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La città invisibile

Il riferimento a Italo Calvino è evidente, ma il titolo di questa sezione del sito è un’archeologia di storiAmestre: riprende quello del primo convegno organizzato dall’associazione nel 1988. L'associazione, allora ai suoi primi passi, proponeva di riflettere sia sulla storia di Mestre e di quel più ampio territorio il cui sviluppo nel Novecento è stato determinato dalla presenza del grande polo industriale di Porto Marghera, sia sulle storie e sulla memoria dei suoi abitanti.

Da allora, “città invisibile” riassume lo spirito dell’associazione, che si può trovare descritto anche nell’articolo 2 del suo statuto. Dal 2006, il sito ne dà un’interpretazione ampia, allargando i confini della città invisibile e cercando legami tra chi abita in molte città invisibili.

Caccia al tesoro mestrino

07/10/2006

di Claudio Pasqual

Presentazione

I due testi che seguono costituiscono i materiali, rispettivamente documentazione e mappa-itinerario, di un’attività didattica destinata agli alunni della scuola elementare e i cui obiettivi sono la conoscenza dello spazio urbano centrale e un primo approccio alla storia contemporanea della città di Mestre. Per essere esatti, l’apparato di corredo dell’unità comprende anche una serie di immagini su diapositiva di luoghi significativi del centro cittadino, che però non si è ritenuto di riprodurre in questa sede.

L’iniziativa ha avuto una genesi del tutto occasionale, nascendo dell’invito rivolto al sottoscritto dalle insegnanti della figlia a tenere una lezione sulla storia di Mestre.

L’unità didattica è stata svolta nell’aprile del 2006 con tre classi quarte della scuola elementare “T. Vecellio” di Mestre. Ai bambini è stato distribuito il primo testo, “Dove si immagina…”, che è stato letto, analizzato e commentato nelle classi con le maestre. La seconda fase è consistita nella visione guidata di immagini fotografiche di Mestre, con domande e osservazioni dei bambini coinvolti. La terza e conclusiva attività è stata l’uscita per le strade e le piazze del centro città, organizzata come una caccia al tesoro, con gli alunni divisi in squadre e chiamati a sciogliere gli enigmi, proposti sotto forma di poesiole in rima, legati ai diversi luoghi.

Per ciascun quesito risolto è stato attribuito alla squadra un punto ma alla fine non è stato assegnato alcun premio (e anche per questo non si è tenuto conto dei tempi di effettuazione delle varie prove). Infatti, come traspare dal titolo, “Caccia al tesoro mestrino”, abbiamo inteso il premio come le nuove conoscenze acquisite dai bambini sulla loro città durante lo svolgimento della gara: come a dire che l’obiettivo era il processo, il tesoro era la stessa caccia, la ricerca, il percorso.

I disegni che illustrano i testi sono alcuni fra quelli eseguiti dagli alunni in classe nei giorni seguenti la caccia al tesoro.

Si ringraziano le maestre Tian, Velli e Caveagna per avere proposto l’iniziativa e per avere cooperato alla realizzazione del progetto.

 

Dove si immagina che…

DOVE SI IMMAGINA UNA LEONESSA DI NOME MESTRE IN GIRO CON DEI BAMBINI PER LA CITTA’ CON QUESTO NOME

Ciao bambini!

Mi avete riconosciuto? No!? Ma come no, sono una leonessa!

Vi chiederete: cosa vuole da noi, questa leonessa, e perché proprio una leonessa, da queste parti, così lontano dall’Africa?

Soddisfo subito la vostra curiosità!

Io sono la leonessa Mestre e mio marito, il leone Venezia…Ti ho sentito là in fondo, tu; hei, sì, proprio tu, birbante: “che buffo, una leonessa con un nome da maschio e un leone con un nome da femmina!!!”

Bah, uffa, dicevamo…Sì, mio marito il leone, un giorno che si parlava dei bei tempi quando eravamo giovani e guidavamo i nostri cuccioli per Mestre, nel nostro territorio di caccia, mi ha detto: “ma perché, invece di star qui a rimpiangere il passato, non mostri ai cuccioli di umani, ai bambini, la città dove abitano e di cui porti il nome, e gliela fai conoscere?”.
Idea geniale! Beh, che dite, lo facciamo un giretto per Mestre? Sì?

Allora forza, dai, usciamo di scuola e cominciamo la nostra visita.

VIALE GARIBALDI

Fermiamoci qui, prima tappa.
Chiese, palazzi, statue: questo è quello che di solito si va a vedere in una città.
Io invece voglio cominciare con una strada.
Questo viale largo e diritto, fiancheggiato da alberi ombrosi di ippocastano, è la prima grande, moderna strada della città. Fu realizzata nel 1881 e collega il centro di Mestre con la piazza di Carpenedo. A farla costruire fu il sindaco di allora, Napoleone Ticozzi… Sì, proprio il signore a cui è intitolato l’edificio scolastico alla vostra destra e che voi ben conoscete, per averci fatto la prima e seconda elementare (a proposito, bello quel murale con la nave e le palme: chissà chi l’avrà fatto?).

