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La città invisibile

Il riferimento a Italo Calvino è evidente, ma il titolo di questa sezione del sito è un’archeologia di storiAmestre: riprende quello del primo convegno organizzato dall’associazione nel 1988. L'associazione, allora ai suoi primi passi, proponeva di riflettere sia sulla storia di Mestre e di quel più ampio territorio il cui sviluppo nel Novecento è stato determinato dalla presenza del grande polo industriale di Porto Marghera, sia sulle storie e sulla memoria dei suoi abitanti.

Da allora, “città invisibile” riassume lo spirito dell’associazione, che si può trovare descritto anche nell’articolo 2 del suo statuto. Dal 2006, il sito ne dà un’interpretazione ampia, allargando i confini della città invisibile e cercando legami tra chi abita in molte città invisibili.

Vicenza. 17 febbraio 2007

21/02/2007

di Maria Luciana Granzotto

Quando i giorni scorsi pensavo alla manifestazione del 17 febbraio mi veniva in mente in modo un po’ ossessivo l’adagio che aveva caratterizzato uno spettacolo di Paolini di qualche anno fa: Ni savea parchè ma tutti ‘ndava a Vicensa. C’è il sole e un sacco di gente in stazione a Mestre che cammina in fretta. Lunga fila in biglietteria, ma sono quelli che vanno a Venezia per il Carnevale. L’effetto è estraniante, niente striscioni, né bandiere, niente gruppi festanti in partenza, solo mascherine e viaggiatori con valige e trolley. Forse il grosso dei manifestanti se n’è andato col treno speciale delle 11, almeno lo spero. Mi guardo intorno, vedo due, tre persone che conosco, magari vanno a Vicenza. 

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Baccalà al governo. Firenze-Vicenza, 17 febbraio 2007

19/02/2007

di Filippo Benfante

1. Con Elena partiamo per la manifestazione di Vicenza da Firenze, con il pullman. Tra le varie organizzazioni abbiamo scelto quella degli Studenti di sinistra, perché Elena ne conosce qualcuno, e perché garantiscono andata e ritorno con 10 euri. Vengono con noi anche due amici spagnoli: la coinquilina di Elena e il suo moroso, di passaggio per caso; da tempo aveva programmato una visita a Firenze, ha combaciato proprio con il fine settimana della manifestazione, e hanno deciso di aggregarsi.

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Unione-Sangiovannese, 11 Febbraio 2007

13/02/2007

di Matteo Di Lucca

1. Macchina da Padova a Marghera; autobus da Marghera a piazzale Roma; vaporetto da piazzale Roma a Sant’Elena passando per Santa Marta, Zattere, San Zaccaria e Giardini. Certo per noi unionisti che viviamo in terraferma più che una partita in casa sembra ogni volta una trasferta. Molti aspettano lo stadio nuovo, ma, quando si sbuca con il vaporetto dal canale della Giudecca di fronte a San Marco, il panorama e l’atmosfera ti investono e ti rincuorano e, almeno per un attimo, fanno dimenticare il viaggio che dura ore. Ricordo ancora divertito il ritorno in vaporetto, dopo la vittoria al Penzo contro la Lucchese, quella coppia di settantenni venuti dalla città toscana per assistere alla partita. Mentre il marito era ancora visibilmente arrabbiato per la sonora sconfitta della sua squadra la signora era in preda al panico e, quando a ogni fermata il vaporetto urtava l’imbarcadero, emetteva un urlo misto tra paura e stupore. Io, ogni volta, le dicevo: “Signora, a Venezia si va così allo stadio”, e lei divertita mi rispondeva nel suo accento toscano: “Ma io a Lucca allo stadio ci vo in bicicletta o al massimo in macchina quando piove!”.

Proprio durante il viaggio in vaporetto, carico di gente con la sciarpa al collo, io e la Vale scambiamo quattro parole con un giovane tifoso sul derby di Padova, sulle altre squadre viste al Penzo e in trasferta, sulla partita di oggi e sui fatti di Catania. Tutti attorno a noi sembrano parlare della stessa cosa: oggi, infatti, è la prima domenica in cui si gioca dopo gli scontri tra ultras e polizia avvenuti l’8 febbraio, in occasione del derby Catania-Palermo, e finiti con la morte di un ispettore. Ne parliamo in maniera così partecipata che non ci accorgiamo nemmeno di essere arrivati a Sant’Elena. Usciamo velocemente dal vaporetto e corriamo verso la biglietteria per il timore – visto che la capienza dello stadio è stata ridotta a causa delle nuove normative – di non trovare più biglietti. Molti ragazzi sono in fila nella biglietteria dei distinti: la società, già da alcune partite, ha imposto un’aggiunta di 2 euro all’abbonamento per tutti quei tifosi abbonati in curva che ora, dopo il rimescolamento della geografia dei gruppi ultras arancioverdi, vogliono seguire la squadra dal settore distinti. Quelli che non sono abbonati, come noi, possono comprare i biglietti di curva (costo: 10 euri gli uomini, 7 euri le donne), ma andare comunque nei distinti. E così facciamo.

