di Filippo Benfante
(Quelli che seguono sono appunti scritti "a caldo" il 27 e 28 ottobre 1996; li ho rivisti nel marzo 2006 prima di pubblicarli su questo sito; NdA)
1. Devo essere alla Casa del popolo di Ca’ Emiliani sabato 26 ottobre 1996 alle 15. Ho un appuntamento con un fotografo, Stefano Ghesini, che conclude l’allestimento di una mostra di immagini del quartiere che sarà inaugurata il giorno dopo. È tipico: documentazione e memoria alla vigilia di una distruzione. Stanno per abbattere le ultime vecchie case, casette e baracche, e anche la Casa del popolo farà la stessa fine nel giro di poco. Sono stati Piero Brunello e Fabio Brusò a coinvolgere me e alcuni altri in una ricerca che stanno completando. Ci chiedono di andare alla Casa del popolo per avere le impressione di ragazzi giovani (siamo tutti sui vent’anni) che non ne sanno nulla. È una specie di esercizio di curiosità umana, per noi e per loro.
Dicono che non dovrei avere problemi ad arrivarci: sono pur nato a Mestre e ci ho sempre vissuto. A Mestre, appunto, e di Ca’ Emiliani so solo due cose: primo che è un luogo reale, una località di Marghera, dalle parti del supermercato Panorama, celebre soprattutto per le sue baracche; secondo che è un luogo immaginario che si usa per fare paura agli adolescenti di Mestre (dopo una certa età l’uomo nero non funziona più, allora si dice che a fare troppo gli spavaldi si finirà per prenderle da un fio di Ca’ Emiliani o meglio «Ca’ Emi»; ci sono poi varianti: il teppista manesco può venire dalla Rana, dalla Cita, da Catene, da Campalto, usava anche Macallè ma adesso non lo sento più).
Mi sembra che la cosa migliore da fare sia guardare nel Tuttocittà dell’elenco del telefono. Non c’ una «via Ca’ Emiliani», né a Mestre né a Marghera; nemmeno nella tavola topografica che dovrebbe corrispondere più o meno alla zona, non c’è traccia della dizione «Ca’ Emiliani». È come dire che devo andare in un luogo che esiste solo nella tradizione orale. Ma mentre lo sfogliavo in cerca d’ispirazione, l’elenco telefonico si è aperto alle pagine degli abbonati di Bibione; dopo l’ultimo bibionese c’è un elenco alfabetico di località tra cui c’è anche Ca’ Emiliani e la didascalia dice «Abbonati vedi Venezia». Non mi aiuta ma almeno mi conforta: c’è un riconoscimento ufficiale.
So che in via Rinascita, a Marghera, c’è un palasport (è nuovo, avrà due anni) dove gioca una squadra di pallacanestro che si chiama Ca’ Emiliani; presumo che il luogo che cerco non sia così lontano da lì e quindi sarà un buon punto di partenza. Poi chiederò.
Mi è capitato di giocare in questa palestra due settimane fa. Forse è anche per questo che son così fresco di luoghi comuni su «Ca’ Emi». La prima cosa che ti insegnano quando sei bambino e inizi a giocare a pallacanestro (ma la stessa cosa varrà per il calcio, il nuoto, ecc.) è che le cose di valore non vanno lasciate in spogliatoio incustodite; è un rito: uno a turno tira fuori un sacchetto e fa «la borsa degli ori», che viene affidata a un accompagnatore o portata in panchina. La sera in cui ho giocato a Ca’ Emiliani alcuni miei compagni hanno scherzato se era il caso di portare in campo anche i vestiti.
Finita l’inchiesta preliminare, parto in bicicletta da casa mia, vicino alla stazione, alle 14.30, con in mente il percorso cavalcavia della «VEMPA», via Fratelli Bandiera, via Beccaria, via Rinascita. Incontro poco traffico, soprattutto poca gente a piedi o in bicicletta. Allora chiedo informazioni alla prima occasione, a una signora che attende l’autobus all’inizio della via del Lavoratore. Chiedo se sa dov’è di preciso la Casa del popolo; «è a pochi metri», e mi manda dritto al circolo leninista.
Allora raggiungo il palasport; nel parcheggio c’è un gruppo di ragazzi con le borse sportive, penso che ci sia una partita, ma non mi pare una buona idea chiedere a loro, mi sembrano la squadra ospite. Mi avvicino a un’altra signora in bicicletta e pongo la solita domanda. La signora dice con perfetto accento veneziano di non essere di quelle parti, ma se cerco Ca’ Emiliani devo andare almeno una strada oltre, verso il Panorama per intenderci. Dunque pare che il palasport di Ca’ Emiliani (davanti al quale si trova il «Campo sportivo Ca’ Emiliani», l’ho notato solo ora) non sia esattamente a Ca’ Emiliani.