IL MUNICIPIO

L’edificio che vedete, all’inizio di via Palazzo, nel cuore dell’antico castello ora scomparso, è il municipio.
Sapete cos’è un municipio, vero? E’ il palazzo del comune, dove stanno il sindaco e il consiglio comunale. Fino al 1926 Mestre è stato un comune autonomo, poi è stata unita al comune di Venezia; anche ora però qui si fanno alcune riunioni del consiglio comunale, in una bella sala rifatta da poco.
Dovete sapere che l’edificio non è sempre stato così come adesso: all’inizio c’erano solo il piano terra e il primo piano; è “diventato più alto” solo nel 1871, con l’aggiunta del secondo piano.
Se adesso vi girate verso destra, potrete ammirare la via Palazzo, breve strada fiancheggiata da bei palazzetti, tranquilla passeggiata senz’auto (è zona pedonale ma ci scorrazzate anche voi in bicicletta, monelli!), con i tavolini all’aperto di bar e pizzerie. Bene, dovete sapere che fino a poco prima che nasceste non era così: per terra c’era l’asfalto e ci passavano macchine e autobus (e quante volte ho rischiato l’osso del collo, se non stavo attenta!).

PIAZZA FERRETTO

Siamo arrivati nel “cuore” di Mestre, nella sua piazza grande (una volta infatti si chiamava “Piazza Maggiore”). Veramente, più che una piazza è uno slargo, che si restringe man mano che dalla Torre dell’Orologio si va verso il duomo di San Lorenzo. A proposito, provate a indovinare: a quale oggetto, che si usa in cucina per riempire le bottiglie -mi sa che vi sto aiutando troppo!-, si potrebbe paragonare?
Naturalmente, anche l’aspetto di questo luogo non è sempre stato uguale nel tempo. Diciamo che per assumere le forme che ha adesso ci ha messo gli ultimi cento anni, dai primi del ‘900 quasi a oggi (poco, se pensate che l’uomo è comparso sulla terra due milioni di anni fa e noi felini, modestamente, anche prima!).

Suppergiù un secolo fa, quando Mestre era ancora poco più di un paese, su questo spazio si affacciavano solo vecchie case, magazzini e granai e il fondo era di terra e sassi; adesso invece vi si possono ammmirare le due file di bei palazzetti sui lati lunghi della piazza, con i sottoportici e i negozi eleganti, i bar, le pasticcerie e gelaterie; il cinema Excelsior; la fontana al centro (che belle bevute di acqua fresca!), la scalinata, le due edicole di metallo lucente alle estremità e il fondo pavimentato di lastre di pietra e marmo. Potreste paragonarla a un salotto, la stanza più bella delle vostre case, e infatti è qui che a mestrini e visitatori piace stare per incontrarsi e conversare, per passeggiare, fare acquisti, sorseggiare un caffè o una bibita ai tavolini dei bar.

Ma vediamo un po’ alcuni dei luoghi ed edifici più significativi di questa piazza.

PALAZZO DA RE

Fermiamoci qui, davanti alla fontana con la statua dorata in mezzo (ne approfitterò per una sorsata, con tutto questo parlare ho la gola secca). La fontana è la cosa più nuova della piazza, rifatta nella pavimentazione e nell’arredo e inaugurata addirittura, pensate, dal Presidente della Repubblica nel 1998 (ha addirittura meno anni di voi, pensate!).
Dietro la fontana vedete questo palazzotto (uno dei più grandi della piazza), dipinto di giallo, con davanti un alto porticato e una terrazza sul tetto.
Si chiama Palazzo Da Re dal nome di Giuseppe Da Re, che lo comprò nel 1852. Questo signore era un uomo davvero ricco. Possedeva molte terre e case, era commerciante di grano e legname ma soprattutto era un fabbricante di mattoni. La fornace che aveva a Mestre in Piazza Barche non esiste più da tempo ma alcuni edifici della vecchia fabbrica sono rimasti in piedi; potreste farvi accompagnare dai vostri genitori a vederli, un giorno.

Il bar Stendardo che vedete sull’angolo a sinistra esiste solo dal 1919, prima là c’era un giardino, cinto da un alto muro.

CINEMA EXCELSIOR

Il cinema Excelsior è un bell’esempio di edificio in stile liberty, uno stile elegante, molto decorativo, con tanti ornamenti e abbellimenti. Notate in alto gli affreschi: uno rappresenta il cinema, si vedono bene il proiettore e il fascio di luce bianca diretto verso lo schermo. La famiglia che lo possiede adesso, i Furlan, è la stessa che lo fece costruire agli inizi del secolo scorso; il primo film fu proiettato nel 1914. L’Excelsior non fu però il primo cinema di Mestre. Uno esisteva da due anni prima e adesso lo andiamo a vedere.

CINEMA TONIOLO

Lasciata Piazza Ferretto, alla fine di una breve via pedonale, si arriva in Piazzetta Battisti. Il grande edificio che da solo occupa il lato in fondo è il teatro Toniolo. Porta il nome del suo costruttore e primo proprietario, Domenico Toniolo. Fu terminato nel 1912 e aperto nel 1913. Poteva contenere 865 persone e per tanto tempo è stato sia cinema che teatro: si proiettavano film ma si tenevano anche rappresentazioni teatrali, opere liriche e concerti. Poi nel 1997 lo ha comprato il comune per farne il teatro civico della città. L’interno è stato trasformato e ammodernato, l’esterno ripulito e bene illuminato; è 

stata rifatta la pavimentazione della piazzetta e della Via Ospedale sul lato destro. I mestrini hanno risposto dimostrando di amare molto il teatro: agli spettacoli non c’è quasi mai un posto libero.