Oltrepassato il ponticello di legno che porta allo stadio, mi accorgo che alcuni ultras sostano all’esterno dell’ingresso della curva e uno di questi, con il megafono, annuncia che resteranno fuori dalla curva per i primi quindici minuti della partita per protestare contro le nuove norme entrate in vigore dopo i fatti dell’8 febbraio. Io e la Vale noncuranti proseguiamo verso l’ingresso dei distinti dove troviamo la solita coda formata da una sorta di “melting pot” generazionale: da una parte giovani ragazzi pronti a cantare e a tifare nel settore, dall’altra signori di una certa età, spesso insieme ai nipotini, pronti ad accomodarsi seduti nella loro poltroncina.

2. Una volta entrati, rivolgendo lo sguardo verso la curva deserta, ci accorgiamo che tra i vari gradini sono stesi in orizzontale una serie di striscioni. Nella parte destra della curva dall’alto verso il basso dicono: “Norvegia 05: vietato esporre bandiere… identificati”; “Scozia 05: vietato bere 1 birra fuori dallo stadio… arrestati”; “Germania 06: vietato fumare 1 sigaretta dentro allo stadio… identificati!!”; “…è questo il modello inglese?”. Mentre nella parte sinistra: “Punire i colpevoli no alla repressione”; “Stadio senza ultras = cimitero vivente!!”; “– business + calcio…vergogna!”; “giù le mani dalle trasferte”. Poi, appeso sulla rete metallica proprio dietro alla porta, un altro striscione con su scritto: “Catania 08-02-07 contro ogni ideale ultras. Vergogna!”. 

Il clima nel settore distinti è invece molto rilassato. Alcuni ragazzi sono impegnati a concludere gli ultimi preparativi; altri entrano in campo per appendere sulla rete metallica lo striscione “A sostegno di un ideale” che solitamente veniva tenuto per tutta la partita ben visibile da alcuni ragazzi delle prime file. Saliamo le gradinate mentre alcuni anziani signori dei distinti, passando sotto il settore, si lamentano del fracasso provocato dai megafoni dei capi ultras. L’età media del settore è abbastanza bassa fino a che non arriva una signora che come al solito si siede nella nostra stessa fila e ci saluta calorosamente. Io e la Vale ci guardiamo divertiti e ci sentiamo meno vecchi. Ci accorgiamo che, a differenza delle ultime partite, il settore si sta riempiendo molto lentamente e che i preparativi sono meno caotici. In un clima così “freddo” non mi accorgo nemmeno che le squadre stanno facendo il loro ingresso in campo. Proprio in quel momento il capo ultras sale sulla balconata annunciando che anche noi staremo in silenzio per 10 minuti. Dopo il minuto di silenzio – in memoria dell’ispettore Raciti, ucciso a Catania, e del dirigente di una squadra calabrese morto dopo una rissa in un campo di terza categoria – e il fischio d’inizio della partita, sotto di noi vengono innalzati una serie di striscioni con scritto a caratteri cubitali: “Scandali pay TV leggi speciali doping affari sporchi razzismo il calcio industria inquina”. 

La squadra in campo sembra spaesata dalla mancanza del tifo e inizia la partita lentamente, come se volesse aspettare l’inizio dei cori prima di incominciare a giocare davvero. In questi minuti di silenzio si sentono – cosa che di solito succede solo in rari casi – soltanto le voci in campo dei giocatori e i cori dei tifosi della Sangiovannese. Finché uno dei capi ultras sale nuovamente sulla balconata e dal megafono urla come questa sia una domenica particolare per la tifoseria arancioverde: non solo perché dopo i fatti di Catania inizia una nuova era per tutto il movimento ultras ma anche perché oggi ricorre il sesto anniversario della morte del Bae. Inoltre sottolinea la solidarietà nei confronti dell’ispettore di polizia ucciso a Catania, la completa dissociazione da quegli ultras che usano metodi violenti fuori e dentro allo stadio, il rigetto da tutto ciò che concerne l’industria del calcio moderno, il desiderio di voler iniziare proprio dal nostro settore un nuovo modo di tifare e l’importanza di riflettere su tutti questi argomenti in questi pochi, ma significativi, minuti di silenzio dal tifo. Si rivolge in particolar modo a tutti i ragazzi più giovani presenti nel settore che devono essere i primi ad adottare e dimostrare questa mentalità, cercando di portare avanti gli ideali sani del tifo come l’amicizia, l’aggregazione tra persone, la partecipazione, l’antirazzismo e soprattutto il divertimento. Tutto il settore applaude, ringrazia per le parole e, quando inizia “Un grido sarà quando le squadre scenderanno in campo…”, esplode nel tifo. Le prime file alzano un altro striscione con su scritto “A sostegno del nostro vecchio calcio”. 

Nel frattempo anche i gruppi che occupano la curva Sud sono entrati e dopo qualche minuto di silenzio iniziano a cantare. Noto che, a differenza delle prime partite seguite alla separazione tra i gruppi, in generale nel settore dove siamo si rivolge meno attenzione nei confronti dei comportamenti e del tifo prodotti dai gruppi della Sud. Sembra quasi che in queste poche partite si sia creata nel settore la consapevolezza che il nostro tifo deve essere rivolto più alla squadra e a noi stessi che alla dimostrazione di superiorità nei confronti degli altri gruppi rimasti in curva.

