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Ricordiamo il secondo incontro del ciclo Beni comuni. Storia e presente presentando gli abstract delle relazioni che Claudio Lorenzini, Nadia Carestiato, Anna Maria Stagno, Vittorio Tigrino ci hanno gentilmente fornito. L’appuntamento è per venerdì 16 ottobre, presso la biblioteca di Marghera, dalle 16,30. L’incontro sarà introdotto da Maria Giovanna Lazzarin.
Claudio Lorenzini, Fra l’utile e l’inutile. Le risorse forestali nell’area alpina orientale in età moderna: il caso friulano
All’interno dell’accezione economica di “utilità” si possono far ricadere, con un esercizio non privo di arbitrii, le risorse forestali “comuni”, ossia i boschi che facevano capo alla proprietà e alle disponibilità delle comunità di villaggio (fino alla caduta della Repubblica veneta) e dei comuni (con le amministrazioni francese e austriaca).
Fra le utilità principali derivanti dal bosco, vanno annoverati gl’introiti monetari che le comunità potevano ottenere per mezzo degl’affitti ai mercanti di legname. Operando sui propri beni, le comunità divenivano soggetti attivi di un mercato ricco e, lungo l’età moderna, in continua espansione.
Una florida stagione di ricerche ha ben ricostruito le dinamiche economiche e sociali sottese a questo commercio consolidatosi nei territori della Repubblica di Venezia probabilmente già nel Trecento. Non fa eccezione il Friuli e la sua montagna, nella quale parte quasi esclusiva del patrimonio forestale era nelle mani delle comunità.
L’intervento ha la pretesa di offrire alcuni elementi di ricostruzione di quel contesto, riferito in particolare al caso delle regioni alpine della Carnia e del Canal del Ferro durante l’età moderna. Per far ciò, mi permetterò di avvalermi di qualche caso particolarmente esemplificativo relativo all’Ottocento. Da questi cercherò di mettere in luce i diversi “attori” coinvolti nella valorizzazione di questa risorsa «onnipresente» (Fernand Braudel), per stabilire chi effettivamente fra questi, durante l’età moderna, potesse essere il vero “utilista”.
Nadia Carestiato, La gestione dei beni comuni: l’esperienza delle proprietà collettive
Il termine “beni comuni” indica in generale tutte le risorse (naturali e/o artificiali) e i servizi essenziali per la vita di ogni individuo, il cui accesso non può essere limitato o esclusivo di un singolo o di un dato gruppo sociale. Al centro dell’attuale dibattito sui beni comuni si pone la questione della loro gestione, a livello locale e globale, e quindi gli aspetti che riguardano la relazione tra le risorse e le istituzioni designate al loro uso e mantenimento.
Nell’ampia tassonomia dei beni comuni rientrano i cosiddetti beni comuni tradizionali, sistemi di risorse naturali e/o artificiali goduti da una comunità locale per diritto consuetudinario (prati, pascoli, boschi, aree di pesca ecc.), indicati anche come “proprietà collettive”.
La proprietà collettiva si configura come una proprietà indivisa e inalienabile che fa capo a un gruppo di soggetti (una comunità stabilmente insediata nel territorio) il quale condivide diritti e doveri rispetto a un sistema di risorse. In tal senso, la proprietà collettiva rappresenta il principale esempio, ben radicato nella profondità della storia, di gestione di un bene comune, inteso come bene di una collettività, per quanto definita.
Anna Maria Stagno, Vittorio Tigrino, Il percorso dell’acqua: storia e archeologia della condivisione di una risorsa nell’Appennino Ligure
Attraverso alcuni casi di studio, e facendo riferimento a documentazione di natura diversa (documenti, cartografia, fonti di terreno), proveremo a individuare alcuni punti centrali che riguardano le vicende delle risorse collettive, con particolare attenzione alla risorsa idrica.
1. I legami tra proprietà privata e diritti di uso collettivo
Storicamente, le strategie locali di gestione delle risorse agrosilvopastorali hanno inserito all’interno di un unico sistema i terreni privati e le aree soggette ad uso collettivo. Per questa ragione, se inquadrati in una prospettiva più ampia, i conflitti sulle risorse collettive diventano la spia di mutamenti più vasti che riguardano l’organizzazione dell’insediamento e dei suoi spazi produttivi, e più in generale le dinamiche del popolamento.
