di Giacomo Bonan
Riprendiamo la versione italiana di alcune pagine dal recente libro di Giacomo Bonan, The State in the Forest. Contested Commons in the Nineteenth Century Venetian Alps. Il nostro socio e amico vi analizza le vicende storiche dei beni d’uso comune in Cadore e nell’alto bacino del fiume Piave nel periodo intercorso tra l’introduzione del modello amministrativo franco-napoleonico a inizio Ottocento e gli anni successivi all’annessione di questi territori al regno d’Italia. Sul significato che il termine “beni comuni” ha assunto nel corso del tempo Giacomo Bonan si era soffermato in un intervento in una delle due giornate di studio che sAm ha promosso nel 2015 presso la biblioteca di Marghera.
Oltre alle esplosioni di protesta collettive, come quelle avvenute in seguito all’emanazione della legge del 1839 o in concomitanza con i moti del 1848, la conflittualità legata all’utilizzo delle risorse forestali è attestata da forme di opposizione meno eclatanti ma altrettanto radicate tra la popolazione, quelle della sistematica violazione dei codici forestali. Si tratta di un fenomeno che si diffuse quasi ovunque nell’Europa di quei decenni, all’interno di un più generale processo di criminalizzazione delle pratiche consuetudinarie correlato alle dinamiche di trasformazione sociale ed economica che investirono gran parte del continente.
Sul fatto che fosse un fenomeno vastissimo, non ci sono dubbi. Sin dai primi anni dell’amministrazione austriaca in Veneto, le magistrature politiche e camerali delle varie province inviarono continue sollecitazioni al governo per porre un freno al dilagare dei reati forestali1. Inoltre, la percezione del fenomeno peggiorò progressivamente, tanto che, all’inizio degli anni ’50, fu ipotizzato di concentrare gli sforzi di tutela solo su alcuni boschi considerati strategici dal punto di vista economico o ambientale. Il sottointeso dell’intero rapporto è che non era possibile praticare un’efficace politica di contenimento delle trasgressioni per l’intero patrimonio forestale2.
Parlo di percezione del fenomeno perché la violazione delle leggi forestali era una tipologia di reato dalla difficile contabilità. Il primo e più ovvio motivo, sempre ribadito dalle autorità austriache, è che i dati disponibili, cioè quelli di denunce e condanne, rappresentavano una parte troppo esigua degli abusi effettivamente compiuti per basarvi valutazioni attendibili. Specie se pensiamo che le aree in cui era maggiore la presenza di boschi erano anche quelle in cui i vincoli ambientali rendevano più difficile il controllo sociale.
Inoltre, c’erano violazioni e violazioni delle leggi forestali. Una prima distinzione la faceva la legislazione austriaca. I reati commessi in un’area forestale potevano rientrare in due distinte categorie: «contravvenzioni boschive» e «gravi trasgressioni contro la sicurezza della proprietà». La prima categoria riguardava i delitti più lievi commessi nei boschi pubblici: l’abbattimento di poche piante a uso personale, l’ingresso non autorizzato in un bosco con attrezzi da taglio o animali, ecc. La seconda, in teoria, quelli più gravi3. Tuttavia, si trattava di una distinzione molto sfumata. Basti pensare che il taglio abusivo di un albero in un bosco comunale era considerato «contravvenzione boschiva» solo se l’imputato proveniva dalla frazione proprietaria del bosco, mentre se, pur appartenendo allo stesso comune, proveniva da un’altra frazione, il furto rientrava nelle «gravi trasgressioni contro la sicurezza della proprietà»4.
Stando ai sondaggi effettuati sulla documentazione di alcune preture (in Friuli), per gli anni ’50 dell’Ottocento e per il decennio post-unitario, sembra che i reati forestali costituissero la maggior parte degli illeciti compiuti in area rurale. Ovviamente, si trattava di reati anche molto diversi per entità del bottino, fisionomia delle persone coinvolte e modalità d’azione. Per esempio nei furti seriali o in quelli più consistenti, oltre ai mercanti di legname erano le stesse figure preposte a far rispettare le leggi che potevano togliersi le soddisfazioni maggiori. Per quanto riguarda gli ispettori forestali, a loro parziale discolpa va detto che, per condizioni lavorative e salariali, si trovavano in una situazione ben peggiore di altri dipendenti di eguale rango nell’amministrazione austriaca. Normale che cercassero fonti di integrazione del reddito.