3. Anche se una preoccupante nebbia incomincia a scendere sul Penzo, tutto il primo tempo è un susseguirsi di divertimento collettivo. Si divertono i capicoro sempre sorridenti e compiaciuti per il grande tifo del settore, ci divertiamo noi ad osservarli, si divertono tutti lanciando in aria per tutto il settore una parrucca da carnevale gialla che ogni tanto finisce nella testa dei capi ultras, si diverte il ragazzo che si sposta in tutto il settore per far sventolare ogni volta in un posto diverso il bandierone arancioverde. Ci divertiamo ancor di più quando, intorno al ventesimo minuto, un cross da destra di Romondini – acquisto di Gennaio per la prima volta in campo dal primo minuto – incoccia nel movimento sul primo palo di Moro che di testa insacca sul palo opposto. L’Unione è in vantaggio e dopo il gol il tifo sale ancor più d’intensità. I classici cori si susseguono. Dopo un saluto agli ultras del Rapid Vienna per l’ennesima volta presenti nel settore, tutti con la sciarpa in alto a fare con movimento simultaneo “Tutti avanti, tutti indietro, tutti a destra, tutti a sinistra alé alé alé / Forza Unione”. Tutti seduti battendo i piedi per “datemi una U-NIO-NE”. Tutti pronti a rispondere alla richiesta del capocoro urlando a più non posso in modo da far sentire l’eco della risposta dalle calli di Sant’Elena: “La gente vuol sapere… chi noi siamo… siamo l’armata arancioverde e mai nessun ci fermerà…”. Questi cori si mescolano ad altri di diverso indirizzo come “A sostegno di un ideale” e “Odio eterno al calcio moderno”. Il primo tempo finisce proprio quando sta per iniziare il coro più “amato” dalle Vale: “Arancioverdi alé, alé l’Unione, sempre insieme a te, comunque vada, devi sapere che, noi non ti lasceremo mai da sola”. Lei rimane un po’ delusa dalla fine anticipata del coro e mi manda a prendere da bere al bar. Dopo una coda infernale e dopo aver speso la bellezza di 6,50 euri per due panini mignon al salame e una bottiglietta di coca cola, risalgo al mio posto proprio quando l’arbitro dà inizio al secondo tempo.

4. La nebbia è scomparsa e un sole oserei dire primaverile riscalda le tribune. Forse il sole è uscito proprio in questo momento per rendere ancora più visibile il grande striscione a larghe righe verticali arancioverdi: “Per il comandante Bae” alzato dalle prime file del settore per commemorare il sesto anniversario dalla sua morte. Il tifo inizia un po’ in sordina e il capocoro, accortosi del calo d’intensità, afferma facendo ridere tutti: “Ma xé colpa del sole… che basa i bei???”. Il tifo ricomincia con un bel “Pope”, da sempre l’inno unionista. La partita non è brutta e diventa ancor più bella quando, dopo una respinta della difesa, parte il nostro contropiede. Capitan Collauto dalla fascia destra prima di raggiungere il centrocampo taglia il campo con una sciabolata che raggiunge sulla fascia opposta il liberissimo Bono che si invola verso l’area avversaria. Aspettando i rinforzi decelera la corsa e giunto al limite dell’area appoggia la palla all’accorrente Romondini che dribbla sontuosamente due avversari. Una volta entrato in area affrontato dall’ultimo avversario cede la palla sulla sua sinistra al liberissimo Pradolin che solo davanti al portiere incrocia il tiro che sbatte prima sul palo e poi finisce in rete. Raddoppio dell’Unione. Nel settore è delirio. Guardo in basso e vedo un groviglio di persone che esulta, si abbraccia, si spintona, cade sui gradini o su qualche suo vicino, si rialza frastornata e ricomincia festante a cantare. Ormai la vittoria è a portata di mano anche se l’arbitro ci mette del suo e concede un rigore molto dubbio ai nostri avversari che accorciano le distanze. La partita è riaperta ma l’Unione continua ad attaccare sfiorando in un paio di circostanze il terzo gol e raggiungendo una meritata vittoria che ci consolida al primo posto. Mentre i giocatori fanno il solito balletto post-vittoria in mezzo al campo, li invitiamo a venire sotto il settore. Inizia il coro “lo squadrone ce lo abbiamo noi” e la squadra inizia il rito della scivolata sotto i tifosi. Come al solito si dirigono verso la bandierina per accontentare sia noi che siamo nei distinti sia gli altri gruppi che stanno in curva. Si continua con il “Di Costanzo show” e l’allenatore saluta dal campo il settore che intanto incomincia a svuotarsi. Il capocoro richiama l’attenzione per avvisare sul da farsi – viste le nuove normative che impediscono la vendita dei biglietti ai gruppi –nelle prossime due trasferte consecutive dell’Unione e chiama l’ultimo canto in onore del Bae che ci accompagna fino all’uscita dallo stadio.