Seguo comunque il consiglio. Torno verso via Fratelli Bandiera e prendo la prima a destra. Alla fine della strada, trovo un bar che espone la locandina della mostra fotografica e penso di essere arrivato. Entro e chiedo con un giro di parole (mi vergogno un po’) che mi qualcuno mi spieghi dove sono. Un signore mi dice finalmente che la mostra è «al Partito», sinonimo (e, mi pare, dizione preferita) per Casa del popolo. Per arrivarci devo attraversare un piccolo parco (ovvero uno spiazzo coperto d’erba attraversato da una passerella in cemento), poi voltare a destra e andare sempre dritto sino al fondo della strada: è una casa rossa. Eseguo senza guardarmi troppo intorno, sono tutto concentrato a individuare una casa rossa. Vedo che sulla sinistra ho un canale e che sullo sfondo ci sono prati, parte occupati da capannoni, parte da roulotte.
2. La prima cosa che noto della Casa sono le bandiere sulla cancellata. Una bandiera inglese, una della repubblica di Venezia (ripensandoci dev’essere quella della regione), una della Germania (mi pare quella, pre-unificazione, della Germania Ovest), due della comunità europea, poi una del partito comunista (ma non distinguo se si tratta di Rifondazione o del vecchio PCI) e una con l’immagine di Che Guevara («Hasta la victoria»). Sono tutte sporche e lise. La Casa è tutta rossa, pianoterra e primo piano, la tipica casetta che disegnano i bambini. C’è un balcone al centro del primo piano con un tricolore, pure malconcio. Sono le tre meno dieci, tutto sommato non ci ho messo molto e sono in anticipo sull’appuntamento. Parcheggio la bicicletta. Vedo dei rom (che immagino abitino nelle roulotte) nel prato dietro «il Partito»; una macchina, un motorino e un paio di bici parcheggiate. Un po’ dopo la Casa del popolo un ponte che passa il canale e oltre una «casetta», una delle famose baracche di Ca’ Emiliani. Ci sono due piloni dell’alta tensione. Entro e mi presento alla signora Anna, che gestisce il bar, come amico di Fabio Brusò. Dentro ci sarà una decina di persone, tutti sui quarant’anni, salvo un ragazzo (avrà 14 anni al massimo). Inizio a guardare le foto e a fare conoscenza delle persone e del locale. La stanza in cui sono prende quasi tutto il pianoterra. Sulla sinistra, entrando, sono disposti i tabelloni con le foto. Alcuni le stanno commentando, una signora anziana ricostruisce genealogie rimettendo insieme foto che erano state separate. A destra ci sono due tavoli e una porta che non so dove conduca (passerò tutto il pomeriggio nella stessa stanza). In fondo il bancone del bar. Appesi alla parete di destra alcuni quadri dall’aria molto vecchia, foto dell’attività della sezione (una sorta di mostra fotografica permanente). Tutto appare piuttosto vecchio. Fuori c’è ancora il sole, ma dentro la luce è accesa, è debole, un neon; sul soffitto c’è anche un ventilatore a pale. Affissa sopra un tavolo, una poesia celebra la tenacia dei gestori che non ne vogliono sapere di chiudere malgrado la caduta del muro di Berlino. Quando la signora Anna si accorge che la sto leggendo, mi interrompe e mi porta a un cavalletto aperto all’esterno del «Partito». Tra l’annuncio della mostra fotografica e il menù del veglione del prossimo capodanno («Si accettano prenotazioni sino al 24 dicembre»: 30.000 lire a persona, il menù è abbondante nel cibo – anche la pasta e fagioli alle 5 del mattino –, ma solo un litro di bianco per quattro), ci sono altre due poesie nobilitate dal fatto di essere state pubblicate in un libro di una ricercatrice americana, di San Francisco, intitolato Partisans. Una è firmata Sandro Spinazzi, sullo stesso tema della resistenza, l’altra è della ricercatrice americana ed è dedicata ai gestori Anna e Armando. La signora Anna mi dice che la studiosa sarà presente all’inaugurazione di domenica. Non riesco più a finire di leggere la poesia all’interno perché al tavolo si è installato un signore piuttosto anziano, dall’aria trasandata, che ha davanti a sé un grande bicchiere pieno di bianco. Se ne starà là seduto in silenzio per tutto il tempo, con l’unico svago di svuotare e riempiere di nuovo il bicchiere. In compenso mi mostrano delle foto delle ultime feste (un veglione di Capodanno?) al «Partito».
