di Giulio Vallese
Un anno dopo, un nuovo resoconto di un’altra (breve) esperienza di lavoro nel mondo della scuola del nostro amico Giulio Vallese. Applicare tecniche pedagogiche dove tutto è permesso tranne scherzare su presepi e crocefissi; insegnanti “fuori di testa” e insegnanti che devono saper “tenere la classe”; gerarchie tra istituti; precariato o ruolo: cosa conviene?
Il mio primo giorno non riesco nemmeno a entrare in classe. Non ricordo bene se fosse la fine della ricreazione o un semplice cambio dell’ora. Ho scoperto poi che in quella scuola poco importa, è una prassi consolidata, una sorta di quarto d’ora accademico, quello per cui all’università si usava cominciare la lezione ai 15. Nello stretto corridoio che porta all’aula c’è un continuo via vai di ragazzi che discutono, ridacchiano, urlano, cellulare alla mano, auricolare all’orecchio. Li invito a entrare in classe ma appena ne convinco uno a entrare, un altro esce, seguito dalle lamentele del primo che mi sfugge. In un attimo mi ritrovo a fare da spartitraffico. Mentre me ne sto lì sbattuto nella calca dell’ingorgo, riesco a notare alla mia sinistra sull’uscio di un’altra aula alcune ragazze tutte tirate, credo del corso di “moda e design”, che attirano l’attenzione dei ragazzi. Una tizia mora, col caschetto perfetto e trucco apparentemente leggero, se ne sta lì addossata allo stipite, doppio pollice frenetico sul cellulare e lo sguardo che vaga tra lo schermo, le compagne e lo spettacolo circostante. Solo dopo un paio di minuti riesco a farmi largo ed entrare ma, raggiunta la cattedra, mi giro e manca ancora mezza classe. Ritorno quindi sui miei passi, afferro la maniglia e col gesto del vigile invito i ragazzi a entrare. Con tutta calma anche gli ultimi si arrendono.