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La città invisibile

Il riferimento a Italo Calvino è evidente, ma il titolo di questa sezione del sito è un’archeologia di storiAmestre: riprende quello del primo convegno organizzato dall’associazione nel 1988. L'associazione, allora ai suoi primi passi, proponeva di riflettere sia sulla storia di Mestre e di quel più ampio territorio il cui sviluppo nel Novecento è stato determinato dalla presenza del grande polo industriale di Porto Marghera, sia sulle storie e sulla memoria dei suoi abitanti.

Da allora, “città invisibile” riassume lo spirito dell’associazione, che si può trovare descritto anche nell’articolo 2 del suo statuto. Dal 2006, il sito ne dà un’interpretazione ampia, allargando i confini della città invisibile e cercando legami tra chi abita in molte città invisibili.

Dare il nome alle vie. La nuova toponomastica nel Comune di Venezia (2015-2020)

16/04/2022

di Claudio Pasqual

Il nostro amico e socio Claudio Pasqual passa in rassegna le ventitré nuove intitolazioni di vie, piazze, rotonde, ponti, spazi pubblici deliberate dal Comune di Venezia tra il 2015 e il 2020, periodo che coincide con il primo mandato del sindaco Luigi Brugnaro. Uomini e donne, memorie extralocali e locali, esponenti della politica e del volontariato, dello sport e della vita religiosa, imprenditori e vittime. Con una riflessione sulle possibili motivazioni della giunta e una nota sull’intitolazione di una rotonda a Norma Cossetto.

…toponomastica, una nobile tradizione, e spiace 
vederla ridotta a strumento di propaganda faziosa…

(Alberto Cavaglion, Decontaminare le memorie, Add, Torino 2021, p. 124)

A Luisa e Mario

1. Il geografo Giuseppe Muti, intervistato una volta sull’argomento, ha risposto che “denominare una strada è un’espressione di potere, che perpetua nel paesaggio urbano la memoria di personaggi, date ed eventi giudicati (da chi?) meritevoli di onorificenza pubblica, e produce luoghi della memoria controllando l’infrastruttura simbolica della società”. Diversamente che in passato, nella nostra epoca i nomi delle vie pertengono integralmente alla memoria culturale, comunicano valori, sono veicolo di ideologie – e per questo la loro scelta è spesso fonte di controversie –, sono uno dei modi in cui una comunità – o, più propriamente, la parte che vi esercita il potere – immagina e rappresenta sé stessa. Per questo il peso dell’odonomastica, termine con cui si indica la denominazione di vie e altre aree di circolazione e spazi pubblici (dal greco odòs, strada), non va sottostimato.

L’ambito amministrativo-istituzionale che ho preso in considerazione è il Comune di Venezia, la mia città; le intitolazioni stradali prese in esame sono quelle deliberate dal 2015 al 2020 dalla prima giunta guidata dal sindaco Luigi Brugnaro, a capo di una lista civica – la “lista fucsia” – in coalizione con Forza Italia, la Lega e, dal gennaio 2019, Fratelli d’Italia (nel 2020 Brugnaro ha rivinto le elezioni, sempre con i medesimi partiti, ma non mi occuperò qui delle intitolazioni della seconda giunta del sindaco imprenditore). 

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Archiviato in:Claudio Pasqual, La città invisibile Contrassegnato con: Giorno della memoria, Mestre, Norma Cossetto, odonomastica, toponomastica, Venezia

La Comune: tramonto o alba? Pagine scelte per un anniversario

17/03/2022

di Enrico Zanette

Anche quest’anno ci affidiamo al nostro Enrico Zanette per ricordare l’anniversario dell’inizio della Comune di Parigi (18 marzo 1871). Riprendiamo alcune pagine dal suo recente Una e centomila. La Comune di Parigi del 1871 (manifestolibri, Roma) che sarebbe dovuto uscire al tramonto dell’anno anniversario tondo (1871-2021) e invece, per gli imponderabili dell’editoria, è diventato alba di un nuovo ciclo di ricostruzioni e riflessioni. Zanette si interroga su alcune questioni fondamentali che continuano a sollecitarci sul piano storiografico e politico, chiedendosi infine a quale Comune, tra le tante sognate a Parigi nel 1871 o immaginate in seguito a quegli avvenimenti, si rivolgono le nostre domande di oggi. 