2. Il significato legittimante delle azioni e della loro trascrizione, e il loro uso come fonte per la storia delle risorse
La società di Antico Regime è caratterizzata dal linguaggio possessorio. Per questo nell’indagarla è centrale ricostruire il ruolo che le azioni (i fatti) avevano nella certificazione del possesso. Gli atti concreti avevano poi una certificazione attraverso la produzione di documenti “giuridici” (trascrizioni notarili, memoriali giudiziari, …) e attraverso la ritualità con la quale erano ripetuti e praticati. Indagare a fondo la dimensione materiale delle azioni permette di mostrare da una parte l’ambiguo significato di talune azioni, e dall’altra ci spinge a provare a decifrarle (considerando i “fatti” e le loro tracce materiali come attestazioni strategiche funzionali alla rivendicazione di diritti). Tutto ciò permette inoltre di approfondire il modo in cui le fonti storiche “nominano” le risorse, e di individuare quale fosse la loro “natura”, in un contesto in cui l’uso multiplo e lo sfruttamento concorrenziale costituiscono la norma.
3. Le modalità di inclusione e di esclusione dai diritti di accesso alle risorse collettive, e le regole che definiscono tali modalità
La partecipazione a diritti di natura collettiva ha forme mutevoli, che dipendono da fattori sociali, economici, ecologici e istituzionali. Spesso le “regole” per gestire tali risorse sono state modificate in relazione ai cambiamenti più generali che, in particolare dopo la fine dell’Antico Regime, hanno interessato i diritti di proprietà e il modo di interpretare le attività agrosilvopastorali. Dalle testimonianze lasciate da tali discontinuità è possibile comprendere le modalità con cui una comunità ha mantenuto tali diritti, e misurare quindi le motivazioni che stavano dietro l’interesse a mantenerli.
4. Il rapporto tra conservazione dei diritti collettivi di accesso alle risorse e mancato abbandono delle pratiche agrosilvopastorali
A partire da un caso-studio localizzato (Perlezzi), mostreremo come il mantenimento dei diritti di gestione collettiva, anche a partire da un cambiamento nelle regole del loro accesso, ha consentito una continuità nella gestione delle risorse, pur nella discontinuità sia delle forme tecniche, sia di quelle istituzionali. Questo esempio permetterà anche di fare alcune considerazioni più generali sul dibattito attuale (nelle scienze sociali ed economiche, e in ambito politico) intorno al tema dei commons, e al loro valore come modello di gestione.
Il caso studio. Perlezzi è una piccola frazione del Comune di Borzonasca in Alta Valle Sturla, il cui nucleo abitato si è sviluppato, articolandosi in sei quartieri (tra i 500 e i 700 m slm), soprattutto tra il XVI e il XVIII secolo (come risulta dalla presenza di numerosi portali datati). L’abitato è completamente circondato da terrazzamenti, molti dei quali sono serviti da un acquedotto irriguo costituito da un canale a cielo aperto, che origina nell’area di zone umide. Qui è attivo un sistema irriguo documentato, pur con notevoli differenze sia materiali sia nelle forme di gestione, almeno a partire dal 1702. L’indagine partita dalla ricostruzione archivistica di un conflitto sui diritti di uso dell’acqua, è stata estesa all’analisi topografica dei luoghi oggetto del contendere e alla ricostruzione della storia dell’acquedotto al centro della contesa: la ricostruzione dei suoi utilizzi e delle regole del suo uso è stata estesa fino ai giorni nostri, essendo questo manufatto – seppur fortemente modificato – ancora in uso. La ricerca ha permesso così di mettere a confronto le procedure proprie del lavoro di terreno (in particolare effettuato attraverso ricognizioni di archeologia di superficie, osservazioni di ecologia storica, e interviste alle fonti orali), con quelle della ricerca storica più tradizionale (in particolare, studio dei fondi archivistici in cui è conservata la documentazione dei conflitti e degli accordi a cui si fa riferimento).
La ricerca ha documentato la storia del sistema irriguo – centrato su un acquedotto che collega materialmente proprietà collettive e terreni privati – e quella della serie di conflitti e accordi (spesso realizzati tramite la creazione di micro-istituzioni locali), che, come accennato, hanno permesso il mantenimento fino a oggi, con modi e forme costantemente contrattate, dei diritti collettivi non solo di uso dell’acqua – e quindi l’utilizzo dell’acquedotto –, ma anche delle terre collettive in cui si trovano le prese dell’acquedotto stesso.