di Filippo Benfante
Per i nostri tradizionali auguri di buon Primo maggio, presentiamo alcune note che fanno riscoprire un Luigi Meneghello in una veste inconsueta: come fonte per un canzoniere della Resistenza pubblicato nel 1960. Torniamo così su temi che ci sono sempre cari: il canto sociale, la ritualità del movimento operaio, la speranza di un mondo migliore più libero e più umano.
1. “Cosa volevano le trombe?”: comincia così il secondo capitolo dei Piccoli maestri, quello in cui – dopo aver raccontato il ritorno, qualche settimana dopo la pace, con la Simonetta sui luoghi dove facevano gli “atti di valore”, o forse “le fughe” – Meneghello comincia il flashback che andrà dalla primavera del 1943 a Merano fino alla Liberazione a Padova su cui si chiude il libro. Quelle trombe, che talvolta sembravano parlare – “Chi è malà? chi è impestà?” –, si direbbe annuncino anche la musica e le canzoni che ricorrono nel racconto.
Le prime strofe compaiono poco più avanti e ci ricordano la lunga storia di Bella ciao: è questione di una morosa, la Beata, “rossa di capelli, mi veniva incontro sorridendo, dove finisce Maia bassa e comincia Merano”; anzi: “Non eravamo morosi. Ci facevamo compagnia: mi è restato il senso di aver trascorso le mie ore di libera uscita con la Beata sul ciglio superiore dell’Italia, tenendoci afferrati per non cadere”. Senza transizione, parte la musica “Ha mangiato l’insalatina / poverina morirà. // Se morissi questa sera / mi farete seppellir. // Mi farete seppellire / sotto l’ombra d’un bel fior”; è il piantone Giazza a cantare, disteso sulla branda, “con voce altissima, quasi femminea”: “E la gente che passeranno / le diranno: Che bel fior. // Sarà il fior della Rosina / che l’è morta per amor”1. È la canzone della Rosina, un canto narrativo che risale al XIX secolo, su cui Lia Botter ci ha scritto qualche anno fa; e prima ancora era stato Marco Toscano a ripercorrere, con l’aiuto di un saggio di Cesare Bermani, la storia di Bella ciao.
2. L’anno scorso Piero Brunello, facendo l’elogio degli Stornelli d’esilio di Pietro Gori, ha ricordato la versione che Meneghello, insieme alla Simonetta, canta agli inglesi che entrano in Padova liberata: “Sono passati gli anni / sono passati i mesi / sono passati i giorni / e ze rivà i inglesi” “La nostra patria è il mondo intèr… / solo pensiero – salvar l’umanità”2. La cantavano già in coro sull’Altopiano, in una versione leggermente diversa, in quel momento ancora propiziatoria: “Sono passati gli anni / sono passati i mesi / non passaranno i giorni / e sbarcarà i inglesi // La nostra patria è il mondo intèr / la nostra fede la libertà / solo pensiero – salvar l’umanità”. “Vedevo le espressioni persuase, e mi rallegravo con loro; ci sentivamo forti, e ben provvisti di alleati”3.
3. È questa seconda versione, quella dei giorni della Resistenza e non quella dei giorni della Liberazione, che è stata registrata in alcuni canzonieri partigiani. Quello che mi interessa qui si intitola Canti della Resistenza italiana, raccolti ed annotati da Tito Romano e Giorgio Solza, con una introduzione di Roberto Leydi, Edizioni del Gallo, Milano 1960. È un bellissimo libro-strenna per il Natale 1960 (finito di stampare 25 novembre), lussuoso per carta e rilegatura, in cofanetto. Tra le pagine, 61 illustrazioni “disegni di artisti italiani antifascisti eseguiti dal 1942 al 1945 scelti e presentati da Mario De Micheli”; nelle ultime pagine alcune trascrizioni musicali, a cura di Mario Codignola. Ho fatto fatica a trovarlo: nel catalogo della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze risulta mancante; prima mi son chiesto se è stata l’alluvione del 1966 a portarselo via; ma quando, presso la Fondazione Turati e Pertini (aperta al pubblico per tre ore al giorno per quattro giorni alla settimana), sono riuscito a vedere quanto bello è, ho pensato che forse a portarselo via non è stata l’acqua.