Problemi ancora maggiori si ponevano ai guardaboschi, il livello di base del presidio forestale. Nel loro caso, l’intransigenza non era un atteggiamento contemplato, poiché erano nominati tra gli abitanti dei comuni che avrebbero dovuto sorvegliare, con tutti i rischi che questa prossimità comportava. Un analogo discorso si potrebbe fare per il resto del personale comunale.
Ho già detto degli illeciti compiuti dagli amministratori comunali del distretto di Auronzo (con la sospetta complicità dell’ispettore forestale e del cancelliere del censo) nel corso degli anni ’10. Pratiche di questo tipo sono ben presenti anche nei decenni successivi. Nell’autunno del 1852, in Comelico Superiore, il deputato comunale Francesco Osta, l’aggiunto commissariale Giovanni Talamini e l’attuario forestale Antonio Kramer furono indagati per aver contraffatto le dimensioni delle taglie che la frazione di Dosoledo aveva venduto, in primavera, al mercante Francesco Fabbro5. Già l’anno prima, i deputati comunali erano stati accusati di un illecito analogo a vantaggio del mercante Girolamo Gera6.
Accuse lievi se confrontate con quelle della banda capitanata da Antonio Moretti, deputato comunale di Taibon Agordino che, con la complicità di un collega, dell’agente comunale, di una guardia boschiva e di tre parenti, era solito simulare delle contravvenzioni anonime nei boschi del comune per poi vendere il legname a prezzo di favore contraffacendo sistematicamente la documentazione amministrativa in materia7.
Secondo il commissario distrettuale di Auronzo, i guardaboschi Santo Frigo e Osvaldo Zandegiacomo, nominanti nel 1849 dal comune di Auronzo, avevano fama di essere dediti alle contravvenzioni boschive, «ed anzi immeritevoli di ogni fiducia, poiché i sorveglianti sono peggiori dei sorvegliati»8. E, come abbiamo visto, i sorvegliati in quegli anni non scherzavano affatto.
Sono solo alcuni esempi tra i molti possibili. È sufficiente scorrere le schede del personale forestale in servizio durante gli anni della dominazione austriaca, per notare che la maggior parte dei funzionari fu sospettata e accusata ripetutamente di malversazione. In alcuni casi, è probabile che si trattasse di insinuazioni infondate, che potevano essere montate ad arte contro un ispettore che si era rivelato troppo severo con i mercanti o con i piccoli abusi compiuti dalla popolazione del riparto di sua competenza. Il più delle volte, però, si trattava di comportamenti tutt’altro che irreprensibili.
Accanto a questi illeciti più elaborati e sistematici, cui vanno aggiunti tutti quelli non compiuti direttamente in aree forestali, ma legati ai prodotti forestali, quali per esempio il furto di tronchi nelle aree di smistamento o durante il trasporto9, c’era una microcriminalità che assumeva dimensioni di massa, e che riguardava prevalentemente piccole contravvenzioni compiute nei boschi comunali.
Si trattava di comportamenti su cui i divieti legislativi non producevano alcun effetto, poiché le persone arrestate agivano secondo «la persuasione di buona o mala fede di esercitare un diritto di proprietà»10. Su questo aspetto influiva anche l’atteggiamento tollerante del clero locale, almeno a prestar fede alla testimonianza del possidente bellunese Antonio Maresio Bazolle. Nelle sue memorie, Bazolle ricorda che un arciprete di sua conoscenza gli disse «che egli dava sempre l’assoluzione a chi si confessava di aver rubato legna per fare la polenta. Per fare la polenta si, diceva egli, perché bisogna farla, ma non per venderne». Questo perché «nella loro morale essi [i villici] sono anche persuasi di non fare male, perché, dicono essi, la legna viene da sé, il padrone non ha faticato per essa»11.
Un atteggiamento assai simile a quello riscontrato negli anni ’80 dell’Ottocento dal senatore Emilio Morpurgo che, nella sua relazione sul Veneto nell’ambito dell’inchiesta agraria Jacini, sottolineava «la tendenza dei contadini a credere che i frutti della terra che non sono prodotti dall’uomo sono dalla provvidenza messi a disposizione dell’uomo»12.
Nonostante il progressivo inasprimento delle sanzioni, le contravvenzioni forestali segnalate in Veneto aumentarono continuamente nel corso della dominazione austriaca. Ad esempio, dal sessennio 1821-1826 a quello 1841-1846, passarono da 5817 a 19.643. In entrambi i periodi presi in considerazione, la provincia di Belluno rappresentava la maglia nera dell’intero Veneto austriaco, rispettivamente con 2712 contravvenzioni segnalate per il periodo 1821-1826 e 6069 per quello 1841-1846. Un numero di denunce maggiore anche della provincia di Udine, che aveva una superficie forestale più estesa13.