GALLERIA MATTEOTTI E PALAZZI TONIOLO

C’è stato un tempo in cui gli abitanti delle grandi città pensavano che esse sarebbero state più belle e ammirate aprendo in pieno centro delle gallerie, cioè delle specie di strade per soli pedoni, con ai lati i negozi al piano terra di alti palazzi eleganti, e chiuse in cima da un tetto ricurvo di vetro e acciaio, che facesse passare la luce e vedere il cielo.

All’epoca Mestre non era una grande città, forse non era nemmeno una città, ma desiderava diventarlo e per non essere da meno delle altre volle anch’essa la sua galleria. A costruirla fu lo stesso Domenico Toniolo del vicino teatro. Fu completata e inaugurata nel 1912 e intitolata prima al re d’Italia Umberto I, poi a Giacomo Matteotti.

Guardate gli edifici ai lati della galleria dal punto di osservazione di Via Rosa: sono quasi uguali, “gemelli”. Questi palazzi, quelli sulla loro destra e all’angolo delle vie Rosa e Verdi, con questa altezza e queste forme si trovavano solo nelle città e dunque, se Mestre li aveva, allora Mestre doveva considerarsi una città, una vera città.

RIVIERA XX SETTEMBRE

Riviera”, come si chiama questa strada, viene da “riva”, cioè sponda di fiume. Qui un fiume però non si vede proprio. Eppure c’è. Scorre esattamente sotto di voi, sotto i vostri piedi –e le mie zampe!-, sotto la strada, dentro una grossa tubazione. E’ il Marzenego, che una volta scorreva all’aria aperta (che nuotate, che bei bagni freschi d’estate!), tirando dritto per Via Poerio e poi sul lato sinistro del Centro Le Barche. Siccome strade larghe servivano per far passare prima i tram e poi le automobili e poi averle era anche una cosa moderna, si decise di ricoprire il fiume. Lo si fece non in un colpo solo ma un po’ per volta. Il primo pezzo di fiume a “sprofondare” fu, nel 1910 e 1920, quello davanti alla galleria e all’ingresso della piazza: ci voleva un bello slargo, e non un fiume, davanti alla galleria per permettere alla tanta gente che l’avrebbe visitata di arrivarci con comodo, e il tram a rotaie che uscendo dalla piazza svoltava a destra doveva avere modo di girare senza difficoltà. Più tardi si sarebbe chiuso il resto del fiume, in Riviera XX Settembre e a fianco di Coin.

CENTRO COMMERCIALE “LE BARCHE”-GRANDI MAGAZZINI “COIN”

Se chiedete in giro a quale luogo pensano i mestrini (e non solo loro) quando pensano alla Mestre più moderna, dei giorni nostri, vi sentirete sicuramente rispondere: il Centro Le Barche. 

Osservate questo grande edificio: a voi cosa sembra? A me questo “cubo” di sei piani (più uno sotterraneo), tutto grigio e senza finestre, fa pensare a un’enorme scatola!

Vi domanderete il motivo del nome, visto che di barche attorno non c’è traccia! Qualcuno di voi saprà che chiamano Piazza Barche anche la piazza vicina. Ebbene, dovete sapere che qui una volta terminava il Canal Salso, cioè il canale che collegava Mestre a Venezia attraverso la laguna e quindi c’era un porto con le barche.

Il “Centro Le Barche” ha la vostra stessa età, essendo stato inaugurato il 18 maggio 1996. Prima l’intero edificio era occupato dai “Grandi Magazzini Coin”. Coin è il cognome di una famiglia di venditori ambulanti di filo per cucire e cerniere diventata poi proprietaria di una catena di grandi magazzini presente un po’ in tutta Italia.

L’edificio esiste da non molto tempo, anzi si può dire che sia quasi nuovo: quando fu aperto, il primo maggio 1964, i vostri padri erano già nati –chiedeteglielo- e io ero una cuccioletta!

Il palazzo Coin fu un autentico avvenimento per la nostra città. Esso significò per Mestre un nuovo passo avanti nella modernità. Mai viste prima erano la forma e le dimensioni del fabbricato, così diverso e molto più grande degli edifici attorno. Assolutamente nuovo e moderno era soprattutto il tipo di commercio praticato: fino ad allora erano esistiti solo piccoli negozi specializzati nella vendita di un solo genere di prodotti, adesso per la prima volta nello stesso luogo, in un unico grande spazio si poteva comprare di tutto, dagli alimentari ai vestiti agli oggetti per la casa (ma fino a qualche tempo fa anche giocattoli, libri e quaderni, dischi musicali).

Sapere tutto questo, però, a me cuccioletta e ai vostri padri bambini non avrebbe minimamente interessato. Per voi ragazzini di oggi saranno cose normali, ma per noi allora la più stupefacente novità, l’esperienza più strabiliante, il mirabolante marchingegno oggetto delle meraviglie furono LE SCALE MOBILI! 

Mi ricordo come fosse oggi lo stupore, l’eccitazione e il divertimento delle prime volte, ma anche la trepidazione e le paure, perché chi aveva mai provato prima di allora a imboccare dei gradini in movimento? Ma una volta imparato, quante salite e quante discese, sfinendo i genitori, umani e felini!

Fu allora, lo confesso, che rammollita da quella comodità così gradevole alla ben nota pigrizia di noi leoni, disimparai quasi a saltare e arrampicarmi!

