasta interdetta.

Da anni si aspettava una bonifica che avrebbe permesso di riprogettare uno spazio ad uso sociale per gli abitanti non solo del quartiere, ma dell’intera città, stante la favorevole ubicazione territoriale dello spazio che ora si trova proprio sulla strada che collega il centro cittadino al parco di San Giuliano, affiancata da una preziosa pista ciclabile.

Forse ingenuamente, forse a causa del mio impegno nei servizi sociali per l’infanzia e l’adolescenza, avevo pensato che sarebbe stato riprogettato uno spazio ad uso sportivo nuovo, magari attraverso un processo di co-progettazione con bambine e bambini, ragazze e ragazzi, giovani e adulti, quasi a compensazione dei molti spazi che sono stati via via soppressi nel centro cittadino.

Il ripetersi di logiche del passato credo sia da considerarsi non rispondente alle attuali esigenze dei cittadini, se non pericoloso. Il lavoro socio-culturale realizzato in città negli ultimi decenni può fungere da base per capire quali siano davvero i bisogni delle nuove generazioni e quali siano gli spazi sociali, ricreativi e di incontro utili agli abitanti di diverse età per sostenerli nel diventare, insieme, cittadini del mondo di oggi.

Che dire? Credo che spetti non solo agli abitanti del Villaggio San Marco mostrare l’importanza di bonificare lo spazio verde e di riprogettarlo a uso dei cittadini, ma a tutta la città e soprattutto a chi potrebbe variamente contribuire ad evidenziare l’importanza urbanistica, storica e sociale di quel territorio. Un territorio che va valorizzato e non stravolto, che andrebbe attualizzato sulle esigenze degli abitanti che non sono, evidentemente, quelle rappresentate dalla costruzione di una Torre di 60 metri ad uso commerciale e residenziale di lusso.

NOTE

1 Si veda in questo sito, 9 maggio 2023, l’articolo di Claudio Pasqual: La chiesetta dell’ex ospedale Umberto I rivive nel “buco nero” di Mestre.

2 La distruzione del parco Ponci in una notte viene raccontata da Stefano Pittarello, in Il sacco bello, CLEUP 2017.

3 Piero Brunello, Quartieri invisibili, città immaginate. Considerazioni a partire dall’assemblea del Villaggio San Marco, (3 maggio 2021), pubblicato su questo sito nella primavera del 2021.

4 Informazioni tratte dal fascicolo 1959-2009 Real San Marco, 50° anniversario- Protagonisti nella storia del calcio a Venezia, redatto a cura di Franco Landi nel 2009.

5 La città invisibile. Storie di Mestre. Atti del Convegno 25-27 marzo 1988 realizzato da storiAmestre in collaborazione con Mce, a cura di D. Canciani, Arsenale, Venezia 1990 . Atti che presentano interventi di P. Brunello, S. Barizza, G. Sarto, F. Piva, M. Mosena Zanin, D. Canciani, R. Blasi Burzotta, C. Puppini, G. Facca, P. Sartori, R. Pellegrinotti, M. T. Sega.

6 P. Sartori, “ I primi anni del Villaggio San Marco”, in La città invisibile. Storie di Mestre, Arsenale Venezia 1990, pg.107.

7 Ibidem, p.109.

8 Ibidem, p.111.

Archiviato in:La città invisibile, Paola Sartori, Senza categoria Contrassegnato con: bene comune, Mestre, urbanistica, Villaggio San Marco

Affissione consentita. Il Primo Maggio degli anni Settanta.

01/05/2023

Di Walter Cocco

 

In occasione della festa del Primo Maggio il nostro socio Walter Cocco ha selezionato e fatto una lettura di alcuni manifesti presenti nel CD Rom: Affissione Consentita 40 anni di manifesti dall’Italia e dal mondo, pubblicato nel 2007 a cura di storiAmestre e del Centro di Documentazione della città contemporanea. Si tratta – come recita l’introduzione del CD Rom – di una collezione di circa quattrocento manifesti urbani, la gran parte dei quali proviene dal fondo “Maurizio Antonello”, a cui sono stati aggiunti altri manifesti tratti dall’Archivio Comunale di Venezia, la Celestia, e dalla raccolta privata di Giorgio Sarto.