Inizio a parlare anche con le altre persone presenti. All’inizio faccio fatica a comprendere quello che mi raccontano, capisco le parole (a volte il dialetto stretto mi mette in difficoltà), ma non ricostruisco il senso di alcune descrizioni o eventi. Forse però sono io che non mi faccio capire quando chiedo qualcosa. Mi mostrano la foto di Scalfaro all’inaugurazione della chiesa del Cristo Lavoratore, il primo maggio del 1954. Chiedo se c’erano anche dirigenti comunisti alla cerimonia. La signora Anna mi spiega che quello è Scalfaro, l’attuale presidente della Repubblica. Presto mi devo ricredere, ci sono delle cose che non capisco proprio perché non conosco il senso delle parole: un signore mi dice che sua madre aveva un braccio da «sette fedi». Si accorge che non capisco questa espressione e me la spiega; dice che si tratta di una leggenda buranella, fino a un certo punto lo seguo poi mi perdo ma non ho il coraggio di chiedere una nuova spiegazione. Penso di non essere tagliato per la raccolta di fonti orali. Ho portato un registratore con me ma non lo accendo. Di tutto questo pomeriggio rimarranno solo alcuni frammenti.
3. Alle tre e mezza arriva Stefano Ghesini. Non ci conoscevamo e ci presentiamo; mi chiede «allora sei tu lo studente?». Le persone nel bar sono ora solo sei o sette oltre a noi due «stranieri». Stefano ha con sé foto di Ca’ Emiliani scattate negli ultimi mesi. Mostrarle rompe gli ultimi indugi. I racconti si accavallano, tutti vogliono far notare le differenze o le continuità tra il paesaggio di oggi e quello che faceva da sfondo alle foto che hanno portato loro. Si aggiungono altre immagini d’epoca. Abbiamo materiale per altri due tabelloni e ne avanza ancora. Tre signori in particolare ci aiutano a identificare i luoghi e le persone. Componiamo le foto per tema; uno è relativo alle case della via Ca’ Emiliani che sono state abbattute negli ultimi mesi o stanno per esserlo. Ci portano anche la fotocopia di una foto apparsa sul Gazzettino del 16 febbraio 1995. Qualcuno l’ha conservata perché vi compare la madre (carica di borse, rientrava dalla spesa, ci fanno notare). Uno dei più entusiasti nell’aiutarci è quell’unico ragazzino. Gli piacciono molto le foto che Stefano ha portato, ne porta via alcune per mostrale agli amici. Stefano mi pare sulle spine, un po’ perché preoccupato per le foto (le tirature non sono sue), un po’ perché ha poco tempo a disposizione. Io non so bene cosa fare, se ascoltare i racconti o scegliere e incollare le foto. Completiamo alcune didascalie. Le persone nel bar sono sempre le stesse, a volte entra qualcuno che si unisce ma solo per poco tempo.
A un certo punto sono le foto di V., un uomo che avrà forse un po’ meno di quarant’anni, a diventare il centro della discussione. Una in particolare, dello zio, ripreso da solo, in uno spiazzo con vegetazione incolta, senza nessuna traccia di costruzione. Il primo commento che raccogliamo è che la foto è stata scattata proprio dove ci troviamo, prima che venissero fatte le case. Stefano è perplesso, in effetti, accettando questa versione la cronologia sarebbe ben difficile da ricostruire. Solo dopo un bel po’ riusciamo a sapere da V. che la foto ritrae proprio lo zio, ma quando questo si trovava in Abruzzo. Poi ci racconta altro sullo zio, che ha lavorato alla costruzione del «Partito». Mi dice che la paternità della costruzione è controversa: lui garantisce che ci hanno lavorato anche dei fascisti (stiamo parlando dell’immediato dopoguerra), che all’inizio doveva essere un centro ricreativo «neutrale», pensato per tutti, solo poi divenuto tutto «rosso»; sa però che questa versione è poco gradita: tutti rivendicano una paternità pura, tutta «rossa».
Montando il tabellone intitolato Dentro e fuori la Casa del popolo riesco a recuperare anche alcuni pezzi della storia del fabbricato. Mi spiegano che la sala del piano terra una volta era divisa in due stanze da un muro parallelo alla porta d’ingresso; si può ancora vedere dov’era, perché ci sono due pavimentazioni diverse. In un primo tempo il bar si trovava nella prima stanza e la seconda, dietro, era adibita a magazzino. Poi il bar è stato trasferito nel vecchio magazzino e vi si accedeva da un ingresso laterale, una porta che c’è ancora. La stanza sul davanti fu affittata e diventò una rivendita di pane. Chiusa la rivendita, infine la parete è stata abbattuta e tutto il piano terra è stato adibito a bar. Meno avventurose le vicende del primo piano, che è sempre stato la sala riunioni della sezione. Sulla una facciata laterale del «Partito» era disegnata una grande falce e martello; è stata coperta durante gli stessi lavori che hanno abbattuto la parete interna. Ogni trasformazione è stata autofinanziata e mi pare di capire che la manodopera sia stata fornita dai militanti.