Se capisco bene si tratta del primo canzoniere partigiano compilato con intenti anche scientifici, di raccolta e documentazione nell’ambito della musica popolare e del canto sociale, che in quegli anni richiamavano l’attenzione di molti ricercatori. I curatori Romano e Solza lo presentano come il primo studio diretto condotto su “i foglietti e i giornali dell’epoca, gli opuscoli editi dopo il 25 aprile, i testi inviati personalmente dagli autori, trascritti da altri, e le registrazioni dirette”4. Tutto il materiale raccolto nel corso della ricerca fu depositato presso l’INSMLI (ma non sono riuscito a identificarlo facendo una ricerca negli inventari online).
Tra gli informatori interpellati da Romano e Solza c’è anche Luigi Meneghello, attestato in tre occasioni: per E sbarcarà i inglesi, appena ricordata, per Roana sei bella e per Bojorno.
Che queste testimonianze possano essere considerate anche come materiali preparatori, come training, per I piccoli maestri? Dalla nota introduttiva alla seconda edizione, uscita nel 1976, si sa che Meneghello non aveva nulla in contrario a chiamare il suo libro “romanzo”, così come avevano fatto i suoi due primi editori, Feltrinelli e Rizzoli, ma quel che si era ripromesso era di “dare un resoconto veritiero dei casi miei e dei miei compagni negli anni dal ’43 al ’45: veritiero non all’incirca e all’ingrosso, ma strettamente e nei dettagli. […] Mi ero imposto di tener fede a tutto, ogni singola data, le ore del giorno, i luoghi, le distanze, le parole, i gesti, i singoli spari. Come per ciò che ho scritto sul mio paese, non prendevo nemmeno in considerazione la possibilità di adoperare altra materia che la verità stessa delle cose, i fatti reali della nostra guerra civile, così come li avevo visti io dal loro interno”5.
4. Nella versione di E sbarcarà… che Meneghello riferisce a Romano e Solza c’è una strofa in più rispetto a quella che si leggerà nelle pagine dei Piccoli maestri quattro anni dopo. In effetti è una strofa di cui, con la nostra sensibilità di oggi, possiamo fare a meno: “E voi fanciulle belle / Che coi fascisti andate / Le vostre chiome belle / Presto saran tagliate”.
Nella loro breve nota, i curatori spiegano: “Questa canzone fu cantata tra il monte Zebio e l’Ortigara, a partire forse dalla primavera del 1944. Il testo è di autore ignoto. Della musica non si hanno notizie. Il testo è citato da EE (versione incompleta)”6. EE è la sigla con cui i curatori indicano Meneghello (all’interno di un lungo elenco che parte da A e arriva a AAA).
Della musica possiamo ormai dire di saper tutto; mi piacerebbe capire quel “testo […] citato da EE (versione incompleta)”: vuol dire che Meneghello l’aveva già pubblicato da qualche parte? e se la versione è incompleta è perché lui ricordava solo la prima strofa – la seconda completata da un altro informatore – o perché dopo la seconda strofa ce n’erano altre?
5. Con Roana sei bella deve intendersi la variante di Col parabello in spalla che Meneghello ricorda nel capitolo 6: «I ragazzi di Roana facevano una specie di corporazione, quasi un clan, essendo tutti fratelli, cugini, cognati, compagni di scuola e di naia, figliocci e santoli delle stesse persone, e insomma gente dello stesso paesino, una piazza, due o tre contrade. […] Mettevano nelle canzoni il nome del loro paese (i ritornelli dicevano: Roana sei bella!) e questi ci colpiva. Pareva che fossero lì per amore di questo gioiello di un paese, e che non sognassero altro che tornare a vederlo dopo la guerra.
Parabello in spalla – caricato a palla / Sempre bene armato – paura non ho. / Quando avrò vinto – ritornerò.
Cantavano anche una canzone che era un dialogo tra la Comare e l’Uccellin, il quale ultimo interloquiva “sbattendo gli occhi,” e questo particolare piaceva molto a Enrico. Bene diceva che era fresca»7.
Romano e Solza precisano che il testo di Col parabello in spalla è riferito da Mario De Micheli8. Non pubblicano quello con la variante Roana sei bella, che viene segnalata a parte, senza altre indicazioni salvo la fonte Luigi Meneghello, nell’elenco completo delle canzoni raccolte presentato in fondo al volume.
(tratto da A. Virgilio Savona, Michele L. Straniero, Canti della Resistenza italiana, Bur-Rizzoli, Milano 1985, p. 537.)