 

 

IL CD Rom Affissione Consentita 40 anni di manifesti dall’Italia e dal mondo, pubblicato nel 2007 a cura di storiAmestre e del Centro di Documentazione della città contemporanea,1 è una preziosa raccolta di immagini che ha comportato un complesso lavoro di digitalizzazione e catalogazione dei manifesti2 che coprono un arco di tempo che va dagli anni Cinquanta sino agli anni Novanta del Novecento. Gli autori sono per la maggior parte istituzioni italiane e straniere, partiti e movimenti politici attivi nel quarantennio citato e le immagini ed i testi in essi contenuti sono diversi a seconda del momento della loro apparizione.

Come viene ricordato nel CD Rom il manifesto è un prodotto popolare, è vincolato al contingente, al “qui e ora”, esso è destinato ad apparire sui muri di palazzi, scuole e fabbriche per qualche giorno per poi essere strappato o ricoperto da altri manifesti. Per questo molto spesso – se non riporta una data – la sua collocazione temporale può avvenire soltanto attraverso una attenta analisi del testo o delle immagini in esso contenuti. Per le sue caratteristiche “non è affatto frequente che il manifesto sia raccolto e conservato, anche per l’ingombro che crea. Per propria natura ha un uso limitato nel tempo, una volta affisso porta una data di scadenza, si degrada facilmente esposto com’è a lacerazioni e intemperie, si stinge, si usura e nella stragrande maggioranza dei casi diventa la base per nuovi manifesti da sovrapporre”. Ed è proprio per questo che il CD Rom Affissione Consentita ha un importante valore di recupero documentario e valorizza una parte del patrimonio archivistico custodito dal Centro di Documentazione della città contemporanea che, oltre al Fondo Antonello, ospita anche l’archivio privato di Giorgio Sarto da cui provengono alcuni dei manifesti recuperati.

“Sfogliando” il Cd Rom abbiamo pensato che un buon modo per celebrare il Primo Maggio fosse riproporre alcuni manifesti sul Primo Maggio di cinquant’anni fa.

I manifesti che proponiamo sono cinque, in buona parte apparsi il 1 maggio 19733.

I primi tre sono i manifesti istituzionali per la celebrazione del Primo Maggio dei tre grandi partiti di massa dell’epoca: Democrazia Cristiana, Partito Socialista Italiano, Partito Comunista Italiano. Sono manifesti destinati all’affissione su tutto il territorio nazionale per la festa dei lavoratori, manifesti di celebrazione, scarni, con poche parole e nessun riferimento specifico all’agenda politica del momento.

 

 

Quello del Psi non ha testo, solo 1 maggio, un pugno con un garofano rosso ed il simbolo del partito. Il garofano rosso era uno dei simboli ricorrenti della festa del Primo Maggio in quegli anni, era costume diffuso andare in piazza con un garofano all’occhiello della giacca. Nel manifesto PSI, l’adesione alla festa dei lavoratori viene affidata alla sola immagine, nient’altro.

 

 

 

 

 

Il manifesto del PCI si affida invece alla replica di figure operaie che evocano una estetica da realismo sovietico e poche parole: Nell’unità dei lavoratori la garanzia di vittoria nella lotta per le riforme, per la democrazia, per la pace.

 

 

 

Il manifesto della DC mostra sullo sfondo una manifestazione in cui sventolano solo bandiere scudocrociate (che ricorda più un raduno del fronte anticomunista del 1948 che una manifestazione operaia) e in basso la frase: continua nella libertà l’azione dei lavoratori per il progresso della società italiana.

 

 

 

 

Gli ultimi due manifesti, invece, sono di produzione locale, prodotti con mezzi artigianali, non a stampa, da organizzazioni della sinistra rivoluzionaria, ovvero da quelle organizzazioni nate sull’onda del movimento studentesco e operaio nel biennio 1968-1969.