4. Il tempo è trascorso rapidamente. Alle cinque Stefano se n’è andato, io mi sono fermato un altro po’. Il luogo ha iniziato ad affollarsi di nuovo, dopo che s’era quasi svuotato. A un certo punto la mia bicicletta era rimasta il solo veicolo parcheggiato, ma verso le sei c’erano almeno cinque macchine. Ho passato quasi tutto questo tempo con V., che mi ha raccontato ancora qualcosa. Qualcuno ha chiesto una penna per aggiungere nomi nelle didascalie delle foto (c’è una galleria di ritratti fototessera). A un certo punto mi dicono «quello è Spuma», e chiedo se «Spuma» sta per spumante. In effetti la passione è quella, ma il soprannome è dato per contrasto. Solo dopo mi viene in mente che «spuma» è anche nome generico per bevanda analcolica (né io né i miei amici abbiamo mai usato correntemente questa parola).
Continuano ad arrivare foto; chi le porta è allo stesso tempo lusingato e diffidente: tutti hanno paura che vadano perse.
Con V. ho fatto alcuni incontri. Il primo con un signore che cercava di parlare in dialetto con un forte accento meridionale e si è preso una bonaria presa in giro. Un altro signore invece è entrato (dopo aver lasciato la famiglia in macchina) dicendo di rimuovere dalle pareti quei morti, ché vuole andare a bere e mangiare in un bar e non ne vuole sapere di cimiteri. Nessuno gli ha dato ascolto.
Pochi i giovani. Ho provato a chiedere se quelli della mia generazione considerano ancora il «Partito» come luogo di ritrovo; ho ottenuto una di quelle risposte che non ho capito (o forse ho fatto una domanda in modo incomprensibile).
V. mi travolge con i suoi commenti e le sue spiegazioni. Penso che non è un buon metodo e allo stesso tempo mi chiedo come devo passare questo tempo, se è un esercizio o un incontro franco e amichevole o che so io. Mi chiedo anche come potrò riportare certe cose, ammesso che le ricordi così come mi sono state dette: il pudore mi blocca, se scrivo questo tradisco una confidenza? Quando V. mi porta in visita da un suo zio medito sul mio fallimento, non sono riuscito a fissare l’oggetto della mia osservazione, mi sono messo a inseguire mille particolari, uno alla volta.
Lo zio di V. abita nella baracca verde oltre il ponte, una cinquantina di metri dal «Partito»; è una celebrità, il «maestro» Adamo Vianello detto Nino Bocolo (o Bocoleto). Ho già visto due foto di questo signore, seduto alle tastiere in un angolo della sua baracca. Le cose che posso vedere ora dal vivo sono un po’ diverse: la casa e il suo proprietario sono molto invecchiati. La carta da parati è la stessa ma ingiallita. Mi mostrano i suoi numerosi strumenti e i cimeli (premi, foto, un articolo del Gazzettino del 1993), attraverso i quali ne apprendo la storia per sommi capi. Sono imbarazzato. Mi mostra delle cartoline, guardo le immagini e evito di leggere i saluti, mi pare una violazione, invece Nino insiste perché io legga. Ripenso alle discussioni con Fabio e Piero, e mi pare di assistere alla celebrazione di un rito. Dopo questa visita mi affretto a andarmene. Me ne torno a casa con la testa piena di genealogie, di volti, un po’ sollevato dai miei imbarazzi e pensando a come posso raccontare questo pomeriggio.
Postscriptum, dopo l’inaugurazione di domenica
Sono ritornato alla Casa del popolo domenica mattina, per l’inaugurazione. Sono riuscito a leggere la poesia affissa alla parete interna del locale; è firmata Ferruccio Brugnaro e risale al dicembre 1995. Ce l’ho fatta perché hanno sposato i tavoli per l’inaugurazione. Il signore anziano di sabato era presente; forse se l’è presa un po’ per questo trasloco forzato, si è messo in un tavolino all’esterno – fortuna che c’era il sole – con il suo solito bicchiere (ne ho contati solo due).
La mostra è diventata autogestita. Molti hanno portato altre foto e le hanno appese ai tabelloni, spostandone altre, ma le «sezioni tematiche» che erano state scelte all’inizio sono state grosso modo rispettate. Sono rimasto stupito per la presenza di video, non ci avevo pensato: mi sembra una botta di modernità dove tutto mi sembrava tendere al vecchiotto.
Nemmeno oggi ho visto miei coetanei al «Partito». Ci sono bambini e ragazzini sino ai 14 anni, a occhio, probabilmente figli dei militanti; penso che, una volta raggiunta la mia età, anche loro sceglieranno un altro posto di ritrovo.