5. Una volta salito in vaporetto leggo attentamente la fanzine autoprodotta che i ragazzi di “A sostegno di un ideale” hanno distribuito nel settore alla fine del primo tempo e che non ero riuscito a leggere prima. Ecco alcuni stralci:

La morte di una persona è un fatto irreparabile, che ferisce tutti gli uomini di cuore e buonsenso. Ma gli uomini di buon senso non sopportano l’ipocrisia, che puzza più della morte. Il dolore è di chi piange il proprio caro, agli altri spetta un rispettoso silenzio. Ma certe persone non si fermano neppure dinnanzi al più nefasto degli accadimenti. E parlano, parlano, per cercare di trarre qualche vantaggio da una tragedia. […] Noi chiediamo giustizia e verità, per tutti. Giustizia e verità anche per Filippo Raciti. Chiediamo che chi ha sbagliato paghi (sempre) e comunque (senza privilegi per nessuno). Chiediamo siano accertate le responsabilità di tutti. Di chi ha ucciso, innanzitutto. Ma anche di chi ha gestito l’ordine pubblico, di chi ha fatto svolgere una partita a rischio alle 18, di chi ha fatto perdere metà partita ai palermitani (strategia del sopruso che serve solo a surriscaldare gli animi). Volere la verità in un Paese abituato alla menzogna è un desiderio rivoluzionario. Volere la verità qualunque essa sia è un desiderio inusitato. Anche per questo siamo ultras. La battaglia contro il calcio trasformato in business, contro la repressione preventiva, le leggi speciali e liberticide, pericolose perché esportabili anche nella vita quotidiana di tutti noi, questa battaglia non si vince a colpi di spranga. Gli ultras hanno altre armi: la solidarietà, la passione sportiva, la voglia di partecipazione. Farsi schiacciare su una logica violenza-repressione-violenza servirà solo a generare altre lacrime, altro dolore, altra rabbia. Ci vuole coraggio, il coraggio di disertare una guerra perduta comunque. Una guerra da combattere su di un altro piano, con altre armi. Perché non esiste partita che valga una vita. (“A sostegno di un ideale: fanzine autoprodotta”, numero 3)

Dal vaporetto si vede piazza San Marco stracolma di gente che festeggia la prima domenica di carnevale. Io e la Vale decidiamo di scendere alle Zattere e di raggiungere a piedi piazzale Roma. Un veloce spritz in campo Santa Margherita e poi ci trasformiamo nuovamente in “pendolari unionisti”.

Archiviato in:La città invisibile, Matteo Di Lucca Contrassegnato con: calcio, cronaca, Unione, Venezia-Mestre

I colori dello sciopero. Da un liceo di Mestre, ottobre 2006

09/02/2007

di Giovanna Bison

Grigiore. Nebbia e acciaio. Scendo dall’autobus appiccicoso. Veloce, nervosa, mi dirigo verso la scuola. Nell’umidità mattutina ragazzi pallidi e ragazze colorate sbuffano fumo e parole strane, sono circondata da racconti e discussioni. Alcuni sussurrati, alcuni urlati, alcuni solamente affaticati da un fine settimana senza limiti. Senza limiti per contrastare il limitatissimo spazio di tempo che permette solo in un weekend di vivere.

Nelle cuffie la Nannini al massimo, la Nannini più arrabbiata, più feroce, la Nannini dei primi dischi questa mattina. Sì è una mattina con tanto bisogno di adrenalina e di gente che ti urla cose vere nelle orecchie. Come l’adoro. Cammino sicura, quasi presuntuosa, i miei passi sembrano andare a tempo con la sua musica e il suo rock. Perché la mia Gianna è rock. Non me ne frega niente degli altri e di quello che dicono. Lei è rock. Lei, l’unica donna italiana rock. Punto. Oggi mi serve la rabbia di qualcun altro per convertire il grigio e l’apatia che mi ruotano attorno in energia, energia utile, produttiva o perlomeno vitale. Quell’energia indispensabile per sopravvivere. Per riuscire a sorridere ogni tanto. Magari mentre ci si perde nei propri pensieri guardando fuori dalla finestra. La scuola e le lezioni diventano solo un sottofondo, scivolano in secondo piano rispetto a tutto. Ti senti solo in trappola. Hai solo voglia di scappare, scavalcare con un salto la finestra e correre via. Attraversare il cortile erboso, cadere, rialzarsi, mandare tutti a quel paese e riuscire finalmente a respirare.