Morta la Comune, viva la Comune! All’indomani del 28 maggio, tra il fumo delle macerie, emerge la seconda vita della Comune, un’esistenza fatta di letture mitiche, rappresentazioni simboliche e usi politici. È un’altra Comune quella che segue nell’immaginario dei posteri, una Comune che si moltiplica e si confonde confermando la sua natura enigmatica, una sfinge come la chiamava Karl Marx1. È una vicenda lunga e complessa, ricca di scontri, riletture e contaminazioni che dura fino ai giorni nostri. 

A dire il vero, questa storia non inizia con la fine, ma fin dai primi giorni, quando il governo con il sostegno della stampa conservatrice alimenta il mito di una Comune terroristica per minarne i consensi e indottrinare al massacro i soldati. In seguito, tra il 1871 e il 1873 escono un migliaio di pubblicazioni a tema in un clima di rigida censura che rende la condanna obbligata2. E non solo a parole. Per giorni la città non viene ripulita per consentire ai cittadini di aggirarsi inorriditi tra le rovine fumanti della rivoluzione, mentre, per riparare ai peccati dei comunardi viene dato il via alla realizzazione di una – da anni progettata – basilica, il Sacro Cuore, proprio sulla collina di Montmartre, origine dell’insurrezione. […]

All’origine dell’insurrezione: il parco di artiglieria al Champ des Polonais (sulla collina di Montmartre), 18 marzo 1871
(fonte: internet)
 

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  1. Karl Marx, La guerra civile in Francia, Roma, Editori Riuniti, 1990, p. 31. [↩]
  2. Più precisamente, la censura comincia nel 1872 lasciando una breve finestra aperta a letture meno partigiane. [↩]

Archiviato in:Enrico Zanette, La città invisibile Contrassegnato con: 18 marzo, 18 marzo 1871, Andrea Lanza, anniversari, Comune di Parigi, Parigi, storiografia

Da San Miguel alla Cita. Intervista a Rodrigo Díaz, esule cileno in Italia dal 1974 e residente a Marghera dal 1976

01/02/2022

Lorenzo Feltrin intervista Rodrigo Díaz

Nel corso delle sue ricerche su Porto Marghera, Lorenzo Feltrin ha raccolto la storia di vita di Rodrigo Díaz, che nel 1974, pochi mesi dopo il golpe di Pinochet, riuscì a scappare dal Cile e a rifugiarsi in Italia. Tuttora residente a Marghera, alla Cita, è direttore artistico del Festival del Cinema Ibero-Latino Americano di Trieste. Il testo che segue è una breve rielaborazione di due lunghe interviste biografiche realizzate nel 2021. La militanza nell’Unidad Popular e l’11 settembre interrompe il lavoro a pagina 68; mesi di clandestinità e due arresti; l’arrivo a Roma nell’estate del 1974 e per il primo anniversario del golpe è a Mestre; un appartamento in via Galuppi e poi nel 1976 diventa “il primo extracomunitario della Cita”; gli incontri con i compagni a Marghera: ci si capisce peggio in italiano o in dialetto?; il cinema per affrontare “l’incertezza e lo sradicamento dell’esilio”.

Sono nato nel 1950 nella Valle di Colchagua, la terra del vino Carmenère, circa 140 chilometri a sud di Santiago. Mio padre faceva l’autista in un latifondo ma morì quando avevo meno di due anni. Mia madre restò così senza casa né reddito e tornò dai suoi a San Fernando, la capitale provinciale. Ma lì non trovava di che vivere e decise di trasferirsi da una sua sorella a Santiago, nel quartiere di San Miguel, dove sono cresciuto.

San Miguel era un quartiere popolare ma piuttosto misto, c’erano sia povertà che classe media. Fu lì che costruirono il primo monumento a Che Guevara in Cile, che scomparve naturalmente dopo il golpe. E fu lì che si formò la mia coscienza politica. Mia mamma simpatizzava per Salvador Allende dal 1952, da quando lei aveva 23 anni. Già a 13 anni avevo amici militanti e nel liceo mi attivai in prima persona nel Partito Socialista Cileno. Nel 1969, mentre studiavo all’università, cominciai a lavorare nella casa editrice Zig-Zag, che durante l’Unidad Popular passò alla “area sociale dell’economia” e si trasformò in «Quimantú»: si trattava di un progetto volto a “democratizzare il libro”, producendo opere a prezzi politici e distribuendole nei circuiti popolari. Per me fu una scuola, sia per le persone con cui lavorai sia perché mi permise di essere sempre aggiornato sulla politica di quegli anni.

