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Giulio Vallese

“Per fortuna è durata poco”. Due settimane in un istituto professionale del trevigiano

15/08/2019

di Giulio Vallese

Un anno dopo, un nuovo resoconto di un’altra (breve) esperienza di lavoro nel mondo della scuola del nostro amico Giulio Vallese. Applicare tecniche pedagogiche dove tutto è permesso tranne scherzare su presepi e crocefissi; insegnanti “fuori di testa” e insegnanti che devono saper “tenere la classe”; gerarchie tra istituti; precariato o ruolo: cosa conviene?

Il mio primo giorno non riesco nemmeno a entrare in classe. Non ricordo bene se fosse la fine della ricreazione o un semplice cambio dell’ora. Ho scoperto poi che in quella scuola poco importa, è una prassi consolidata, una sorta di quarto d’ora accademico, quello per cui all’università si usava cominciare la lezione ai 15. Nello stretto corridoio che porta all’aula c’è un continuo via vai di ragazzi che discutono, ridacchiano, urlano, cellulare alla mano, auricolare all’orecchio. Li invito a entrare in classe ma appena ne convinco uno a entrare, un altro esce, seguito dalle lamentele del primo che mi sfugge. In un attimo mi ritrovo a fare da spartitraffico. Mentre me ne sto lì sbattuto nella calca dell’ingorgo, riesco a notare alla mia sinistra sull’uscio di un’altra aula alcune ragazze tutte tirate, credo del corso di “moda e design”, che attirano l’attenzione dei ragazzi. Una tizia mora, col caschetto perfetto e trucco apparentemente leggero, se ne sta lì addossata allo stipite, doppio pollice frenetico sul cellulare e lo sguardo che vaga tra lo schermo, le compagne e lo spettacolo circostante. Solo dopo un paio di minuti riesco a farmi largo ed entrare ma, raggiunta la cattedra, mi giro e manca ancora mezza classe. Ritorno quindi sui miei passi, afferro la maniglia e col gesto del vigile invito i ragazzi a entrare. Con tutta calma anche gli ultimi si arrendono.

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«Hai fatto il PEI?». Un anno da insegnante di sostegno in una scuola del padovano

04/09/2018

di Giulio Vallese

Il nostro amico Giulio Vallese, dopo quella con i voucher, ci racconta un’altra sua recente esperienza di lavoro nel mondo della scuola. Un anno come insegnante di sostegno in un grande istituto pubblico della provincia di Padova, chiamato in servizio a settembre dalle graduatorie di “terza fascia”. Spaesamento e adattamento – tra i punti in graduatoria, gli studenti, i colleghi, l’edificio, le riunioni, la burocrazia, le abilitazioni comprate in Romania… – diventando un «funzionario dell’esclusione» immerso nella «retorica dell’inclusione» – come ci ha scritto presentandoci il suo testo.

M. fissa lo schermo del computer. Passa da un video all’altro, dall’hard rock a Tiziano Ferro in base ai suggerimenti dei cookies. Si sofferma su Pretty fly (for a white guy) degli Offspring solo per mandare in loop alcuni passaggi. Lo fa praticamente con tutti i pezzi, è una sorta di ecolalia che impone al mondo. Finito di tormentare la canzone, molla momentaneamente la presa dal mouse e afferra l’altra estremità del “filo”, così chiama una reggetta di plastica bianca che tiene sempre con sé, di quelle che si usano per l’imballaggio delle risme di carta. Con le dita comincia ad arricciarne le estremità, lo porta di fronte agli occhi e come ipnotizzato da quelle contorsioni, scalpita e parte con un lamento insistente. Siamo là, seduti uno affianco all’altro, soli, in un angolo buio di una biblioteca scolastica. All’improvviso, mi viene da piangere.

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“Tutti precari, tutti peccatori”. Lavorare “a voucher” per un istituto religioso

03/12/2016

di Giulio Vallese

Il nostro amico Giulio Vallese ci ha mandato un breve resoconto di una sua recente esperienza lavorativa presso un noto istituto religioso di una cittadina del Nordest. Discussioni con l’amministrazione, nessun obbligo di contratto, pagamenti in voucher, uscire da un tabaccaio con una mazzetta di banconote.

Un palazzone di quattro piani, largo un centinaio di metri, occupa l’orizzonte. Le numerose finestre compongono enormi crocefissi. È la sede di un rinomato istituto religioso. Sono lì per un colloquio di lavoro, cercano uno che sappia le lingue per il doposcuola. Dovrei cavarmela, penso, il curriculum è in regola e poi ho fatto il chierichetto per anni, conosco l’ambiente. Giacca, scarpe eleganti e taglio dai cinesi sotto casa, che non sono certo cattolici ma a cui viene naturale quell’acconciatura demodé da membro del politburo – ideale, penso, per far bella figura coi preti. Mi avvicino all’entrata e noto un paio di elementi posticci: il bugnato rinascimentale che decora l’intero piano terra e il portone di legno borchiato in stile medievale.

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