Invece mi passa davanti la vicepreside, nonché mia professoressa di diritto, e io ritorno in apnea. Una stretta allo stomaco. Oggi s’inizia alla grande, alla prima ora un minaccioso quanto oscuro compito di matematica. Entro nell’atrio con espressione torva, afferro un caffè da trenta centesimi, miracolo economico delle macchinette, e mi guardo nello specchio del bagno promiscuo del piano terra. Promiscuo perché in realtà a scuola ben pochi rispettano la fittizia distinzione tra “bagni maschi” e “bagni femmine”. Anche perché nei bagni dei ragazzi ci sono più specchi e quasi sempre la carta igienica, vera e propria rarità in questa scuola moderna. Mi guardo nello specchio crepato e velocemente cerco nello zaino qualcosa per rimediare un po’ a quelle terribili occhiaie. Fondotinta e matita nera. Non cambia molto. Sembro solo più finta. Il che, se è possibile, è peggio. Ingoio, vorace, l’ultimo sorso di caffè e un pezzo di biscotto trovato per caso nello zaino. Senza gustarmi né l’uno e l’altro vado verso la classe. Quando posso sorseggio il mio caffè con calma, magari guardando stupita la frenesia scomposta di alcuni miei compagni, rimane per me un mistero come, di prima mattina, riescano a essere così attivi e non acidi e nervosi come me. Alle volte lo devo bere in un attimo, un sorso ed è già finito. Cerco di convincermi che quel liquido caldo e dolciastro abbia davvero il potere di svegliarmi o almeno di donarmi un po’ di carica, ma è solo un illusione. La caffeina che contiene è di gran lunga minore della quantità di zucchero che trovo sul fondo del bicchierino. Quello che non capisco è che io digito sempre l’opzione “senza zucchero”. Mistero.

Il corridoio che porta alla mia classe è spoglio. Un termosifone blu e finestre che si affacciano sul piccolo cortile interno. Niente separa il corridoio dalla sala ricevimenti, composta da quattro banchetti e un po’ di sedie da ufficio. Varco la soglia della mia classe e mi colpisce il grigiore e l’odore di gesso. Non c’è nessuno. Squilla il telefono. È Chiara, detta Kia. Euforica e un po’ stizzita mi urla che sono tutti fuori, c’è sciopero. Tutti fuori. Veloci. Veloci. Velocemente esco dall’aula e vedo molti ragazzi come me scivolare fuori dalle loro classi. Un po’ di eccitazione finalmente sembra serpeggiare tra i nostri volti assonnati. Rifaccio la strada al contrario, questa volta senza guardarmi allo specchio, ma salutando la nostra barista che ricambia felice.

"Dove vai?!”

"C’è sciopero Delfina, tutti liberi!”. Una donna, un personaggio. Lo si capisce già dal nome. A me ricorda una Marlene Dietrich dei poveri. I poveri siamo noi, ovviamente. In realtà, se ci rifletto bene mi ricorda la Dietrich solo perché assomiglia moltissimo alla protagonista che la interpretò in uno spettacolo visto anni fa. Bionda e rumorosa. La sento brontolare qualcosa, ma sono già lontana. Niente affari sulle nostre spalle per lei oggi. Suona stridula la campanella. In questo preciso istante in quasi tutte le scuole italiane i ragazzi e le loro ombre scivolano dentro le classi che sembrano felici di inghiottirli e tenerli prigionieri per almeno un’intera mattina. Cerco di uniformarmi il più possibile al resto della massa che sta uscendo per cercare di non essere individuata dagli sguardi acuti e spenti di molti professori che, a loro volta, cominciano a incamminarsi verso le loro rispettive classi. Ed eccomi all’aria aperta tra ragazzi finalmente sorridenti, alcuni già al telefono a scusarsi con i genitori…”Scusa papi ma qua non fanno entrare nessuno, cosa ci posso fare?!”. I miei diciotto anni mi permettono, invece, di decidere in modo autonomo quando fare assenza e quando no.

Chiara e Francesco mi abbracciano. Raggiungiamo il resto della classe e ci dirigiamo in massa verso il centro, alla ricerca di un bar dove passare un paio d’ore a parlare. Parlare, parlare, parlare. Interessante alternativa al compito di matematica. Discutere con rabbia o tristezza di politica, delle nostre occasioni mancate, dei treni persi, di amori finiti male. Oppure con gioia ed eccitazione del futuro, dell’università, dei nostri sogni impossibili, delle vacanze, del mare che ascolteremo quest’estate. Ci accoccoliamo nei sedili dell’autobus, improvvisamente diventato più accogliente, e non mi sorprendo nell’accorgermi che non ho nemmeno chiesto il motivo dello sciopero. Generazione allo sbando. Come tutte le generazioni, forse. Noi, però, sentiamo vivo il fantasma della gioventù così vissuta, così piena di ideali, di coraggio, di speranze che hanno vissuto i nostri genitori. Invidia per i nostri genitori sessantottini, possibile? E io mi sento così inutile, a volte. Così ipocrita e superficiale. Anni persi. Cerco di dare la colpa al resto della massa, covando sentimenti contrastanti come invidia e una grossa pigrizia di fondo. Autocritica. Ci vuole autocritica. Ma questa mattina l’autocritica mi sembra solo un altro modo per perdere tempo. Speriamo solo che lo sciopero fosse per un buon motivo. Appoggio il mio sorriso sullo sguardo di Francesco. E non ci penso già più.