CENTRO CULTURALE CANDIANI

Dall’altra parte di Piazza Ferretto rispetto a Coin c’è Piazzale Candiani, dominato dalla mole del centro culturale, intitolato anch’esso al pittore locale Luigi Candiani. “Un mostro di marmo, cemento, acciaio e vetro”, così è stato descritto da qualcuno, alto cinque piani (più due di garage sotterraneo) e vasto 5.000 metri quadrati (diciamo, per dare l’idea, pressappoco come cinquanta delle case in cui abitate!), con una grande scala sulla facciata di marmo a collegare ogni piano. I lavori di costruzione sono andati avanti molto lentamente: ci hanno impiegato 22 anni per terminarlo! E’ stato infatti progettato nel 1978 e inaugurato poco prima del giorno di Natale del 2000. Dunque è nuovissimo –ma molti pensano che sia già vecchio, inadatto ai bisogni della città di oggi-.

Contiene spazi per mostre, sale per riunioni, concerti e proiezioni e un’arena scoperta per rappresentazioni teatrali e concerti; organizza e ospita esposizioni d’arte, conferenze, proiezioni di film, spettacoli; è sede della Videoteca di Mestre, di laboratori multimediali, dell’Urban Centre. E’ un posto dove si possono fare e vedere cose interessanti anche se un po’ complicato. Potremmo paragonarlo al labirinto del Minotauro, tanto è grande e intricato, (ma tranquilli, qui il mostro divoratore di carne umana non c’è: l’unica belva presente sono io ma siete fortunati, la carne di bambino non è di mio gusto!); e difatti hanno messo dappertutto dei cartelli che indicano le uscite, perché la gente altrimenti ci si perdeva dentro.

PIACIUTO IL GIRO PER LA VOSTRA CITTA’? SPERO SIA STATO ANCHE ISTRUTTIVO E CHE ADESSO SAPPIATE QUALCOSA DI PIU’ SUL LUOGO DOVE ABITATE.

ROAHRR! E’ ORA PER VOI DI TORNARE IN CLASSE, PER ME DELLA CACCIA NELLE VERDI PRATERIE DI SAN GIULIANO!

ARRIVEDERCI, BAMBINI, E A PRESTO!

Note:

– il murale con la nave e le palme è stato realizzato proprio dai bambini partecipanti alla caccia al tesoro alla fine della seconda elementare;

-la forma di Piazza Ferretto assomiglia a un imbuto;

-San Giuliano è il più grande parco cittadino, affacciato sulla laguna di Venezia.

Caccia al tesoro mestrino

1. VIALE GARIBALDI

Sulla facciata del palazzo giallo, 

dentro un alto medaglione, 

un numero vedrai:

è il …… (1926)

2. IL MUNICIPIO

Sulla prima pietra sotto il porticato, 

dei partigiani morti per l’Italia liberare,\

uno tutti voi di certo avrete sentito nominare,

ché una piazza a lui fu dedicata per affetto:

ma sicuro, è
…………………………… (Erminio Ferretto)

3. LA PIAZZA

Su una colonna del palazzo più alto leggerai

La poesiola che qui ricopierai.

(Chi in piazza vuole edificare

Alle critiche si deve adattare)

4. PALAZZO DA RE

L’Eroe dei Due Mondi:

il suo nome, sù, rispondi,

nel tondo sul muro io lo vedo

lo stesso del viale

che porta a Carpenedo. (Giuseppe Garibaldi)

5. CINEMA EXCELSIOR

A scuola tornerai scornato e mogio

E merenda non avrai nell’intervallo

se nel dipinto con l’uomo cavallo

Di Mestre non vedrai la ……… con l’………………. (torre con l’orologio)

6. TEATRO TONIOLO

Cesare,

non quello dei romani malmenati da Obelix, poveri cristi,

ma Cesare ……….,

venne in teatro i mestrini a incitare

alla guerra mondiale guerreggiare

ma siccome in quella guerra

finì, e con lui altri milioni, sottoterra

vedi la lapide che gli si volle dedicare.

(E gli altri milioni di soldati morti?) (Cesare Battisti)

7. RIVIERA XX SETTEMBRE

Se questa è una “riviera”

Vuol dire, è cosa vera,

che sotto i nostri piedi l’acqua scorre

di un fiume che ……………………

si chiama;

per tram e automobil l’han coperto,

ma ora che di quelli c’è un deserto,

perché davvero il fiume non scoprire?

i pesci potrebbero finire

di nuotare sempre al buio, poverini

armati di torce elettriche o accendini! (Marzenego)

8. CENTRO COMMERCIALE LE BARCHE

Il centro commerciale è come il mondo 

C’è di tutto benché non sia rotondo

Al quarto piano vende libri …………………

Mentre al …… sotto terra compri dolci e piselli.

A Natale sfavilla di lustrini e doni

Ma nell’atrio si scaldano i barboni.

Il Mediastore ……………… vende i …………

Ai …………… al terzo piano ci vai a far pipì

Il centro commerciale è grande e vario,

La gente a bocca aperta come i pesci nell’acquario

Guarda le vetrine ma non compra

Perché di soldi in tasca non ne tiene neanche l’ombra. (Feltrinelli; Pam: Ricordi; CD; bagni)

9. CENTRO CULTURALE CANDIANI

Quando è nato Candiani l’artista? 

