di Enrico Zanette
Dal nostro corrispondente da Vittorio Veneto, un invito a guardarsi intorno e a studiare la storia dei luoghi che si frequentano, in questo caso una biblioteca civica.
1. Computer spento, cellulare in vibrazione, libro aperto sotto la pressione della mano sinistra. Il ronzio dei neon, fino a quel momento impercettibile, si fa invadente. Comincio a seguire il procedere incerto di un’incisione sul tavolo. Osservo più in là una matassa di cavi elettrici sparsi sopra la moquette consunta. Sono gli alimentatori dei computer collegati a una ciabatta bianca che pesca elettricità da un pozzetto del pavimento. Dietro, sullo sfondo, intravedo una libreria disordinata. Distinguo i tagli beige e accidentati di alcuni libri che stanno addossati ad altri, in doppia fila, distesi, di sbieco, di taglio, sospesi… compressi tra i ripiani, tra il muro e la libreria. Mi accorgo solo in quel momento di osservare un luogo che frequento da anni e mi viene in mente un aggettivo: compressa.
Nei giorni seguenti ne parlo con amici e parenti, sfoglio delle ricerche di storia locale, navigo in rete. Mi rendo conto, in breve, che non c’è nulla di strano in una biblioteca compressa, semmai è singolare che ci sia una biblioteca civica a Vittorio Veneto e che ci sia stato un tempo – sia pur ridotto – in cui doveva apparire pure bella e spaziosa.
2. La storia delle biblioteche civiche dei piccoli centri e quelle dei quartieri, nate nel secondo dopoguerra, si riallaccia idealmente a quella delle biblioteche popolari, cominciata durante la seconda metà dell’Ottocento: emancipazione e democratizzazione attraverso l’apprendimento. È un fenomeno che nei primi decenni del regno d’Italia è legato all’aumento della scolarizzazione e alla riduzione dei costi dell’industria editoriale, ma soprattutto all’iniziativa del movimento operaio. Filantropi e associazioni operaie colgono queste opportunità per aprire le prime biblioteche popolari e promuovere l’emancipazione umana e civile delle classi meno abbienti. Sono, tuttavia, spesso compresse in edifici inadeguati con un patrimonio librario limitato a cui più tardi, negli anni Trenta, si sommerà la politica fascista che le inquadra nell’Ente nazionale per le biblioteche popolari e scolastiche e le reinventa come spazi culturali a sostegno del regime.
Nel secondo dopoguerra l’iniziativa passa alle istituzioni repubblicane che s’impegnano, almeno sulla carta, sulla base del dettato costituzionale, a promuovere la costruzione di biblioteche civiche intese come presidi culturali, finalizzati a promuovere la crescita democratica dei cittadini. In realtà, le cose vanno molto a rilento e ancora nel 1965 Francesco Barberi, ispettore generale delle biblioteche presso il ministero della pubblica istruzione, denuncia una situazione di diffusa negligenza1.
3. A Vittorio Veneto una biblioteca civica c’è dal 1958, inizialmente compressa nei locali di quello che oggi è l’ufficio anagrafe. Solo nel 1977 avviene il trasferimento nella sede attuale: finalmente un edificio di pregio, degno dell’alto compito che deve assolvere. Si tratta della foresteria (o teatrino) della villa ottocentesca Papadopoli, circondata da un affascinante parco all’inglese con i suoi giochi, misteri e percorsi simbolici.
È una biblioteca a scaffale aperto per consentire una rapida consultazione dei volumi che compongono un ottimo patrimonio librario. Tempo fa, per esempio, trovavo Gli impiegati di Kracauer, un libro che spesso manca anche in biblioteche ben più fornite. Nel tempo si è, inoltre, arricchita di donazioni private tra le quali mi piace ricordare quella del circolo anarchico G. Pinelli, attivo negli anni Settanta, il cui timbro è ancora presente nelle prime pagine di diversi volumi.
Ben presto, emergono i problemi e i limiti che avevano già caratterizzato l’esperienza delle biblioteche popolari, come gli spazi insufficienti e la mancanza di risorse adeguate. Appena qualche anno dopo, nel 1984 la giornalista Elisabetta Gavaz ne lamenta amaramente la strettezza2. In breve tempo, alla compressione dei libri si aggiunge la naturale usura dei locali, affidati una manutenzione che si limita a mettere toppe: magari costose, ma poco funzionali e poco durature.
