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Giovanna Bison

Ritorno in giallo. Una visita all’area ex-Sava, undici anni dopo

13/03/2021

di Giovanna Bison

Come ci aveva promesso all’inizio dell’anno, la nostra amica Giovanna Bison è tornata a esplorare l’area dell’ex Sava una decina di anni dopo la ricognizione fatta per la sua tesi di laurea. Anche questa volta in compagnia del papà, con un occhio sulle cose, sul paesaggio e chi lo anima, e un pensiero allo scorrere del tempo: quanto familiare o quanto esotico resta quanto ci era familiare o esotico dieci anni fa? Ritorno senza ritrovare il laminatoio lungo circa trecento metri, scomparso in un paesaggio dove tutto sembra provvisorio, tra grandi parcheggi, depositi per lo smistamento di container, edifici in rovina, un camping progettato da un celebre architetto e un’enorme centrale elettrica che porta il nome “Andrea Palladio”.

Undici anni fa, mese più mese meno, stavo concludendo la mia ricerca sulla Sava per la tesi di laurea. Ultime ricognizioni, ultime foto. Mi ricordo che ci divertivamo a pronunciare “Eysafsallajokull”, il vulcano islandese che aveva oscurato il cielo. Ero anche curiosa su questa novità da provare, Instagram si chiamava. I miei genitori avevano appena investito su un’altra novità: avevano comprato un i-Pad, anche quello da provare.

Allora sarei rimasta per sempre nel paesaggio di abbandono e di avventura dell’enorme ex fabbrica, ma dovevo finire la tesi. Dopo la discussione, e la mostra fotografica, per fortuna l’ossessione finì. Poi ho abbandonato Fusina.

Il 9 febbraio 2021 ci torno, anche questa volta con mio padre; approfittiamo di una novità del tempo presente: il “ritorno al giallo” della Regione Veneto, che gli permette di uscire dal suo Comune e di venire in quello di Venezia. 

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Archiviato in:Giovanna Bison, La città invisibile Contrassegnato con: escursione, Ex Sava, Fusina, Porto Marghera, SAVA

La salicornia rifiorirà a Fusina? Immagini dell’area della ex Sava (Porto Marghera, 2010)

06/01/2021

di Giovanna Bison

Condividiamo con le lettrici e i lettori del sito il regalo che ci ha fatto la nostra amica Giovanna Bison. Si parte, anche questa volta, da una tesi di laurea triennale in Discipline dell’Arte, della Musica, e dello Spettacolo discussa presso l’Università di Padova: un lavoro compiuto nel 2010 all’interno e nei dintorni della fabbrica abbandonata della ex Sava. Le immagini sono il frutto di una ricognizione cominciata tenendo presente la storia della documentazione fotografica relativa all’area industriale e i modelli dell’archeologia industriale, ma che a poco a poco ha cambiato di senso. Con una conclusione dal sapore leopardiano, in attesa di un nuovo sopralluogo – forse – a dieci anni di distanza.

Laurearsi al DAMS di Padova

Il lavoro che ho fatto per l’Università di Padova ha compiuto dieci anni. Allora mi proponevo una ricognizione fotografica all’interno della fabbrica abbandonata della ex Sava. 

L’esplorazione partiva da un approfondimento bibliografico sulle origini e sullo sviluppo di questa particolarissima zona industriale, con riferimento soprattutto a Fusina, ultima propaggine di Porto Marghera. Seguiva un’indagine, in ordine cronologico, sugli studi fotografici (uno su tutti l’archivio Giacomelli) che avevano compiuto lavori di reportage su queste realtà. Le mie foto dovevano scandire il disfacimento delle cattedrali ferrose, destinate a diventare archeologia industriale. 

A ogni passo, a ogni foto, il mio atteggiamento cominciò però a cambiare. 

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Con quaderno e macchina fotografica nel cimitero di Mestre. Pagine da una tesi di laurea “a chilometro zero” (2017)

08/11/2020

di Giovanna Bison

Giovanna Bison ci offre alcune pagine e alcune foto tratte dalla sua tesi di laurea, che ha discusso nel 2017, dedicata al cimitero di Mestre. 