Nell’anno ……… mi sa

Questa data puoi leggerla qua 

Se soltanto aguzzi la vista

Un gran teatro da mille e più posti

Nel progetto avevamo scoperto

Fa lo stesso un’arena all’aperto

Che geliate o andiate arrosti? (1903)

Archiviato in:Claudio Pasqual, La città invisibile Contrassegnato con: conoscere la città, Mestre, resoconto, scuola

Visita al carcere della Giudecca

09/09/2006

di Nadia Caldieri

Nadia Caldieri racconta la sua prima visita a un carcere. Il suo scritto è apparso anche su "Ristretti orizzonti. Periodico di informazione e cultura dal carcere Due Palazzi di Padova" n. 1, gennaio-febbraio 2005, pp. 41-43, con il titolo Cronaca di un primo ingresso in carcere, e alcune varianti nel testo.

Ho chiesto di poter assistere alla presentazione di un libro da poco uscito sulle carceri femminili nell’Italia dell’Ottocento. Si tratta del volume di Simona Trombetta dal titolo Punizione e carità. Da tempo sto conducendo una ricerca sulle carceri femminili tra gli anni Sessanta e Ottanta del Novecento, e anche per questa ragione mi interessa partecipare all’incontro.

Ho dovuto comunicare con anticipo la mia presenza perché l’evento si svolge all’interno di un carcere, quello femminile della Giudecca a Venezia e qualche ufficio ministeriale deve fare controlli.

Sono quasi le tre del pomeriggio e cammino sulla fondamenta dell’isola della Giudecca. Non so dov’è il carcere, non ci sono mai stata. Non sono mai entrata in nessun carcere finora.

Prima di un ponte giro a sinistra e guardo, pensando che è inutile chiedere a qualche passante. Mi dico “un carcere si vede!”, ma non è così. Fermo un tizio sulla quarantina che mi suggerisce di seguirlo: “devo andarci anch’io” dice. Il penitenziario è a una cinquantina di metri, me lo indica. È un normale palazzo che si distingue da quelli intorno solo per una bandiera italiana issata su un’asta obliqua. Entro. Alla mia destra c’è una piccola stanza dove i visitatori, che io immagino siano per lo più i parenti delle detenute, devono fare anticamera, previo controllo di documenti e permessi. Nella stanza ci sono già altre persone e quando è il mio turno consegno la carta d’identità a un agente donna che si trova dall’altra parte del muro. Il muro ha una finestra, blindata immagino, che sul lato inferiore ha un aggeggio scorrevole che permette di far passare quasi solo carte. Il riquadro della finestra è dipinto di verde, sembra che il colore sia stato dato a mano, con un pennello e mi dà un’impressione di vecchiume. Di fronte a questa apertura, sulla parete opposta, c’è una finestra vera dalla quale si vede il palazzo di fronte e un pezzo di cielo. È alta e ha le inferriate. Sotto alla finestra, un vecchio tavolo quadrato forse di formica. È brutto, rovinato.

Nella stanza ci sono anche quattro sedie tutte di ferro e il colore scrostato fa affiorare in molti punti la ruggine. Sulla parete di fronte alla porta d‘ingresso, è ritagliata un’altra porta attraverso la quale si accede a un bagno. Una volta entrata scopro che non c’è la chiave. Di carta igienica nessuna traccia.

Sulla parete col riquadro verde che incornicia il volto dell’agente di turno, c’è una bacheca e, appesi, alcuni avvisi tutti destinati ai parenti. Uno datato 28-12-96 recita “Si ricorda ai Sig. Parenti che dal primo gennaio 1997 verranno accettate come documenti solo le carte d’identità (né passaporto, né patente)”. Mi lascia perplessa l’impossibilità di usare il passaporto. Mi chiedo perché.

Appesi alla bacheca ci sono poi altri due fogli, molto grandi. Si tratta di lunghe tabelle. La prima porta il titolo “Istituti penali femminili. Tabella n. 1 Generi vittuari e di vestiario consentiti”. La seconda invece “Istituiti penali femminili. Tabella n. 2 Generi vittuari non consentiti”. Mi metto a leggere e la stranezza di quegli elenchi mi convince a prendere qualche appunto.

Nei pacchi che i familiari possono far giungere alle loro congiunte recluse, la frutta secca e la frutta esotica sono tabù così come “tutta la frutta non inclusa nei generi consentiti”. Cerco allora nella tabella n. 1, quella appunto dei generi consentiti, e leggo che solo mele e pere vanno bene. Fra i generi non consentiti poi ci sono “dolci, torte, panettoni farciti e no”. Niente panettoni, anche quelli senza uvetta e canditi, ma sono concessi i pandori.

Nemmeno il pane, i pomodori, la cipolla e l’aglio possono entrare così come il sale, le olive e la sardine salate. Nessuna bibita alcolica o analcolica. No ai succhi di frutta, ai biscotti, al caffè, allo zucchero. Mentre posso intuire la ragione per cui “cibi conservati in vasetti di vetro e/o di metallo” sono vietati, e dunque anche “marmellata, mostarda e nutella”, mi è più difficile comprendere perché il divieto sia esteso anche agli “alimenti integrali in genere”.