4. A distanza di quarant’anni, quello che era sembrato un deciso passo in avanti è un pezzo di modernariato, con la sua moquette ocra consunta e rattoppata, gli infissi scrostati, i neon che ronzano o lampeggiano per giorni quando sono scarichi, vivibile d’inverno, caldissima d’estate.
I libri compressi sono naturalmente difficili da trovare, molti sono scomparsi – il che sembra paradossalmente un bene vista la situazione – tanto che la classificazione Dewey ha subito negli anni degli aggiustamenti fantasiosi che solo il bibliotecario e qualche frequentatore esperto conosce bene. Gli altri, la maggior parte, ne ignorano i segreti, vanno e vengono in massa con computer e fotocopie all’approssimarsi delle sessioni d’esame, come studenti stagionali. In alcuni periodi si riduce così ad affollata aula studio per preparare gli esami; finita la sessione, torna ad essere semiabbandonata e frequentata da personaggi bizzarri che trovano lì un ricovero gratuito.
Negli ultimi mesi la gestione dell’apertura mattutina è spartita tra i lavoratori socialmente utili e i soci dell’associazione sintesi&cultura3. Un modo per abbassare i costi, dal momento che i primi vengono pagati poco e i secondi sono soci… probabilmente con il dono della sintesi che hanno quelli abituati a lavori precari. Tutto ciò, a sentire amici in giro per l’Italia e i recenti fatti della Biblioteca Nazionale di Roma, non pare essere eccezionale e si somma a una situazione già deficitaria in cui i bibliotecari non precari sono sempre meno e il loro lavoro è affidato a personale senza preparazione specifica, spesso appartenente a categorie protette. Argomento spinoso, ma che la dice lunga su come le amministrazioni pubbliche intendono il mestiere complesso e delicato del bibliotecario.
Da anni, si parla di spostare la biblioteca per lasciare libera la villa e il parco per altri progetti, e di recente va per la maggiore l’idea di «reinventarla». La biblioteca diventerebbe una «Polis_teca» (credo che si scriva così), una sorta di spazio di aggregazione multimediale e multifunzione, un po’ aula studio, un po’ centro giovani, con meno libri e più comunicazione… Sembra che sia una tendenza in voga ovunque, ma si capisce che è ben altra cosa rispetto a una biblioteca, che non dovrebbe essere né un’aula studio né un luogo per uno svago «alternativo», bensì una alternativa radicale allo svago, un luogo dove è possibile cercare e trovare libri, fare scoperte, studiare, creare propri percorsi di emancipazione.
Questo progetto, per ora solamente abbozzato, chiuderebbe la storia già breve della biblioteca civica vittoriese. Una storia di compressione più o meno profonda che, mi viene in mente, è forse il semplice riflesso di quell’estensione del manicomio diffuso che notai anni fa. Alla diffusione capillare della logica assistenziale e dei mezzi di evasione mi pare corrisponda specularmente la compressione degli spazi dell’emancipazione, ridotti a refugium peccatorum in attesa di una fantomatica reinvenzione.
PS. L’articolo avrebbe dovuto contenere altre foto della biblioteca – scattate per documentare la compressione degli spazi e una parte della collezione –, ma per evitare le lungaggini burocratiche necessarie per una, non sicura, autorizzazione abbiamo deciso di non includerle.
- Francesco Barberi, Le biblioteche, una crisi secolare (Problemi italiani), «Società», 5 (1949), 1, p. 74-97. Ora disponibile online. [↩]
- Elisabetta Gavaz, La biblioteca sta stretta a villa Papadopoli, “La Tribuna di Treviso”, 11 settembre 1984, citato nella tesi di Marta Possamai, Biblioteca civica di Vittorio Veneto: sviluppo, gestione e rapporto con l’esterno, relatore Angela Maria Nuovo, Università degli studi di Udine, a.a. 2008-2009. [↩]
- Roberto Silvestrin, Ripristinato l’orario di apertura della biblioteca di Ceneda, “OggiTreviso”, 16 febbraio 2017. [↩]