Di fronte a queste cifre in costante peggioramento, le autorità governative e forestali mantennero un atteggiamento ondivago. In una prima fase, «dato l’elevatissimo numero di contravvenzioni boschive, e poiché la maggior parte di esse sono commesse da persone impossibilitate a pagare la multa corrispondente», fu ipotizzato di abilitare le preture ad applicare direttamente la pena carceraria, comunque prevista in caso di mancato pagamento della multa14. In un secondo momento si valutò un provvedimento di segno opposto, cioè limitarsi alla sola sanzione pecuniaria. Questo perché «la pena suppletoria di arresto nelle contravvenzioni boschive, colpendo individui per lo più di nessuna educazione, appartenenti alla classe villica, non serve loro di alcun freno, essendo invalsa l’opinione, che la detenzione per tali fatti non oscuri minimamente il buon nome del condannato»15.
Un fenomeno endemico quindi, in cui alla condanna non era associata alcuna sanzione morale. Nella maggior parte dei casi, gli indagati appartenevano alle fasce più povere della popolazione, non di rado si trattava di «donne e fanciulli»16.
Anche dall’entità dei furti emerge il carattere sociale del reato. Le denunce riguardavano prevalentemente il furto di uno o due tronchi, qualche fascina di legna, o il materiale necessario per preparare le lettiere agli animali. Come già indicato, le sanzioni pecuniarie previste venivano pagate raramente, e i condannati erano soliti scontare la pena con il carcere. A certificare il senso di legittimità con cui agivano coloro che contravvenivano ai divieti, vi sono due ulteriori reati che appaiono quasi accessori a quelli boschivi. Si tratta delle ingiurie e minacce ai funzionari forestali che tentavano di impedire l’illecito17. Infine, c’è un caso che travalicò i termini della legislazione forestale ed entrò nella sfera del diritto canonico.
Sappada il più lontano ed il più elevato dei comuni di questa alpestre provincia; posto sui monti che dividono dal Friulano il Bellunese, e che si congiungono colle Alpi Carniche; che nei suoi confini lambe Tirolo e Carinzia; Sappada con una popolazione di 1300 anime circa, un tempo addetta alla provincia di Udine, ora formante parte del distretto di Auronzo, li di cui abitanti che parlano un rozzo alemanno non hanno bene né il carattere dei Tedeschi né quello degli Italiani; che sono rozzi, ma buoni, frugali ed industriosi; Sappada oggidì dal suo nulla dalla sua oscurità attrae a se l’attenzione per un avvenimento singolare, quale culla, sede, e campo di un nuovo Profeta, sedicentesi riformatore della religione cristiana.
Con queste parole, il delegato provinciale di Belluno introduceva alla luogotenenza di Venezia i fatti occorsi a Sappada nei mesi precedenti. Il profeta si chiamava Celestino Colle, aveva 18 anni, era figlio di un commerciante di legname locale e nipote del parroco18.
Il 26 luglio 1859, Celestino Colle informò la deputazione comunale di Sappada di aver scoperto una lapide nel monte Ostans. Il reperto, datato 1215, conteneva le volontà espresse da Fernando «figlio di un imperatore romano». Egli donava ai primi 25 abitanti di Sappada e ai loro eredi il bosco attorno all’abitato; inoltre, lo scopritore della lapide andava considerato portatore di sangue imperiale e insignito del titolo di principe di Archenstein (la pietra dell’arca).
La vicenda si inscriveva in una fase di acute tensioni tra varie fazioni di Sappada sui boschi comunali, e in particolare su uno di essi, il bosco Digola, per cui c’era anche una vertenza irrisolta con il comune di Lorenzago. Pertanto, la deputazione comunale fece rapporto al commissario distrettuale di Auronzo il quale, a sua volta, avvertì il delegato provinciale che però non proseguì oltre, qualificando «il fatto per una favola assoluta». Anche perché, avvertì in seguito il delegato, tra i personaggi più attivi nelle controversie sui boschi comunali c’era proprio il padre di Celestino, Pietro Colle, considerato il regista dell’intera faccenda.
