di Stefano Petrungaro
È uscito da pochi giorni Balcani. Una storia di violenza?, il nuovo libro del nostro amico Stefano Petrungaro. Ne presentiamo un breve estratto, per gentile concessione dell’autore e dell’editore Carocci, che ha fatto coincidere l’uscita del libro con il doppio anniversario della liberazione di Sarajevo nel 1945 e dell’inizio dell’assedio di Sarajevo nel 1992.
Titolo e sottotitolo parlano da soli: l’autore studia i fenomeni violenti avvenuti nei Balcani tra Otto e Novecento, interrogandosi sulle tradizionali interpretazioni dei fatti, smontando gli stereotipi, ricollocando questi avvenimenti nel loro preciso contesto: niente “caratteri psicologi” o “tradizioni”, ma storia, istituzioni e società. I lettori del sito e dei Quaderni hanno già apprezzato questo modo di procedere in un altro saggio di Petrungaro che abbiamo pubblicato di recente. E ci pare che questo altro contributo prosegua proprio la discussione avviata con il Quaderno numero 12.
Le pagine che presentiamo qui di seguito sono tratte dal capitolo secondo di Balcani. Una storia di violenza?: “Violenza di Stato”.
Le maggiori forme di violenza di massa, nei Balcani come altrove, sono legate alla costruzione e alla distruzione di strutture statuali. Mettere in piedi uno Stato significa conquistare un territorio, in genere combattere un avversario, sottomettere una popolazione. E la rimodulazione degli Stati, attraverso i “vuoti di potere” e i loro riempimenti, attraverso il crollo di uno Stato e la sua sostituzione con uno nuovo, travasa fiotti di violenza istituzionalizzata da un contesto statuale all’altro. Se questo è quanto è avvenuto e tuttora avviene in tutto il mondo, in cosa si differenziano i Balcani?
È quanto cercheremo di vedere nelle prossime pagine. Prima però di avviare il cammino, possiamo già fare una sosta. L’angolo visuale scelto non è di poco conto. Si pensi alle letture che […] ricercano la fonte dei fenomeni violenti balcanici nei caratteri psicologici oppure nelle tradizioni culturali di quelle popolazioni. Più in generale ancora, la violenza, quand’è balcanica, sembra sempre anormale, abnorme, apparentemente collocandosi, proprio per via di quel suo anomalo eccesso, al di fuori della sfera occidentale, che avrebbe preso forma attraverso la costruzione, tra l’altro, di Stati moderni e civili. Rispetto a quella norma, i violenti Balcani sarebbero un’escrescenza purulenta, un sommovimento dal basso, al di fuori dell’ordine imposto dall’alto.
E invece, una buona parte della violenza balcanica è tutt’altro che furore popolare. Non è il passato che torna, ma è il progresso che avanza, è agìta da chi guarda fiducioso al futuro. E si lega proprio alla costruzione degli Stati. Di imperi prima, di Stati nazionali poi.
La situazione coloniale dei Balcani
Gli uomini fanno le guerre, e in genere le fanno dietro a una bandiera. E in genere quella bandiera è statale. Al centro di qualunque indagine sulla violenza di massa nei Balcani è quindi opportuno collocare le istituzioni o meglio le condizioni socio-strutturali che l’hanno prodotta e la producono. Perché l’Ottocento e il Novecento balcanici sono caratterizzati anzitutto da profondi processi di disintegrazione e integrazione statale, quindi da svariati progetti di nation- e state-building entrati in conflitto fra di loro.
Un primo aspetto da prendere in considerazione riguarda allora le ultime fasi dei due imperi multinazionali che si sono estesi sulla penisola balcanica tra Otto e Novecento. Non si tratta solo della disgregazione di questi due imperi. Prima di smembrarsi, questi condomini multietnici e multilingui si sono formati e sono esistiti. Il dibattito è del tutto aperto circa le categorie più opportune per descrivere le varie situazioni economiche, sociali e culturali che si sono create nel corso degli ultimi due secoli: per il lato asburgico, si recupera e ri-adatta la nozione di “situazione coloniale” elaborata inizialmente (1951) da Georges Balandier, solo tardivamente recepita e adattata a diversi casi di studio. Si tratta di mettere a fuoco rapporti sociali di sfruttamento che vanno ben al di là di un contesto formalmente coloniale: dinamiche di subalternità simili possono avere luogo, e di fatto ciò è avvenuto e avviene continuamente, anche senza che sussista una situazione che è normativamente inquadrata come “coloniale”. E questo è il caso dei Balcani.
Ciò ha avuto come effetto che si sono venute a creare, sotto numerosi punti di vista, situazioni in cui è possibile avvalersi degli studi che hanno indagato con successo altri contesti imperiali, pensando anzitutto al caso del continente africano e del subcontinente indiano. Contesti differenti che tuttavia non impediscono la comparazione, che anzi sembra risultare stimolante per alcune regioni della penisola balcanica, vissute, a vario titolo, in uno stato di “semi-colonialità”: colonie non de jure, ma de facto.