 

Il primo è firmato Fronte unito per il socialismo, l’immagine riproduce operai che incrociano le braccia, una dichiarazione di sciopero, e vi sono una serie di parole d’ordine che definiscono gli obbiettivi dell’organizzazione, dalle piattaforme sindacali al socialismo: per la difesa e lo sviluppo dell’occupazione; per il ribasso dei prezzi e delle tariffe pubbliche; per un governo popolare senza la DC; per il pieno raggiungimento delle piattaforme contrattuali; per l’Internazionalismo proletario e per il Socialismo.

 

 

Infine l’ultimo manifesto è di sole parole, un dazebao per la convocazione della manifestazione unitaria della sinistra rivoluzionaria del 1 maggio a Mestre, un manifesto sottoscritto da: Lotta Continua, Avanguardia Operaia, Organizzazione Comunista m – l fronte unito, Partito Comunista m – l Italiano. Le parole d’ordine sono: per un 1 maggio di lotta; per l’internazionalismo proletario contro l’imperialismo; per le lotte operaie popolari e studentesche contro il carovita, la ristrutturazione, la repressione; contro i padroni, il governo Andreotti, i fascisti. Anche qui il riferimento a lotte in agenda e obbiettivi più ampi.

 

 

Nel 1973 il mondo del lavoro – il movimento operaio come si diceva allora – gode ancora di buona salute, ha ancora una certa forza all’interno della grande industria metalmeccanica e chimica, la capacità di mobilitazione esplosa nel corso dell’autunno caldo non è venuta meno, il sindacato dei consigli può ora contare sulla legittimazione dello Statuto dei Lavoratori, approvato nel 1970 e proprio nel 1973 si affermerà per i lavoratori il diritto allo studio con l’avvio dei corsi delle 150 ore. La volontà di cambiamento generata dalle lotte nelle scuole, nelle università, nelle fabbriche non ha ancora esaurito la sua spinta propulsiva come si vedrà negli anni immediatamente successivi, anche se nell’autunno dello stesso anno affioreranno alcuni segnali negativi: l’11 settembre il governo di Unidad Popular di Salvador Allende, nato dalla vittoria alle urne, verrà violentemente stroncato dal golpe militare guidato da Augusto Pinochet. La fine del governo di Allende avrà importanti ripercussioni sulla politica italiana, il segretario del PCI Enrico Berlinguer prenderà spunto proprio dalle vicende cilene per lanciare la proposta di compromesso storico. Sempre nell’autunno 1973 gli esiti della guerra del Kippur porteranno i paesi produttori di petrolio (OPEC) a ridurre le estrazioni di greggio e ad aumentare i prezzi del petrolio innescando una crisi energetica che avrà gravi conseguenze sulle economie occidentali, metterà fine al periodo di crescita economica e darà il via ai processi di ristrutturazione industriale del modello fordista. Ciò detto, gli effetti negativi di questi eventi sulle lotte del mondo del lavoro tarderanno ancora qualche anno a manifestarsi, anzi la clamorosa vittoria del referendum sul divorzio dell’anno successivo, l’avanzata delle sinistre alle amministrative del 1975 e alle politiche del 1976, l’approvazione di importanti riforme quali il nuovo diritto di famiglia e la nascita del sistema sanitario nazionale, la conquista sul fronte sindacale del punto unico di contingenza sembrano i segnali di un profondo cambiamento avvenuto nella società in maniera irreversibile. Purtroppo sappiamo che non è stato così.

Buon Primo Maggio a tutti.

 

1 Il CD Rom Affissione Consentita è stato ideato dalla compianta Maria Luciana Granzotto e da Claudio Zanlorenzi e alla sua realizzazione hanno collaborato: Maria Luciana Granzotto, Angelo Nordio, Chiara Puppini, Mirella Vedovetto, Claudio Zanlorenzi, Claudio Pasqual, Rodolfo Marcolin e Adriano Meneguzzi.

2 Cfr. Introduzione al Cd Rom: “Ogni manifesto è corredato da una scheda che fornisce informazioni essenziali (l’anno, la fonte, la tipografia, l’oggetto o argomento, il titolo, la proprietà, le dimensioni)”.