Tuttavia, i miracoli non erano finiti. Nelle settimane successive, Celestino Colle sostenne di essere caduto in uno stato di estasi mistica durante la quale era stato in Purgatorio e aveva salvato un’anima sofferente da 600 anni. A nulla valse l’esorcismo cui lo sottopose il parroco locale, don Mattia Kratter (fratello della madre), il 23 novembre, poiché il giorno seguente Celestino si ripresentò dal parroco chiedendogli di seguirlo sul monte Ostans, dove una forza soprannaturale lo conduceva alla ricerca di una nuova lapide.
I due, accompagnati dal padre, uno zio e un amico di Celestino, si recarono sul monte in serata e lì, grazie a una nuova visione estatica di Celestino, rinvennero una lapide a forma di rombo. Essa recava un’iscrizione che designava lo scopritore principe, «nominato da Dio e del sangue romano». Inoltre, l’iscrizione comandava che il ritrovamento fosse festeggiato per onorare i 25 abitanti che avevano fondato Sappada, già menzionati nella precedente lapide. Così, il giorno seguente, l’evento fu festeggiato con il suono delle campane a stormo e con una messa solenne celebrata dal parroco ormai divenuto testimone dei prodigi.
Il 27 novembre, sempre alla presenza del parroco, Celestino Colle fece una prima predica in casa sua, in cui spiegò il significato delle lapidi e si dichiarò destinato da Dio a proclamare una nuova religione. L’11 dicembre avvenne una seconda predica, più elaborata dal punto di vista liturgico. Celestino entrò nella stanza dove si erano assiepati i “fedeli” preceduto da un crocefisso e con accanto due seguaci, entrambi con una candela accesa in mano. Dopo aver benedetto i presenti, raccolse tre sassolini da terra e li lanciò, definendoli chiodi del crocefisso. Uno dei sassolini colpì una donna, «una Maddalena, e novello Cristo il Celestino le disse che restava salvata». Poi, dichiarò che nessuno, «né Preti, né Vescovi, né lo stesso Papa; non i Gendarmi, né l’esercito intero, né Sua Maestà», avrebbe potuto impedire la sua predicazione e definì i parroci locali «sacerdoti del demonio».
A quel punto, il parroco Mattia Kratter che, fino a quel momento, probabilmente condizionato dalla sua parentela con il profeta, ne aveva sostenuto la causa, capì che gli avvenimenti stavano prendendo una brutta piega e si decise a denunciare la cosa al commissario distrettuale di Auronzo, il quale dispose l’arresto di Celestino Colle.
L’arresto avvenne il 16 dicembre, nel corso dell’ennesimo sermone di Celestino il quale, per nulla turbato, diede appuntamento ai fedeli per una nuova predica il 27 dicembre, giorno di San Giovanni Evangelista. In quest’occasione, la pretura di Auronzo contribuì ad accrescere la fama di Celestino poiché, probabilmente inconsapevole della promessa fatta dal profeta ai suoi seguaci, lo rilasciò immediatamente, con grande stupore del delegato provinciale.
L’inveramento della profezia rappresentò il culmine della carriera messianica di Celestino Colle. Il giorno di San Giovanni, al cospetto di circa 200 persone, egli si dichiarò «profeta mandato da Dio» e iniziò a organizzare il suo proselitismo con la nomina di dodici apostoli e quattro evangelisti.
La sera stessa, il deputato comunale Giacomo Krotter tentò di interrompere una riunione che Celestino Colle stava tenendo con alcuni seguaci in casa sua, ma fu minacciato e costretto ad andarsene. Quest’ennesimo incidente spinse il delegato provinciale ad agire per porre fine ai disordini. Fu disposto un nuovo arresto per Celestino Colle e per alcuni familiari (il padre, due fratelli e il cognato) che furono fermati il primo di gennaio e tradotti alle carceri di Auronzo. Dieci giorni dopo, furono fermati altri due sostenitori del profeta che si ostinavano a sostenere le sue dottrine pubblicamente19.
Parallelamente, le autorità civili avviarono un carteggio con l’arcidiocesi di Udine per la rimozione del parroco Mattia Kratter, ritenuto troppo coinvolto nelle vicende dei mesi precedenti e poco affidabile «per l’abuso del vino e dei liquori, nonché per il sospetto di poco omessa relazione […] colla propria serva». La questione si protrasse per alcuni mesi, data anche la necessità di trovare un sostituto in grado di parlare fluentemente il tedesco ma, con la minaccia di un processo canonico, Kratter fu costretto a rinunciare al beneficio parrocchiale e ad abbandonare Sappada in estate20.