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Padova-Unione, 19 gennaio 2007

23/01/2007

di Matteo Di Lucca

1. L’appuntamento con la Vale è verso le 19.00 di fronte al mio ufficio, che non dista molto dallo stadio Euganeo. Per noi unionisti che viviamo nella città del Santo, Padova-Unione non è una partita normale né un “semplice derby”: per tutta la settimana abbiamo aspettato freneticamente questo venerdì sera, tra canti in casa o in macchina e sfottò ai molti amici padovani. 

Lei si presenta puntualissima con la nuova sciarpa di lana arancioverde fatta a mano da mia mamma come regalo di natale: uno spritz, un panino e saliamo in macchina. Per noi che siamo abituati ad andare allo stadio in vaporetto è strano arrivare in macchina al parcheggio dello stadio e trovarci di fronte dei parcheggiatori che, dopo averti indicato un posto libero che si vedeva benissimo, ti chiedono 2 euro.

Nonostante manchi ancora un’ora e mezza all’inizio della partita, il parcheggio è già bello pieno di macchine e di gente che con la sciarpa al collo si avvia verso l’ingresso della curva Nord dello stadio. Mentre sistemiamo la macchina, arrivano tre autobus di linea che accompagnano il primo gruppo di ultras sbarcati a Padova con il treno: ci sono Vecchi Ultrà, Brigata e GOC (Gruppo Oronzo Canà) che, dopo la recente divisione interna alla tifoseria unionista, occupano la curva Sud al Penzo. Ci affrettiamo a entrare allo stadio pensando che i ragazzi del gruppo con cui vogliamo seguire la partita – si chiama “A sostegno di un ideale” – siano già all’interno; ma una volta entrati ci accorgiamo che, non si sa per quale motivo, non sono ancora arrivati. Così, mentre sul campo quattro squadre di ragazzini del Padova stanno giocando una partitella, mi metto a osservare la preparazione del settore di curva che verrà occupato dai gruppi già arrivati, delimitato con due strisce di nastro da cantiere stradale. Di solito nelle curve viene usato per la preparazione di una coreografia, ma in questo caso risulterà essere, ahimè, solo il modo per dividere i due gruppi di ultras. I cori di sfottò contro i padovani si susseguono: “Salutate la capolista”, “Coccodè”, “Odio Padova”, “Non c’è provincia, non c’è regione, siete tutti sotto il cazzo del leone”. I padovani rispondono con altrettanto classici “Oh issa” e “Alta marea, portali via”. Per l’occasione, pare per motivi di ordine pubblico, i tifosi di casa non stanno nella curva ma nella fetta di distinti più lontana dalla nostra curva. Gli striscioni invece sono in gran parte dedicati alla diversa posizione in classifica tipo “C1 RESTATE A VITA”. 

Tra una birra e l’altra la nostra preoccupazione si concentra sul fatto che i ragazzi del gruppo “A sostegno di un ideale” non sono ancora arrivati; ormai sono le 20.15 e le squadre sono già entrate in campo per il riscaldamento. Ci avviamo un paio di volte all’ingresso della curva per accoglierli, ma ancora non si vede nessuno. La Vale ipotizza che gli autobus messi a disposizione in stazione siano solo tre, ed in effetti, quando finalmente arrivano, mi accorgo che i veicoli sono gli stessi che avevamo incontrato all’arrivo degli altri gruppi. 

Ci fermiamo all’ingresso per vedere gli ultras che entrano in curva: circa quattrocento persone, con la faccia un po’ rabbuiata per il ritardo ma comunque festanti e con una gran voglia di “fare merdón”.

2. Ci raggruppiamo un po’ frettolosamente nel nostro settore. Ora la curva è piena, saremo almeno in 2000. I capi ultras si affrettano a sistemare gli striscioni sulla rete metallica. Balza agli occhi subito quello arancioverde a strisce orizzontali con, scritte a caratteri cubitali, le lettere P I E R. In settimana avevo letto nel forum online della morte per infarto di Pier, un giovane ultras del gruppo dei Rude Fans, che seguiva ovunque non solo l’Unione ma anche la Reyer, la storica squadra di basket di Venezia che ora gioca a Mestre, al palasport Taliercio. Il clima nel settore è diviso tra la voglia che finalmente inizi questo derby che tutti aspettano da tanto, e una forte sensazione di smarrimento nei confronti del fatto che una partita, sia pure un derby, è ben poca cosa di fronte alla morte di una persona. Una sensazione che aumenta d’intensità quando uno dei capi ultra sale sulla balconata e, dopo aver raccontato la grande passione di Pier per l’Unione, annuncia urlando in lacrime che all’inizio della partita si terranno 5 minuti di silenzio dal tifo. Alcuni borbottano che sarà difficile tenere la bocca chiusa per ben cinque minuti, ma quando inizia la partita tutta la curva, e intendo anche l’altro settore, rimane in silenzio. 