3 Del 1 maggio 1973 sono sicuramente il manifesto del PSI, quello del Fronte Unito per il socialismo e quello della manifestazione unitaria di Mestre. Incerta invece la datazione del manifesto del PCI, è sicuramente degli anni Settanta ma non è certo che si riferisse allo stesso anno. Infine abbiamo voluto inserire anche il manifesto della DC che è del 1978; anno in cui il clima nelle fabbriche e nelle piazze sta già cambiando. Siamo in pieno rapimento Moro, qualche giorno dopo, il 9 maggio, il suo cadavere verrà trovato in via Caetani. Tuttavia della vicenda nel manifesto non vi è alcun riferimento. È un manifesto in cui il carattere “neutrale” del testo è tale che potrebbe essere stato utilizzato anche per il 1 maggio di un anno diverso da quello di edizione.

 

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Dischi e volantini. Primo appuntamento con “Carte scoperte”, 22 febbraio 2022

19/02/2022

di sAm

Martedì 22 febbraio 2022, dalle 16 alle 19, avrà luogo il primo incontro del ciclo Carte scoperte. La comunicazione pubblica prima di internet (per una presentazione generale del programma, cliccare qui).

Nella sede dell’Università Ca’ Foscari a Mestre (via Torino, Aula Zanetto) si discuterà di un disco di propaganda politica (un 45 giri di Renato Rascel prodotto dalla Democrazia cristiana) e di volantini degli studenti dell’istituto Giordano Bruno di Mestre (1977-78). 

La prima parte dell’incontro sarà curata da Francesca Endrighetti con Ludovico Palazzo, la seconda da Claudio Pasqual e Stefano Sorteni con Maria Adele Allegro.

Attenzione: gli incontri sono pubblici, ma i posti limitati; per partecipare il 22 febbraio è necessario prenotare scrivendo al prof. Alessandro Casellato: casellat(at)unive.it

Copertina del 45 giri di Renato Rascel a cura della SPES-DC – Volantino del Collettivo comunista G. Bruno (27 gennaio 1978)

(Fondo Maurizio Antonello, presso il Centro di documentazione sulla città contemporanea)
 

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Di che cosa parliamo quando parliamo della condanna di Roberta Chiroli. Una rassegna di voci con qualche considerazione

11/09/2016

di redazione sito sAm

Il 22 giugno siamo intervenuti a proposito della condanna subita da Roberta Chiroli per “concorso morale” a un’azione di protesta in Val di Susa ritenuta penalmente rilevante, pubblicando una nota “a difesa del resoconto etnografico”, accompagnata da alcune pagine che Guido Lanaro ha pubblicato sul movimento No Dal Molin nella collana dei Quaderni di storiAmestre. Il 12 luglio abbiamo ospitato un intervento della stessa Chiroli. Durante l’estate abbiamo continuato a seguire e a discutere questa vicenda, e riprendiamo ora la parola in vista dell’incontro del 12 settembre Dall’Egitto alla Val di Susa. La ricerca in campo organizzata da alcuni amici di Ca’ Foscari. Questo è il nostro contributo a distanza.

Fraintendimento e attacco alla libertà di ricerca

Le prime voci a difesa di Roberta Chiroli, a metà giugno, hanno sostenuto che la condanna penale è frutto di un fraintendimento: descrivendo nella sua tesi l’azione incriminata, Roberta Chiroli ha usato la prima persona plurale (il “noi partecipativo”) e il giudice, accogliendo la tesi del PM, e ignorando entrambi gli usi della disciplina, ha visto in un espediente narrativo proprio dell’antropologia la prova del contributo all’azione. Così scrivono i quotidiani al momento in cui la condanna diventa pubblica, tra il 15 e il 16 giugno 2016, e così viene ripresa la notizia nei giorni successivi.

[Leggi di più…] infoDi che cosa parliamo quando parliamo della condanna di Roberta Chiroli. Una rassegna di voci con qualche considerazione

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