Gli altri indagati furono detenuti per alcuni mesi nelle carceri di Auronzo e poi rilasciati, quando l’ordine pubblico era stato definitivamente ristabilito a Sappada, senza che a loro carico fosse intentato alcun processo21. Secondo il commissario Pietro Rodolfi, che si era occupato dell’indagine, l’unico motivo che aveva spinto la famiglia Colle ad allestire questa complicata messinscena era l’idea «di avere in assoluta proprietà privata i boschi comunali in genere, ed in particolare quello chiamato Digola».
L’esperienza di questo nuovo messia fu una fiammata breve a Sappada. Anche se le sue prediche videro una crescente partecipazione popolare, indubbiamente elevata per una comunità di così ridotte dimensioni, il secondo arresto di Celestino Colle e dei suoi principali seguaci pose fine alla diffusione del nuovo culto22. Nei decenni successivi, la vicenda fu rievocata da alcuni autori locali, ma non produsse la memoria che si sviluppò altrove attorno a coeve esperienze ereticali, tra cui la più nota è quella avviata pochi anni dopo da Davide Lazzaretti sul monte Amiata.
Tuttavia, come ha notato Claudio Lorenzini, anche il caso del messia di Sappada può essere inquadrato nell’ambito del malessere provocato in area rurale dalle grandi trasformazioni economiche e sociali di quei decenni, di cui uno dei fenomeni più evidenti fu la diffusione di movimenti religiosi di tipo millenaristico23.
In questo senso, mi sembra indicativo il ruolo del parroco Mattia Kratter in questa vicenda. Sarebbe un errore credere che l’attacco rivoltogli da Celestino Colle in una delle sue prediche fosse motivato dalla condotta immorale del parroco e dal discredito che quella condotta gli aveva provocato in paese, fino a renderlo un alleato ingombrante per la nuova setta.
La passione di Kratter per il vino e le donne (la sua domestica in particolare) erano cose risapute. Eppure, la comunità di Sappada aveva il diritto di eleggere autonomamente il proprio parroco e di riconfermargli annualmente il mandato. I ben noti vizi di Kratter non gli avevano impedito di essere eletto e riconfermato a parroco della comunità, anche quando l’arcidiocesi aveva tentato di opporgli un candidato di sua fiducia.
Il fatto che la setta organizzata dalla famiglia Colle avesse rinunciato al sostegno del parroco e anzi non avesse esitato ad accusarlo pubblicamente, sta forse a indicare che tra le tante trasformazioni in atto in quei decenni ci sia da annoverare anche la progressiva erosione della capacità di mediazione del clero locale e la sua marginalizzazione nella gerarchia di riferimento della popolazione rurale.
Nota. Tratto da The State in the Forest. Contested Commons in the Nineteenth Century Venetian Alps, The White Horse Press, Winwick, Cambridgeshire UK 2019, pp. 179-189, da cui sono state omesse alcune note bibliografiche, mantenendo solo i riferimenti alle citazioni puntuali e quelli ai documenti d’archivio. La traduzione italiana è di Giacomo Bonan.