1. Qualche anno fa ho discusso una tesi di laurea in Antropologia culturale, etnologia, etnolinguistica. Spesso, chi studia antropologia, studia i popoli, persone tendenzialmente vive. E va lontano, via dalla propria città, via dalla propria nazione. Io invece non mi sono allontanata nemmeno dal mio quartiere: vivo a Carpenedo da otto anni, a dieci minuti dal Cimitero di Mestre, argomento della mia ricerca. Una tesi a chilometro zero.

Nel mio lavoro ho portato anche la mia passione per la fotografia e per luoghi che definisco “di confine” o – sulla scia di Gilles Clément – del “terzo paesaggio”, luoghi abbandonati dove nulla sembra accadere, mentre è potuto accadere in passato e potenzialmente tornerà ad accadere in futuro.

Quanto stiamo vivendo nel 2020 mi ha per forza di cose portato spesso a ripensare alla ricerca che avevo fatto. Con il pretesto della commemorazione dei morti, sono andata a ripescare tra le pagine e le immagini della mia tesi. 

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I colori dello sciopero. Da un liceo di Mestre, ottobre 2006

09/02/2007

di Giovanna Bison

Grigiore. Nebbia e acciaio. Scendo dall’autobus appiccicoso. Veloce, nervosa, mi dirigo verso la scuola. Nell’umidità mattutina ragazzi pallidi e ragazze colorate sbuffano fumo e parole strane, sono circondata da racconti e discussioni. Alcuni sussurrati, alcuni urlati, alcuni solamente affaticati da un fine settimana senza limiti. Senza limiti per contrastare il limitatissimo spazio di tempo che permette solo in un weekend di vivere.

Nelle cuffie la Nannini al massimo, la Nannini più arrabbiata, più feroce, la Nannini dei primi dischi questa mattina. Sì è una mattina con tanto bisogno di adrenalina e di gente che ti urla cose vere nelle orecchie. Come l’adoro. Cammino sicura, quasi presuntuosa, i miei passi sembrano andare a tempo con la sua musica e il suo rock. Perché la mia Gianna è rock. Non me ne frega niente degli altri e di quello che dicono. Lei è rock. Lei, l’unica donna italiana rock. Punto. Oggi mi serve la rabbia di qualcun altro per convertire il grigio e l’apatia che mi ruotano attorno in energia, energia utile, produttiva o perlomeno vitale. Quell’energia indispensabile per sopravvivere. Per riuscire a sorridere ogni tanto. Magari mentre ci si perde nei propri pensieri guardando fuori dalla finestra. La scuola e le lezioni diventano solo un sottofondo, scivolano in secondo piano rispetto a tutto. Ti senti solo in trappola. Hai solo voglia di scappare, scavalcare con un salto la finestra e correre via. Attraversare il cortile erboso, cadere, rialzarsi, mandare tutti a quel paese e riuscire finalmente a respirare.

Invece mi passa davanti la vicepreside, nonché mia professoressa di diritto, e io ritorno in apnea. Una stretta allo stomaco. Oggi s’inizia alla grande, alla prima ora un minaccioso quanto oscuro compito di matematica. Entro nell’atrio con espressione torva, afferro un caffè da trenta centesimi, miracolo economico delle macchinette, e mi guardo nello specchio del bagno promiscuo del piano terra. Promiscuo perché in realtà a scuola ben pochi rispettano la fittizia distinzione tra “bagni maschi” e “bagni femmine”. Anche perché nei bagni dei ragazzi ci sono più specchi e quasi sempre la carta igienica, vera e propria rarità in questa scuola moderna. Mi guardo nello specchio crepato e velocemente cerco nello zaino qualcosa per rimediare un po’ a quelle terribili occhiaie. Fondotinta e matita nera. Non cambia molto. Sembro solo più finta. Il che, se è possibile, è peggio. Ingoio, vorace, l’ultimo sorso di caffè e un pezzo di biscotto trovato per caso nello zaino. Senza gustarmi né l’uno e l’altro vado verso la classe. Quando posso sorseggio il mio caffè con calma, magari guardando stupita la frenesia scomposta di alcuni miei compagni, rimane per me un mistero come, di prima mattina, riescano a essere così attivi e non acidi e nervosi come me. Alle volte lo devo bere in un attimo, un sorso ed è già finito. Cerco di convincermi che quel liquido caldo e dolciastro abbia davvero il potere di svegliarmi o almeno di donarmi un po’ di carica, ma è solo un illusione. La caffeina che contiene è di gran lunga minore della quantità di zucchero che trovo sul fondo del bicchierino. Quello che non capisco è che io digito sempre l’opzione “senza zucchero”. Mistero.