Da lontano notiamo che tutta la squadra entra in campo con una maglietta bianca che copre la maglia ufficiale con su scritto “CIAO PIER” e dopo il classico scambio di gagliardetti e lancio della monetina per la scelta del campo, capitan Collauto si avvia sotto la nostra curva e depone un mazzo di fiori proprio sotto il nostro settore. Un gruppo di ragazzi pochi gradini sotto di noi alza uno striscione con su scritto “CAMICIA, ANFIBI, STILE, UMILTÀ CIAO PIER!!!”. Un silenzio irreale circonda l’inizio della partita, un silenzio che viene interrotto solamente dal battimani di tutta la curva unita. La cosa più bella di tutta la serata. La Vale è commossa. Io scambio quattro parole con il ragazzo di fronte a me sul fatto che sarebbe bello vedere la curva unita non solo in tragiche circostanze. Il battimani continua, nessuno accenna un coro fino a che, dopo un’occhiata tra i due capi ultras dei rispettivi settori, parte il vero tifo. La curva è letteralmente esplosa. Non so come abbiano iniziato gli altri, noi con “Pier è qua e canta con gli ultras” subito seguito da un altro coro di commemorazione: “Per Francesco alé, per Francesco alé, per Francesco alé, il Bae”. Poi tutti su con la sciarpa a fare un bel “Pope”. Poi “Un grido sarà quando le squadre scenderanno in campo…”, coro che solitamente accompagna l’ingresso delle squadre sul terreno.

3. I primi trenta minuti della partita non li ho praticamente visti. Sì, ho visto partire bene il Padova: un rigore non concesso alle “galline”; l’Unione che piano piano ha incominciato a macinare il suo gioco senza peraltro mai tirare in porta. Ma la mia mente per quella prima mezz’ora era occupata più con il “contorno” alla partita. Saranno stati quei primi intensissimi cinque minuti in silenzio, sarà stato che la partita in fondo era noiosa, che all’Euganeo si vede proprio da schifo, che avevo bevuto troppe birre. In realtà la bellezza di andare a vedere una partita in curva è anche questa: la partita in certi momenti diventa un surrogato e la tua concentrazione va più sulle espressioni e sulle opinioni della gente che ti circonda, sulle urla e le facce dei capicoro che incitano la curva a cantare, sulle bandiere che sventolano e non ti fanno vedere la partita, sulle altre parti dello stadio, sulle panchine e perché no anche sui raccattapalle. Andare in curva significa vedere la partita in una prospettiva diversa, non solo per il fatto che il campo è schiacciato e la visuale è peggiore.

Per tutto il primo tempo il tifo del nostro settore è ottimo, partecipato e costante. L’unica nota coreografica – in realtà era stata pensata una coreografia, poi abbandonata per la morte di Pier –sono bandierine arancioverde in stoffa, che sventolano in tutto il settore, distribuite, immagino in stazione a Mestre, al prezzo di 5 euro. Tra tutti i cori quello riuscito meglio è stato sicuramente quello che risulta la vera novità stagionale del tifo del nostro settore: “DATEMI UNA U- NIO-NE” con tutti seduti, battendo i piedi sulle gradinate, che si alzano velocemente per urlare le lettere alla richiesta del capocoro. Certo al Penzo grazie alla struttura in tubi innocenti è più spettacolare e assordante ma è stato comunque efficace e come al solito molto divertente. 

Alla fine del primo tempo accompagno la Vale in bagno e tutti divertiti mi scambiano, a causa della mia folta capigliatura, per Caparezza. Sorrido con loro e cerco di andare a prendere una birra ma risulta un’impresa impossibile perché tutti si sono naturalmente scagliati verso il bar. Tutti in curva sembrano abbastanza tranquilli: non è stato un bel primo tempo ma l’atmosfera pare abbastanza rilassata, come se si pensasse che almeno un punticino si porterà a casa. Io racconto alla Vale il mio disappunto sul gioco della squadra che mi sembra un po’ troppo remissivo: “cazzo, è il derby, mica una partita come le altre, siamo la capolista e dobbiamo dimostrarlo, si vede lontano un miglio che hanno paura di noi”. La Vale annuisce non so se per il fatto che si fida delle mie considerazioni tattiche o perché è impegnata al telefono con una sua amica che è nella curva del Padova. Tant’è, speriamo in un atteggiamento diverso nel secondo tempo. 