- Archivio di Stato di Venezia (d’ora in poi ASVe), Governo veneto, 1819, XXIX, b. 1483, f. 3. [↩]
- ASVe, Luogotenenza provincie venete, 1852-1856, LXX, b. 623, 1/5. [↩]
- Cfr. V. Guazzo, Enciclopedia degli affari, Crescini, Padova 1853, sub voce «Bosco», vol. II, pp. 484-541. [↩]
- «Nelle gravi trasgressioni contro la sicurezza della proprietà entrano in gran parte piccoli furti boschivi che si dovettero ritenere furti e non contravvenzioni» ASVe, Governo, 1840-1844, LXXIX, b. 6912, f. 11/9. Sulla differenza tra un illecito commesso nel bosco della propria frazione di appartenenza e uno commesso in un’altra frazione, pur appartenente al medesimo comune, ASVe, Governo, 1840-1844, LXXIX, b. 6910, f. 9/350. [↩]
- ASVe, Presidenza della Luogotenenza, 1852-1856, IV, b. 227, f. 6/3. [↩]
- ASVe, Presidenza della Luogotenenza, 1852-1856, IV, b. 227, f. 6/1. [↩]
- ASVe, Governo, 1840-1844, LXXIX, b. 6911, f. 9/408. [↩]
- Archivio Comunale di Auronzo (d’ora in poi ACA), Amministrazione, 1844-1852, III, b. 134, 9/03/1849. [↩]
- Ad Auronzo, durante la fiera primaverile di vendita delle taglie, era necessario raddoppiare il numero di guardie forestali per limitare le contravvenzioni, cfr. ACA, Amministrazione, 1835-1843, III, b. 133, 23/07/1836. Più in generale, sui crimini legati al trasporto del legname, cfr. ASVe, Ispettorato generale ai boschi, 1835-1839, b. 199, f. 15. [↩]
- ASVe, Governo, 1845-1849, XLVI, b. 7375, f. 13/10. [↩]
- A. Maresio Bazolle, Il possidente bellunese, 2 voll., Comunità montana feltrina-Comune di Belluno, Feltre 1986-1987, vol. II, p. 238. [↩]
- Vedi V. Foa, Introduzione, in F. Bozzini, Il furto campestre. Una forma di lotta di massa, Dedalo, Bari 1977, p. 9. [↩]
- Per il periodo 1821-1826 i dati sono in ASVe, Governo, Allegati, 1839, b. 278. Per il periodo 1841-1846, sono una mia elaborazione a partire dai prospetti contenuti in ASVe, Governo, 1840-1844, LXXIX, b. 6912, f. 11/9; ASVE, Governo, 1845-1849, XLVI, b. 7375, f. 13/10. [↩]
- ASVe, Magistrato Camerale, 1830-1834, XXIV, b. 286, f. 1/3. [↩]
- Archivio di Stato di Milano, Agricoltura, parte moderna, b. 6, 18/09/1851. [↩]
- ASVe, Governo, 1835-1839, LXXII, b. 5720, f. 14/17. [↩]
- La documentazione processuale, la più adatta a un approfondimento qualitativo del fenomeno, è assai limitata per il periodo oggetto del mio studio. Non è rimasto nulla all’archivio di stato di Belluno, mentre in quello di Venezia, che conserva le sole istanze d’appello, la documentazione ha subito numerosi scarti ed è lacunosa. Ho effettuato un’indagine campione per il quinquennio 1840-1844, quello in cui la documentazione risulta più completa. Si tratta delle buste: ASVe, Governo, 1840-1844, LXXIX, b. 6909-6911. I fascicoli sono quelli dal 9/1 al 9/538. Oltre alla pena prevista per la contravvenzione, le minacce ai guardaboschi comportavano una condanna che oscillava attorno ai 2/3 mesi d’arresto. [↩]
- ASVe, Presidenza della Luogotenenza, 1857-1861, IV, b. 328, f. 2. Salvo diversa indicazione, i fatti sono tratti da questo fascicolo. Tutto il materiale sulle vicende del “messia di Sappada” mi è stato generosamente messo a disposizione da Claudio Lorenzini, che mi ha anche permesso di consultare la bozza di un suo elaborato Stones, Woods and Blood. The Messiah of Sappada (Venetian Alps) revisited (1859-1860), presentato alla conferenza Revisiting Early Modern Prophecies (c1500-c1815), University of London, 26-28 giugno 2014. Il testo è di prossima pubblicazione e a esso rimando per maggiori approfondimenti. La figura di Celestino Colle era già stata analizzata in P. Brunello, Ribelli, questuanti e banditi. Proteste contadine in Veneto e in Friuli 1814-1866, Cierre, Verona 2011 (prima ed. Marsilio, Venezia 1981), pp. 87-92. [↩]
- ASVe, sezione alla Giudecca, Tribunale di appello generale (1815-1871), 1860, IV, b. 2855, f. 12. [↩]
- Il risvolto ecclesiastico dell’intera vicenda è descritto in un carteggio conservato all’Archivio Parrocchiale di Sappada e ora pubblicato in Documenti per la storia di Sappada/Plodn. 1295-1907, a cura di A. Peratoner, Associazione Plodar, Pieve di Cadore 2005, pp. 244-259. [↩]
- ASVe, Luogotenenza, 1857-1861, LIX, b. 1061, f. 34/311. [↩]
- Secondo una testimonianza raccolta dal giornalista Angelo Arboit in un volume del 1871 (a undici anni dalla conclusione della vicenda), Pietro Colle si suicidò poco dopo la scarcerazione, cfr. A. Arboit, Memorie della Carnia, Tip. Carlo Blasig, Udine 1871, p. 164. [↩]
- C. Lorenzini, Stones, Woods cit. [↩]