di Alain, a cura di Giacomo Corazzol
Nuovo appuntamento con il filosofo francese Alain letto e tradotto da Giacomo Corazzol: sulla memoria. “La guerra di Troia andava dimenticata, oppure cantata.[…] Il paradosso umano è che tutto è stato detto e nulla è compreso”.
Mnemosine, di Alain
Quando gli Antichi dicevano che Mnemosine è la madre delle Muse, può essere che non pensassero a nulla al di là della semplice relazione che subordina tutti i lavori dello spirito all’inferiore memoria. Questa idea, per semplice che appaia, ci illuminerebbe intorno alle reali condizioni del sapere, se ci prendessimo il tempo di considerarla. Di certo la memoria è troppo disprezzata. E probabilmente non ci sono che le belle metafore per costringerci a riflettere su ciò che riteniamo troppo noto. Ma sotto questo testo, come nelle vecchie pergamene, ne scopro un altro. Perché i canti epici, fonte di tutte le arti parlate, sono di per se stessi memoria; e ogni racconto invecchia contemporaneamente agli uomini, presto perdendo i suoi fermi tratti di gioventù, se non ha fin da subito una forma ritmata e bella. La guerra di Troia andava dimenticata, oppure cantata. La poesia fu sforzo di memoria e vittoria di memoria. Ancor oggi ogni poesia è fatta di cose passate. Così recita il secondo testo. L’antica metafora ci fa comprendere qualcosa di più; perché tutte le arti serbano ricordo. Non c’è architetto che possa dire: «Dimenticherò tutto quello che gli uomini hanno costruito». Quello che inventerebbe sarebbe bruttissimo; per dirla meglio, se mantenesse la promessa alla lettera, non inventerebbe un bel nulla. È per questo che un tempio serba il ricordo di un tempio, l’ornamento quello di un trofeo, e la carrozza quello della portantina. Chi non imita non inventa. A quanto pare il ricordo è estetico di per sé, e un oggetto è bello principalmente perché ne ricorda un altro. Del resto ogni festa è fatta di ricordo, e anche ogni danza; e il culto universale è culto del passato. La contemplazione di questa prospettiva umana è di certo il passato stesso; ogni altro oggetto annoia, senza neppure pensare alla noia, perché subito l’azione ci trascina.
Non esiste nessuna idea nuova. È un tema noto, esso stesso antico quanto gli uomini. «Tutto è stato detto e arriviamo troppo tardi»1; La Bruyère però non si è fermato all’ironia; si è abbandonato al piacere di pensare. L’idea che tutto è stato detto non è per nulla deprimente ma, al contrario, tonica. Il paradosso umano è che tutto è stato detto e nulla è compreso. Sulla guerra è stato detto tutto; e anche sulle passioni è stato detto tutto. L’umanità reale è composta da queste belle forme piene di senso che il culto ha conservato. Bisogna però batterle come fossero campane; perché sempre la forma si richiude sul senso, parlando solo tramite la bellezza. Così è l’attenzione. Se non ci si sveglia in questa maniera, non ci si sveglia affatto. Un segno ci rimanda a un altro segno. E nostri primi maestri sono le parole, che sono dei monumenti.
La cosa inumana non ha nulla da dire; da cui il grande scandalo che le scienze non istruiscono. Non è dunque da lì che bisogna iniziare; per fortuna, però, ogni bambino inizia recitando quello che non può comprendere e vuole comprendere, pensando sempre al di sopra di se stesso; è così, e non altrimenti, che l’uomo può vedersi allo specchio, parlo dell’uomo pensante. In una favola, o solo se ritrova Musa in musica. Procedendo dunque dalla forma al contenuto, riflette senza mai perdersi, trattenuto da questa forma invincibile, che egli non desidera cambiare. Se i segni umani fossero cancellati dalla terra, nel lavoro tutti gli uomini si perderebbero, in mancanza di metafore; le prime danze e le prime commedie finirebbero nel furore, senza alcun ricordo, fino a quando i piedi non avessero scavato il venerabile sentiero, primo schizzo del tempio. Ma non appena il danzatore si sottomettesse al segno umano, sarebbe di nuovo lettura, e le Umanità comincerebbero a rifiorire.
20 ottobre 1922
[Alain, Propos, I, texte établi et présenté par Maurice Savin, Gallimard, Paris 1956, pp. 437-438; traduzione di Giacomo Corazzol]
- Jean de La Bruyère, Les caractères, I.1. Ndt [↩]