Nel frattempo le squadre sono già rientrate in campo e io e la Vale ritorniamo negli stessi posti che occupavamo nel primo tempo. I ragazzi dell’altro settore hanno fatto bruciare proprio sotto la curva un “qualcosa” di plastica che crea un odore nauseabondo e una folta nube che oscura in parte la visuale del campo. Il tifo del settore ricomincia un po’ in sordina ma poi sale d’intensità. I cori, a differenza del primo tempo, sono più incentrati sugli sfottò ai padovani: tra questi uno molto divertente, che non conoscevo, prende in giro la sorella di un padovano che va a studiare a Venezia. Poi il classico “siamo i terroni del nord” e un coro per i tifosi del Rapid: alcuni di loro sono arrivati da Vienna per seguire il derby (le nostre tifoserie sono gemellate). Dopo un primo tempo passato più a cantare a squarciagola che altro, ora sto più attento alla partita, che comunque continua a non regalare grandi emozioni. Almeno fino alla mezz’ora: Zecchin prende palla a metà campo, spalle alla porta e attaccato alla linea laterale sinistra; salta facilmente, rientrando verso il centro, Taccucci e, con un passaggio filtrante, serve De Franceschi che si invola indisturbato verso il fondo. De Franceschi crossa di sinistro rasoterra, la palla passa sotto la gamba di un nostro difensore che si è gettato in scivolata. Aprea resta a metà strada e Russo indisturbato in mezzo all’area colpisce sporco la palla che lentamente va a gonfiare la rete. Il Padova ha segnato, proprio sotto di noi. La curva ammutolisce. Sembra un sogno. Un sogno interrotto dal boato che arriva dalla curva del Padova e dai giocatori avversari che vanno a esultare compatti sulla bandierina. Uno di loro manda gestacci verso la nostra curva e viene coperto da una marea di insulti. Gli attimi di incredulità e di silenzio vengono interrotti dalle urla dei capi cori che incitano la curva a tifare ancora, a crederci, a restare vicini alla squadra. Così dopo un attimo di sbigottimento il settore compatto ricomincia a cantare sperando. La Vale mostra tutto il suo sconforto e cerco di tirarle su il morale, ma alla fine nemmeno io credo molto nel pareggio. Inizia il coro “Fino al novantesimo” e poi, nei minuti di recupero, “Oltre al novantesimo”. Di Costanzo effettua alcuni cambi infoltendo l’attacco e la squadra ci prova riversandosi nella metà campo del Padova senza però creare grandi occasioni. Fino a che l’arbitro non fischia la fine dando il via alla gioia dei giocatori e tifosi padovani. Per me e la Vale, che abbiamo visto l’Unione perdere per la prima volta quest’anno, è una strana sensazione. Tuttavia anche noi, come tutti, invitiamo la squadra sotto la curva. I giocatori lentamente e mestamente ci raggiungono. Alcuni di loro lanciano le magliette. Sembra quasi un gesto di scusa per aver perso una partita così sentita da tutta la tifoseria. La curva capisce e, nonostante la sconfitta, canta lo stesso “lo squadrone ce lo abbiamo noi” e “Di Costanzo show” per dimostrare l’attaccamento ai colori e ringraziare la squadra per il grande campionato che sta facendo. Poi i giocatori raggiungono il tunnel degli spogliatoi e anche io e la Vale ci avviamo verso l’uscita dello stadio mentre i ragazzi del settore continuano a cantare.

4. Il clima all’uscita è tranquillo: tutti si affrettano a raggiungere le macchine o gli autobus per la stazione. Le facce sono un po’ deluse, ma nelle espressioni della gente che mi circonda sembra di leggere: “si è persa una battaglia, ma non la guerra”. Forse i più delusi siamo proprio io e la Vale. Saliamo in macchina, usciamo dal parcheggio e prendiamo la tangenziale per andare a riprendere la mia macchina lasciata davanti all’ufficio. Durante il breve tragitto spiego ancora il mio rammarico per aver visto una brutta partita in cui l’Unione non ha fatto niente per provare a vincerla. La Vale è d’accordo e contesta il cambio a centrocampo fatto da Di Costanzo a metà secondo tempo; io impreco contro Taccucci che, in occasione del gol, si è fatto saltare e insisto sul fatto che se avessero dato il rigore al Padova dopo due minuti la squadra avrebbe giocato in maniera diversa e avrebbe potuto vincere la partita. Poi salito nella mia macchina penso che comunque nonostante la brutta partita e la sconfitta è stata una bella serata, ricca di emozioni: la curva che si ferma compatta per cinque minuti per tributare il saluto a Pier; il battimano in suo onore; la malinconia nelle espressioni di chi lo conosceva; il “capitano” che porta i fiori sotto il settore; la grande esplosione del tifo dopo il silenzio iniziale; il saluto alla squadra nonostante la sconfitta del derby. Tutte emozioni che vanno al di là del risultato finale.

Alcuni amici padovani, che erano allo stadio, mi aspettano per bere una birra insieme e “sfottermi” per la sconfitta. Il bello di tifare una squadra è anche questo.

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storiAmestre

09/01/2007

di Matteo Melchiorre

Pubblico qui alcune mie considerazioni su storiAmestre. Sono già apparse sul settimanale Carta, allegato Veneto. Rispetto all'articolo scritto per la rivista Carta, questo che segue contiene una menda, a mio parere significativa. Da socio di tarda acquisizione, avevo messo insieme il deceduto periodico Altrochemestre con un'associazione omonima, Altrochemestre. Pensavo, insomma, che Altrochemestre fosse la rivista dell'associazione Altrochemestre la quale, però, non è mai esistita come associazione visto che già esisteva storiAmestre. Altrochemestre è una questione, e storiAmestre è un'altra questione ancora. Il mio è stato un errore bello e buono. Me ne scuso. Per questa pubblicazione on line, dunque, è stato eseguito il dovuto ritocco. Agli amici di storiAmestre (e Altrochemestre) propongo, però, di tenere a mente Marc Bloch: un errore, quando capita, ha sempre un perché. Ce ne può essere uno da aggiungere alla mia insufficiente conoscenza della storia di storiAmestre?

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