Per completare l’elenco, sono vietate “creme, salse, minestre preparate”, “mais e cibi liofilizzati” (perché il mais?), “cibi in polvere o in buste sigillate”, “pasta cruda, riso cotto e non”, “tutti i tipi di formaggio molle comprese le sottilette”, “molluschi, frutti di mare, lumache di mare, gamberetti, polpa di granchio”, e poi uova e funghi siano essi cotti o crudi.

Mi è mancato il tempo per annotare i generi vittuari e di vestiario consentiti. Qualcosa però me lo ricordo: la carne cotta può entrare e così gli affettati. Dei vestiti ricordo solo che è consentito l’accappatoio però senza cintura, mentre le scarpe devono essere senza lacci e se invece ne sono dotate debbono però essere molto corti.

Ci chiamano, è ora di entrare. Lascio la sala d’attesa che mi è apparsa squallida, sciatta. I muri, che dovrebbero essere bianchi, sono a metà fra il grigio e il giallo sporco, qua e là qualche frase incisa forse con una chiave. Ho l’impressione che da qualche anno le pareti non siano ridipinte. E a dare un senso di trascuratezza all’ambiente ci si aggiunge anche una decina di scatoloni impilati in due angoli della stanza.

Siamo forse venti, venticinque a voler entrare per assistere alla presentazione del libro. Si apre il cancello blindato e facciamo ingresso in una stanza che fa fatica a contenerci tutti. Siamo costretti a sostare lì, tutti insieme, perché dobbiamo riporre le nostre cose (ad eccezione di libri, quaderni e penne) all’interno di alcuni armadietti. Nessuno ci perquisisce e non ci controllano nemmeno col metal detector, ma due agenti ci ripetono in continuazione di non portarci appresso i telefonini.

Mentre attendiamo di avviarci verso la sala predisposta all’incontro, sento una donna che, osservando il giardino interno all’istituto di pena attraverso una finestra, dice ad altre due “è emozionante entrare in questo carcere”. È una frase che mi mette a disagio.

Una agente ci fa strada. Si apre un altro cancello automatico oltrepassato il quale, dopo due o tre metri, giriamo a destra e saliamo una rampa di scale dalle pareti tutte scrostate. Si sente un fastidioso odore di zolfo. Giungiamo a un corridoio e, attraversatolo in larghezza, di fronte a noi si apre una sala conferenze. È lunga, piena di sedie rosse da regista. Fuori dalla porta restano quattro o cinque agenti.

Mi metto seduta ad una estremità della quinta o sesta fila che è completamente vuota. Dopo cinque minuti arrivano alcune detenute (altre erano già presenti in sala al momento del mio ingresso). Sono giovanissime, suoi vent’anni. Una si infila vicino a me lasciando però fra noi una sedia vuota. Le sue compagne non ci stanno tutte e le dicono di scalare di un posto. Lei tergiversa per qualche secondo e ho la sensazione che avvicinarsi a me la imbarazzi. Poi lo fa, io le sorrido, lei ricambia ma abbassa lo sguardo. Adesso sono io a sentirmi in imbarazzo. Per tutto il tempo della presentazione del libro non scambiamo parola e lei resta seduta di sbieco, rivolta verso le sue compagne e dandomi in parte la schiena.

Tutte le ragazze che si sono sedute nella mia fila – e qualche altra detenuta seduta nei posti che mi stanno davanti – indossano delle tute da ginnastica. Qualche altra invece, di quelle più vecchie (quaranta, cinquant’anni), sono tiratissime: gonne, camicette o maglie eleganti, così come le scarpe.

La gran parte delle donne recluse io le vedo da dietro e rimango colpita dalle loro acconciature. Molte sembrano appena uscite dal parrucchiere. I colori dei capelli sono brillanti, è evidente che la gran parte si fa la tinta. I tagli sono ben fatti e le pettinature anche. Penso che forse in galera non c’è molto da fare, il tempo da dedicare a se stesse lo si trova e la cura della propria persona è fondamentale, un modo di “tenere” e di “tenersi” insieme, di resistere quindi.

Le detenute parlano fra loro e io mi chiedo se è concesso a noi visitatori scambiare con loro parole. Ad un certo punto sento il pianto di un bimbo in sala, mi volto e vedo che qualche fila dietro di me è seduta una giovane zingara che tiene in braccio un bimbetto di un anno circa. Per tutta la durata della presentazione del libro resterà in sala rumoreggiando ogni tanto, e a me viene da ridere perché qualche volta le relatrici devono alzare il tono della voce per superare i vocalizzi di protesta del bebè.

Il dibattito inizia. Introduce la direttrice e, a seguire, si succedono gli interventi del professor Paolo Macrì, della professoressa Lucetta Scaraffia, e della dottoressa Simonetta Matone, sostituto procuratore presso il Tribunale dei minorenni. Si parla del libro, del suo contenuto ma se ne elogia molto anche la scrittura. Il libro è da leggere perché restituisce, ricostruendo anche alcune situazioni particolari, le dinamiche attraverso le quali si sono formate in Italia le prime carceri femminili. Le suore, unico personale femminile a cui lo stato italiano delega la custodia delle detenute, occupano lo spazio centrale del racconto. A parte il professor Macrì, le altre relatrici si soffermano molto sul ruolo svolto da questo personale religioso. Ci sono tre suore sedute quasi alla fine della sala e spesso, quando si parla delle loro antiche consorelle, le relatrici rivolgono a loro lo sguardo. Questo elogio, talvolta davvero sperticato, della loro funzione mi lascia perplessa. Personalmente ho raccolto testimonianze diverse nell’ambito delle mie ricerche. Suore dure, ligie ai regolamenti, figure di potere e suore “disubbidienti”, elastiche e solidali.