Il corridoio che porta alla mia classe è spoglio. Un termosifone blu e finestre che si affacciano sul piccolo cortile interno. Niente separa il corridoio dalla sala ricevimenti, composta da quattro banchetti e un po’ di sedie da ufficio. Varco la soglia della mia classe e mi colpisce il grigiore e l’odore di gesso. Non c’è nessuno. Squilla il telefono. È Chiara, detta Kia. Euforica e un po’ stizzita mi urla che sono tutti fuori, c’è sciopero. Tutti fuori. Veloci. Veloci. Velocemente esco dall’aula e vedo molti ragazzi come me scivolare fuori dalle loro classi. Un po’ di eccitazione finalmente sembra serpeggiare tra i nostri volti assonnati. Rifaccio la strada al contrario, questa volta senza guardarmi allo specchio, ma salutando la nostra barista che ricambia felice.

"Dove vai?!”

"C’è sciopero Delfina, tutti liberi!”. Una donna, un personaggio. Lo si capisce già dal nome. A me ricorda una Marlene Dietrich dei poveri. I poveri siamo noi, ovviamente. In realtà, se ci rifletto bene mi ricorda la Dietrich solo perché assomiglia moltissimo alla protagonista che la interpretò in uno spettacolo visto anni fa. Bionda e rumorosa. La sento brontolare qualcosa, ma sono già lontana. Niente affari sulle nostre spalle per lei oggi. Suona stridula la campanella. In questo preciso istante in quasi tutte le scuole italiane i ragazzi e le loro ombre scivolano dentro le classi che sembrano felici di inghiottirli e tenerli prigionieri per almeno un’intera mattina. Cerco di uniformarmi il più possibile al resto della massa che sta uscendo per cercare di non essere individuata dagli sguardi acuti e spenti di molti professori che, a loro volta, cominciano a incamminarsi verso le loro rispettive classi. Ed eccomi all’aria aperta tra ragazzi finalmente sorridenti, alcuni già al telefono a scusarsi con i genitori…”Scusa papi ma qua non fanno entrare nessuno, cosa ci posso fare?!”. I miei diciotto anni mi permettono, invece, di decidere in modo autonomo quando fare assenza e quando no.

Chiara e Francesco mi abbracciano. Raggiungiamo il resto della classe e ci dirigiamo in massa verso il centro, alla ricerca di un bar dove passare un paio d’ore a parlare. Parlare, parlare, parlare. Interessante alternativa al compito di matematica. Discutere con rabbia o tristezza di politica, delle nostre occasioni mancate, dei treni persi, di amori finiti male. Oppure con gioia ed eccitazione del futuro, dell’università, dei nostri sogni impossibili, delle vacanze, del mare che ascolteremo quest’estate. Ci accoccoliamo nei sedili dell’autobus, improvvisamente diventato più accogliente, e non mi sorprendo nell’accorgermi che non ho nemmeno chiesto il motivo dello sciopero. Generazione allo sbando. Come tutte le generazioni, forse. Noi, però, sentiamo vivo il fantasma della gioventù così vissuta, così piena di ideali, di coraggio, di speranze che hanno vissuto i nostri genitori. Invidia per i nostri genitori sessantottini, possibile? E io mi sento così inutile, a volte. Così ipocrita e superficiale. Anni persi. Cerco di dare la colpa al resto della massa, covando sentimenti contrastanti come invidia e una grossa pigrizia di fondo. Autocritica. Ci vuole autocritica. Ma questa mattina l’autocritica mi sembra solo un altro modo per perdere tempo. Speriamo solo che lo sciopero fosse per un buon motivo. Appoggio il mio sorriso sullo sguardo di Francesco. E non ci penso già più.

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