di Ilario Dittadi
Era molto diversa, allora, la piazza del mio paese. Vecchie case con i mattoni anneriti dal tempo, la bottega del tabaccaio che vendeva anche aringhe in barile e legumi secchi, quella del fabbro, l’osteria con la corte delle bocce. La strada maestra, bianca, tutta sassi e buche la tagliava a metà lasciando ai lati due slarghi sui quali, da sempre, si consumavano le rare rappresentazioni: la sagra di San Valentino, l’arrivo degli zingari con i loro cavalli, i cani, le frotte di bambini sporchi e bellissimi, le loro donne vestite con fogge insolite, strane, e che parlavano una lingua misteriosa.