L’autrice decide di intervenire solo alla fine lasciando che le persone del pubblico formulino qualche domanda. Gli interventi sono pochissimi. Interviene per prima una giornalista della redazione di “Ristretti orizzonti”. Anche a lei la sottolineatura tutta in positivo della funzione delle suore suona male e si chiede se non si debba riflettere anche sugli effetti negativi di questa presenza. Si chiede: se a differenza che in altri paesi europei, non si è finora permesso in Italia ai detenuti e alle detenute di vivere la propria affettività e sessualità in carcere, prevedendo momenti e luoghi di incontro da cui siano assenti gli sguardi indiscreti dei controllori, non è forse perché la presenza del personale religioso è stata così importante?

Interviene poi una donna che non so se è ancora detenuta. È italiana e parla della sua esperienza carceraria in Germania. Contesta che oggi il carcere, e in generale il sistema penale, nei confronti delle donne sia meno punitivo, come invece pare essere stato nel corso dell’Ottocento quando l’idea che la donna fosse inferiore all’uomo paradossalmente aveva suggerito una sua minore imputabilità.

L’autrice del libro abbozza alcune risposte, ammettendo onestamente di sapere abbastanza sulle carceri dell’Ottocento ma ben poco sulla situazione del presente o del recente passato.

Il dibattito finisce con applausi. Le detenute non hanno parlato. Hanno ascoltato, battuto le mani, hanno riso a qualche battuta dei relatori e qualche volta hanno borbottato.

Mi alzo dalla sedia e ripercorro la strada verso l’uscita.

Sono un po’ stranita. Per un’ora e mezza forse più si è di carceri ottocentesche, di suore, di congregazioni, di concezioni della pena consacrate da Lombroso e penso che forse alle detenute presenti sarebbe interessato parlare del loro carcere, della pena che devono scontare oggi e non è un caso che mormorii e battute di mano scattassero quando la discussione coglieva aspetti legati al presente. Ho avvertito una sorta di scollamento dentro/fuori, fra chi in carcere è costretto a vivere e chi invece sceglie di entrarci per qualche ragione. Linguaggi diversi, abbigliamenti diversi, sguardi diversi. Ma era la mia prima volta e forse molte cose non le ho capite.

Restituisco la chiave dell’armadietto dopo aver ritirato la mia borsa, mi viene riconsegnata la carta d’identità e aperto il blindato. Oltrepasso il portone. Sono libera.

Venezia – Carcere femminile della Giudecca, Venerdì, 29 ottobre 2004

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A spasso per una zona artigianale

09/09/2006

di Mirella Vedovetto

È domenica mattina, oggi il tempo è sereno ma fino a ieri pioveva. Mi trovo all’inizio di un tratto di via Galilei, nella zona artigianale di Mogliano Veneto, accanto a dove abito da 23 anni, cioè da sempre. Sono qui da più di un’ora e la zona è deserta, solo un’auto è passata: il padre insegnava al figlio a guidare. Ora una ragazza porta il cane a passeggio e cammina in mezzo alla strada. Io sono da sola e fingo di passeggiare.

Molto silenzio al di là del continuo cinguettio e di qualche cane che abbaia: oggi non si lavora. Sullo sfondo alti tralicci della corrente e qualche gru. Mi guardo intorno e tutto mi fa venire in mente gli aggettivi “geometrico” e “squadrato”, colore grigio. La zona è attraversata da due strade parallele e altre due perpendicolari a queste. Nello spazio delineato da questi incroci ci sono capannoni tutti in fila, alti poco meno di una casa a due piani. Si notano a prima vista quelli costruiti più di recente: molte vetrate, colori pastello, alcuni hanno anche un giardino curato. Mia mamma, anche lei vive qui da una vita, in genere fa molta fatica a collocare nel tempo i suoi ricordi ma in questo caso sa di preciso quando hanno cominciato a costruire questa zona artigianale: “è stato quando hanno sequestrato Moro”, mi dice. “E prima?”. “Tutti campi, e solo una strada di terra e sassi che portava a Mogliano”.

Adesso c’è l’asfalto, quasi nessun cartello stradale, se non quello delle vie. Sulla strada creata più di recente, in seguito all’ampliamento della zona, erano anche state tracciate le linee bianche per dividere le carreggiate, ma nel giro di un anno si sono sbiadite e non si notano più. I marciapiedi sono dissestati, crepati dall’erba che spunta, sgretolati in molti punti, con buche. In questi sono state ricavate delle specie di aiole d’erba, che si intervallano con l’asfalto in corrispondenza dei cancelli elettronici delle fabbriche. Lungo le strade è sporco: tappi di bottiglie, fazzoletti di carta, sacchetti di merendine, lattine, mozziconi e pacchetti vuoti di sigarette, preservativi usati, sassolini, sabbia, foglie secche. I cancelli sono elettronici, scorrevoli, soltanto uno è chiuso con una grossa catena, con appeso un cartello di divieto d’accesso, sugli altri, invece, divieti di sosta e passo carrabile, altri cartelli non molto grandi portano il nome della ditta. Non per tutte è facile capire cosa producano: ma per lo più sono fabbriche di metallurgia, elettronica, vetrerie, una stireria, una carrozzeria…