6. Quella che a me piace di più è pubblicata da Romano e Solza sotto il titolo Bojorno. La nota avvisa che si tratta di una “[c]anzone cantata dai partigiani bellunesi […] satira dell’intercalare usato dai compagni padovani: «Vedemo, spetemo». Il testo è di anonimo. La musica è quella di Là sul Cervino, cioè la stessa di Lassù a Noveis. Il testo è riferito da EE”. Cioè, come già sappiamo, da Meneghello.
“E se i tedeschi / Ne ciapa de giorno / Allora bojorno, / Allora bojorno. // E se i tedeschi / Ne ciapa de note, / Madona che bote, / Madona che bote. // Ma se i tedeschi / Ne ciapa tel treno, / Vedemo, spetemo, / Vedemo, spetemo”9.
Siamo all’inizio del quarto capitolo dei Piccoli maestri, Meneghello è arrivato con alcuni compagni nel bellunese: quell’idea di andare in montagna che era spuntata da sé, associata “con la sensazione che il fermento popolare dei primi mesi fosse ormai sbollito, l’occasione perduta. Ora bisognava arrangiarsi da sé”. Con i bellunesi, su in montagna, “c’erano anche tre o quattro ragazzi di pianura, uno era addirittura da Venezia, lo chiamavano Ballotta e aveva le ulcere. Non mi ricordo dove le avesse, ma le aveva: e i suoi tentativi di fare il partigiano, con queste ulcere dentro, erano commoventi. […] Dopo qualche settimana andammo a riconsegnarlo a certi parenti che aveva nell’Agordino, e lo lasciammo là. A lui venne da piangere, e a me viene in mente che se le medaglie fossero una cosa seria, il nostro primo grande decorato dovrebbe essere lui. Abbiamo due medaglie d’oro fra i nostri compagni più stretti, uno è Antonio [Giuriolo], e l’altro è il Moretto [Rinaldo Rigoni]; ma se i decoratori avessero idee chiare sulle medaglie, sarebbe giusto proporre anche Ballotta, veneziano con le ulcere”10.
C’erano anche due padovani, studenti universitari, “bravi e fratelli”. Uno dei due aveva una chitarra e si mise a comporre la canzone della banda: «la detestai immediatamente. Diceva fra l’altro: È freddo il vento, la notte è scura – ma il partigiano non ha paura; questo può passare, ma poi diceva anche: pensa alla mamma, la fidanzata – la sola donna ch’egli abbia amata; e questo assolutamente non va. Purtroppo ai popolani la canzone pareva molto fina. L’autore la cantava (era lentissima) e loro gli andavano dietro sforzandosi di imparare le parole, e dicevano negli intervalli: “Questa canzone qua ne farà della strada”. Chissà che vada in Polonia, pensavo, così non la sentiamo più»11.
L’altro fratello invece parlava “dei gesuiti e della loro grande abilità nel manovrare idee e persone” (che questo fratello, aggiungo io, fosse un appassionato del padovano padre Pendola di Nievo?!). «Neanche i gesuiti mi persuadevano. Lasciamoli stare, pensavo, parliamo di guerra. Ma quando si parlava di guerra i due di Padova dicevano continuamente: “Spetémo… vedémo…”. Mi è restata l’impressione che nelle guerre civili i padovani tendano a essere riflessivi, opportunisti. Sentivo che questi due rappresentavano il buon senso, ma non eravamo in una crisi? Cosa c’entrava il buon senso?»12.
Nei Piccoli maestri Meneghello si ferma qui: si sarà detto che ce n’era già abbastanza? Bojorno si ritrova tal quale nel canzoniere curato nel 1985 da Antonio Virgilio Savona e Michele L. Straniero; oltre a quanto già fissato da Romano e Solza, Savona e Straniero riprendono una nota apparsa nel Disco del Sole n. 44: “Era diffusa sull’altipiano di Asiago (informazione di Gigi Ghirotti)”13. Si direbbe allora una canzone nata nel bellunese e poi “importata” dai piccoli maestri in persona.
Gigi Ghirotti (1920-1974), vicentino, anche lui partigiano dopo l’8 settembre, è tra le persone che Romano e Solza ringraziano nel 1960. Che sia stato lui a far da tramite tra loro e Meneghello?