(Immagine tratta da una pagina del sito https://www.antiwarsongs.org/)

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Luminello feltrino. Riflessi di luce da carte antiche

31/12/2021

di Guido Gambaredo, Romano Banco

Eravamo in cerca di un modo per condividere i nostri voti per un buon proseguimento nel 2022. Il nostro amico Gigi Corazzol ci ha segnalato lo scritto che offriamo grazie alla cortesia degli autori Gambaredo e Banco. Un gioco per l’ultimo giorno dell’anno, cercando luce e vite tra le carte conservate in due buste dell’Archivio della Curia Vescovile di Feltre. È un testo lungo, che speriamo accompagnerà – tra lettura e riletture – molti momenti dell’anno (degli anni) a venire. Qui di seguito ne offriamo solo le premesse, la versione integrale si legge cliccando qui.

Fiammelle qua e là per i prati 

friggono luci disperse ognuna in sé

quelle siamo noi, racimoli del fuoco

che pur disseminando resta pari a se stesso

è zero che dona, da zero, il suo vero

Andrea Zanzotto, Conglomerati

(Mondadori, Milano 2009, p. 121)

 

 

 

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Smuovere mezzo secolo di inerzia. Un bilancio e una proposta politica sul Parco fluviale del Marzenego 

24/12/2021

di Giorgio Sarto

Pubblichiamo il testo dell’intervento che il nostro amico e socio Giorgio Sarto ha tenuto il 16 giugno 2021 all’incontro del gruppo di lavoro di storiAmestre sul fiume Marzenego. Un bilancio di un’attività nata intorno al Contratto di Fiume ma che ne ha superato limiti e inerzie, portando avanti progetti autonomi e riuscendo a rivitalizzare, con l’aiuto di altre associazioni e di una petizione popolare, un’idea vecchia di mezzo secolo: la realizzazione del Parco fluviale del Marzenego. E una conclusione su prospettive future aperte e con una proposta politica da discutere. Lo pubblichiamo dopo che il 10 dicembre 2021 alcune associazioni della città metropolitana (Pro Loco di Martellago, I Sette Nani, Dalla Guerra alla Pace Forte alla Gatta, storiAmestre, Polisportiva Arcobaleno, Batemo i Trosi), hanno ufficialmente richiesto al sindaco della città metropolitana di Venezia e al Presidente del Consorzio di Bonifica Acque Risorgive di essere “messe a conoscenza del progetto di fattibilità tecnico economica del Parco del Marzenego o, nel caso che la fase progettuale non sia così avanzata, dello stato della attuale progettazione”.

Il Contratto di Fiume non c’è più, le avvisaglie sono remote, abbiamo concluso con la Carta degli obiettivi, firmata nel dicembre 2015, dove grazie a noi, e non certo al Consorzio Acque Risorgive, è stato inserito anche il Parco fluviale del Marzenego.

Di fronte alla passività del Consorzio (il direttore Carlo Bendoricchio ogni volta che chiedevo: e il Contratto di fiume? Si spaventava e si ritirava senza rispondere) e alle esperienze pure utili con le scuole, credo che abbiamo fatto una mossa giusta portando avanti, anche in collaborazione con la proloco di Martellago, l’idea e l’azione del parco. Abbiamo partecipato più volte alla molinara di Martellago, dato il nostro contributo al convegno sul parco metropolitano e fatto incontri i più strani. Con Domenico Rampazzo della proloco e l’ex Commissario agli allagamenti Mariano Carraro siamo andati di brutto alla Direzione dell’ufficio Urbanistica di Venezia dicendo: ma il Comune vuole fare, o non vuole fare il parco?