Mi soffermo a guardare il giardino di un “laboratorio elettronico di assemblaggio tradizionale”: uno steccato di legno sta intorno a un prato all’inglese e una pozza, a mo’ di laghetto, due abeti, e galline. C’è anche un cane e proprio perché abbaiava tanto forte quando passavo con il mio non mi ero mai riuscita ad avvicinare al suo recinto, ma qui è tutto un abbaiare quando vado a fare il “giro delle fabbriche” col cane. Fare il giro delle fabbriche” è un’espressione che fa parte del mio vocabolario familiare: indica la passeggiata che si va a fare lì intorno. Mia sorella, per tenersi in forma, ogni sera lo faceva pure di corsa. Molte ipotesi su quanto fosse lungo: mia mamma alla fine lo percorse in auto e il contachilometri aveva indicato non ricordo più se un chilometro o poco più. Oggi è la prima volta che faccio il giro guardandomi intorno: mi viene in mente che da bambini si andava a giocare in questi capannoni ancora in costruzione, quando non c’erano i muratori che ci lavoravano.

L’unico spazio in cui non si è ancora costruito è di fronte a casa mia: sull’altra sponda della Peseggiana. Mio papà, operaio a Marghera, ci aveva fatto un orto, anche se la terra non era di nostra proprietà, in realtà non si sapeva bene di chi fosse (del comune? del consorzio Dese?). Oggi ci sono varie ipotesi sul futuro di quel terreno: chi dice che ci faranno un canile o un luogo per addestrare cani, chi un parco con scivoli e altalene, chi capannoni.

Continuo la mia passeggiata. In tre casi di fronte alla fabbrica il proprietario si è costruito anche la casa, queste abitazioni si confondono bene con la geometria e i colori dei capannoni. Non stonano nemmeno le due centraline elettriche all’inizio e alla fine di questa via: s’innalzino in piccoli quadrati d’erba, e qualcuno ci ha scritto con lo spray in nero “gioventù nazionale” e in rosso “falce e martello” e “hasta la victoria siempre”. Il giorno dopo, lunedì, alle 9,30 circa prendo l’ombrello e torno a fare il giro: c’è molto più rumore, quello del motore del furgone che raccoglie le immondizie, suoni metallici di lamiere che rimbombano; passa qualche automobile, solo una si ferma e parcheggia a lato della strada tra una fila di utilitarie, qualche furgone e piccolo camion fanno manovre. Se si ascolta si capisce che all’interno dei capannoni c’è gente che lavora; rispetto a ieri ci sono più auto parcheggiate, ma, come ieri, nessuno a piedi.

Marzo 2002

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Quell’ignoto soldato tedesco

09/09/2006

di Ilario Dittadi

In quell’immane tragedia che è stata la seconda guerra mondiale, l’episodio che sto per raccontare è ben piccola cosa. Pochi lo ricorderanno ancora. Nemmeno il prete del piccolo paese al quale mi rivolsi nel tentativo di saperne di più mi poté aiutare. Un fatto, insomma, come tanti altri di quegli anni terribili, inevitabilmente destinato a essere dimenticato. Non da me però. Le circostanze in cui sessant’anni dopo ne venni a conoscenza, il luogo nel quale mi fu raccontato, le sensazioni che avevo provato poco prima e che provai poco dopo averlo ascoltato mi danno questa certezza.

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Ca’ Emiliani, 26-27 ottobre 1996

08/09/2006

di Filippo Benfante

(Quelli che seguono sono appunti scritti "a caldo" il 27 e 28 ottobre 1996; li ho rivisti nel marzo 2006 prima di pubblicarli su questo sito; NdA)

1. Devo essere alla Casa del popolo di Ca’ Emiliani sabato 26 ottobre 1996 alle 15. Ho un appuntamento con un fotografo, Stefano Ghesini, che conclude l’allestimento di una mostra di immagini del quartiere che sarà inaugurata il giorno dopo. È tipico: documentazione e memoria alla vigilia di una distruzione. Stanno per abbattere le ultime vecchie case, casette e baracche, e anche la Casa del popolo farà la stessa fine nel giro di poco. Sono stati Piero Brunello e Fabio Brusò a coinvolgere me e alcuni altri in una ricerca che stanno completando. Ci chiedono di andare alla Casa del popolo per avere le impressione di ragazzi giovani (siamo tutti sui vent’anni) che non ne sanno nulla. È una specie di esercizio di curiosità umana, per noi e per loro.

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Il campo rom dell’Olmatello (Firenze), 30 ottobre 1998

08/09/2006

di Filippo Benfante

(Quelli che segono sono appunti scritti "a caldo", il 1° novembre 1998; li ho rivisti una prima volta nel gennaio 2003 e quindi nel marzo 2006 prima di pubblicarli su questo sito. NdA)

Il pomeriggio del 30 ottobre 1998 sono stato al campo rom dell’Olmatello, periferia nord di Firenze. Piero Colacicchi, un amico, attivista nell’«Associazione per la difesa dei diritti delle minoranze», ci è dovuto andare per un’emergenza – una bambina si è ustionata una mano su un cavo elettrico volante –, e mi ha chiesto di accompagnarlo.

[Leggi di più…] infoIl campo rom dell’Olmatello (Firenze), 30 ottobre 1998

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