7. Dice le canzoni, i piccoli maestri e il 25 aprile… ma il Primo maggio?
Maggio 1944, “spostamenti, trasferimenti: giorni ballerini”, prima “nel luogo che si chiama Zingarella, alle spalle del monte Zebio”, poi marce a risalire verso nord. “Ogni tanto ci si staccava in due o tre in missioncine e si stava fuori anche qualche giorno”. E così con Lelio incontrano “una capannetta fatta di tronchi e coperta di frasche; dentro pareva di essere in un sottoscala bislungo. Da una parte e dall’altra c’erano delle assi che formavano due giacigli, e per terra un rozzo focolare. Quando ci arrivammo noi era vuota, ma c’erano dei fagotti, un paiolo e altri oggetti”. Verso sera arrivano: due “mugari”. Un’attività stagionale: a tagliar mughi per ricavarne carbonella durante i mesi estivi; dodici ore al giorno per una settimana di sette giorni, poi un’altra di sei; il giorno di riposo ogni quindici giorni fatto di sette ore a scendere dalla quota fino in paese per recuperare provviste e di nove-dieci ore a risalire, perché carichi14.
“Tornai a domandare dei mughi. Non sapevo neanche che esistessero, i mughi, prima di venire in Altipiano; mi avevano affascinato immediatamente. Non sono veri arbusti, e non sono alberi; sono una stirpe dei greppi su cui spargono le loro foreste, alte press’a poco come un uomo”.
“Ci facemmo spiegare tutto. Il difficile del lavoro è che il mugo è intrigoso da tagliare; non duro, ma resistente; è come tagliare un pezzo di copertone con l’accetta. E quanto guadagnavano? Le cifre non le ricordo più, c’entrava un cinque, credo che fossero i quintali che un mugaro può tagliare in un giorno, e un dieci o un dodici, le lire al quintale, o al giorno; so che veniva un guadagno abbastanza buono, e anzi questi mugari ne erano piuttosto orgogliosi, in teoria veniva un po’ più (o un po’ meno) della paga di una maestra, nei mesi che lavoravano; ma quello che faceva spavento era la forma brutale, impudica del cottimo. Si trattava letteralmente di impiegare tutte le forze di un uomo, e tutte le sue ore in un giorno, e tutti i suoi giorni in una stagione, ad accumulare quintali di mughi, e a tenersi in vita per poterli accumulare”.
E le accette che si rompono, eventualità da mettere in conto: “[i]l giorno che si rompe l’accetta si lavora per lei, più o meno”.
Questo lavoro nei mesi estivi, il resto dell’anno per lo più disoccupati.
«“Lelio,” dissi. “Questo mi sembra un caso limite, una specie di curiosità, ma non credo che sia una curiosità. Ci devono essere un sacco di italiani che se la passano press’a poco così.”
[…]
“Dopo la guerra,” dissi, “se uno queste cose qui se le dimentica, si potrebbe chiamarlo un bel vigliacco.”
“Non servirebbe a niente,” disse Lelio»15.
Forse un, sempre sobrio, cedimento alla retorica? Oggi un groppo e tanta rabbia.
- Luigi Meneghello, I piccoli maestri [1964-1976-1986], Mondadori, Milano 1995, pp. 13-14. [↩]
- Ivi, p. 261 [↩]
- Ivi, p. 80. [↩]
- Canti della Resistenza italiana, raccolti ed annotati da Tito Romano e Giorgio Solza, con una introduzione di Roberto Leydi, Edizioni del Gallo, Milano 1960, p. 89 [↩]
- Cito dalla Nota introduttiva rivista negli anni Ottanta, pubblicata in appendice all’edizione Mondadori, Meneghello, I piccoli maestri cit., pp. 266-267. [↩]
- Canti della Resistenza cit., p. 172. [↩]
- Meneghello, I piccoli maestri cit., pp. 124-125. [↩]
- Canti della Resistenza cit., p. 138; a p. 253 anche lo spartito. [↩]
- Canti della Resistenza cit., p. 161 [↩]
- Meneghello, I piccoli maestri cit., p. 50. [↩]
- Ivi, p. 51. In effetti si direbbe che la canzone non sia mai arrivata ai canzonieri partigiani del dopoguerra. [↩]
- Ibidem. [↩]
- Canti della Resistenza italiana N. 6, a cura di M. L. Straniero, cantano G. Bertelli, R. Assuntino, G. Boninsegni, C. Ciarchi, cit. in A. Virgilio Savona e Michele L. Straniero, Canti della Resistenza italiana, Bur-Rizzoli, Milano 1985, p. 82. [↩]
- Meneghello, I piccoli maestri cit., pp. 118-121. [↩]
- Ivi, pp. 121-122. [↩]