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Una “quasi capitale” ebraica (dimenticata) della Terraferma veneta. Mestre alla fine del Trecento

21/12/2021

di Renata Segre

Riprendiamo alcune pagine dal libro di Renata Segre, Preludio al ghetto di Venezia. Gli ebrei sotto i dogi (1250-1516), pubblicato qualche giorno fa dalle Edizioni Ca’ Foscari e disponibile online. Nel suo studio l’autrice ricostruisce la storia della presenza ebraica a Venezia prima dell’istituzione del Ghetto nel 1516. Smentendo “il mito” di uno stanziamento di ebrei a Venezia solo dal 1516, Renata Segre documenta come, a partire dalla fine del Trecento, Mestre fosse “centro nevralgico” della comunità ebraica insediata sulla Terraferma veneta. Attorno al castello e in quella che è l’attuale calle del Gambero operavano infatti banchi di prestito feneratizio, e avevano sede una sinagoga, un ostello e un cimitero ebraici. Queste vicende – è il caso di dirlo: di “una città invisibile” – sono ora riportate alla luce da Renata Segre grazie a una ricerca ventennale, e alla documentazione conservata nell’archivio dell’Antica Scuola dei Battuti a Mestre. 

Alla stregua di Treviso, anche Mestre era divenuta città suddita veneziana nel Trecento; alla stessa stregua di Treviso, e dopo Padova, anche a Mestre i toscani (in questo caso, più precisamente, dei fiorentini) avevano dovuto cedere il passo, ritirandosi progressivamente da quell’attività di credito e di esazione dei dazi, di cui erano stati a lungo i protagonisti. Ma dalla nostra angolatura, Mestre, come già evidenziato, spicca per una sua particolarità: durante quasi un secolo e mezzo (almeno fin verso il 1509) fungerà da centro nevralgico – quasi capitale – della comunità ebraica insediata sulla Terraferma veneta1. Associando una posizione geografica di massima prossimità a Venezia al distanziamento per via dell’acqua da navigare, meglio riproduceva, anche plasticamente, lo scarto che Venezia aveva sempre inteso serbare nei confronti di questi infedeli2. Una visione teleologica, e pure teologica, cui non facevano difetto concretezza e lungimiranza: la presenza dei banchi ebraici, e delle attività indotte, sarebbe stata in grado di trasformare Mestre da borgo fortificato a difesa della capitale in una vera città popolosa, prospera e vivace, se Venezia l’avesse sinceramente desiderato.

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  1. In una delibera del 1527 i pregadi vollero condensare la storia di centoquarant’anni di prestito ebraico a Mestre: «Li savii et religiosi progenitori nostri» il 27 agosto 1394 «licenciorno […] li hebrei feneranti da Venezia mandandoli a star a Mestre, ma avendosi sempre sforzato quelli malignamente romper li nostri ordini, fu neccessario metter molte parti, et precipue quelle del 1402, 1496, […] fino al 1508, che la prima volta con sue insoportabil versutie et fraude li furno conduti iterum per questo Conseglio a fenerar qui, et doppoi del 1520, 1523, 1525 sono stati continuamente confirmati per questo Conseglio a fenerar a Venezia, et cristianamente questa cosa è sopra ogni altra admiranda et notanda, che sempre che si ha trattà de remover li hebrei feneranti di Venezia se ha visto li prosperi successi al publico et all’iniunti, et sempre che è stata trattà di condurli a fenerar a Venezia si ha manifestamente visto il contrario» (Archivio di Stato di Venezia [d’ora in poi ASVe], Ufficiali del Cattaver [d’ora in poi Cattaver], b. 1, reg. 2, Capitolare, ff. 126v-128v, 18 marzo 1527; G. Gallicciolli, Delle memorie venete antiche profane ed ecclesiastiche raccolte da Giambattista Gallicciolli. Libri tre, 8 voll., Venezia 1795, 2, p. 306, § 940). [↩]
  2. Per illustrare la prossimità tra Mestre e Venezia si consideri che nel suo punto più stretto la Terraferma dista 2 leghe e ½ da Venezia, e questa, a sua volta, misura 1 lega per lungo e ½ per largo (Descripcion ou Traicté du gouvernement et regime de la cité et Seigneurie de Venise. Venezia vista dalla Francia ai primi del Cinquecento, a cura di Ph. Braunstein, R.C. Mueller, Venezia-Paris, 2015, p. 88). [↩]

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