Meglio comunque non fare il gioco dei nazionalisti e conferire ai movimenti nazionali eccessiva importanza. Si rischia di magnificare i movimenti indipendentisti sostenendo che furono loro, sull’onda delle nuove rampanti ed entusiasmanti ideologie nazionali, a smantellare gli imperi, che furono le identità nazionali a causare e muovere i conflitti. Il movimento fu invece inverso: fu la violenza ottocentesca a produrre affiliazioni nazionali, e fu la crisi degli imperi – e l’intervento delle Grandi Potenze – che fece spazio ai movimenti nazionali, i quali alla crisi reagirono in difesa dei propri interessi, pur dovendo venire a patti con la maggioranza della popolazione, priva di una moderna coscienza nazionale, e con il complesso delle eredità imperiali, a livello di relazioni sociali, economiche ed etno-demografiche. Quello della svolta netta, dell’azzeramento della storia che riparte con l’acquisita indipendenza, è un mito nazionalista. Nei fatti, le avventure nazionali si costruirono sullo sfondo del passato, che di sé lasciava in eredità profonde tracce.
Eccola allora un’importante peculiarità dell’area balcanica: il retaggio imperiale. Nonostante l’ampia gamma di aspetti coinvolti (i regimi fondiari, le classi dirigenti, le culture amministrative e politiche, per citarne solo alcuni), limiteremo il nostro ragionamento a un ambito solo, ma di primissima rilevanza, quello della geografia umana: ebbene, sia nel caso ottomano che in quello asburgico non è certo l’omogeneità etno-culturale a caratterizzare l’esperienza – e l’eredità – storica. Al contrario, conquistare prima, e soprattutto poi amministrare un impero significa inviare soldati, notabili, esattori fiscali, in ogni provincia. Non sempre era questione di piccoli gruppi: le “colonizzazioni interne” degli imperi sono numerose e di vario tipo, da quelle economiche a quelle con scopi difensivi, riguardando piccoli numeri come intere popolazioni, pochi villaggi o intere regioni. Sono movimenti di cose, persone, lingue e idee che non si legano esclusivamente e direttamente alle guerre, ma che sostanziano l’esistenza di uno Stato imperiale, nel cui quadro l’eterogeneità etno-culturale, la compresenza sullo stesso territorio di diversi gruppi etno-confessionali, non sono circostanze spaventose e da evitare. Sono anzi l’obiettivo, se l’impero vuole espandersi e mantenersi in vita, una vita “imperiale”, che tendenzialmente tenta di sussumere le identità territoriali, confessionali, linguistiche e poi, progressivamente nel corso dell’Ottocento, etno-nazionali, in dinamiche “sovranazionali” o, ancor meglio, “anazionali”.
Senza trasformare le realtà imperiali in paradisi del multiculturalismo, come attualmente succede sia in relazione agli “splendori” della Mitteleuropa asburgica, sia in relazione alle “virtù” del sistema ottomano dei millet […], qui vogliamo piuttosto sottolineare un dato di fatto: quegli imperi erano multi-etnici, -linguistici e -religiosi, comportando nel lungo periodo trasferimenti di collettività e quindi compresenza sul territorio di diverse comunità etno-confessionali. Questa fu la situazione sul campo con cui dovettero rapportarsi prima gli imperi, sia in epoca pre-nazionale che successivamente; e scomparsi gli imperi, la loro eredità riguardò poi gli Stati successori.
[…]
Imperi e post-imperi
Quelli che scomparvero con la prima guerra mondiale non erano Stati qualunque, ma di un tipo preciso: erano imperi. Segnatamente, sia quello asburgico che quello ottomano erano imperi multietnici, multilinguistici, multireligiosi. Erano sorti quando l’idea di nazione ancora non c’era, non nella sua veste moderna. Così, ossia in termini pre-nazionali, quegli imperi hanno attraversato i secoli, accompagnando i territori balcanici verso la contemporaneità.
Quando l’idea di nazione si fece largo nei circoli intellettuali, quando i vari movimenti nazionali iniziarono a prendere corpo, gli imperi impallidirono. Progressivamente, infatti, venivano percepiti sempre più come “multi-nazionali”. Non solo multietnici, non solo multireligiosi, ma precisamente come condomini di più “nazioni”. Era un modo nuovo di concepire le identità collettive, le desiderava compatte e omogenee all’interno di un territorio, e desiderava quel territorio tutto per sé: è il moderno pensiero dello Stato-nazione, quello che esige uno Stato autonomo per il proprio gruppo, “nazionale”. I condomini multinazionali iniziarono ad essere attraversati, per lo meno a livello teorico, da profonde fratture.
[…]
Modernità violenta
Non furono dei reazionari a immaginare gli Stati-nazione balcanici. Non furono nemmeno dei cavernicoli a legittimare e guidare le violenze ad essi legate. Furono piuttosto moderni innovatori, intellettuali liberali, che legavano indissolubilmente il progresso all’autogoverno. Il miglioramento delle proprie condizioni economiche e culturali veniva così agganciato direttamente e inevitabilmente all’acquisizione dell’indipendenza da parte della propria presunta nazione. E quest’ultimo passaggio si è legato a guerre non solo contro lo Stato, l’impero da contrastare o meglio abbattere, ma anche per lo Stato, quello da costruire.
Sarà una banalità, ma la si dimentica. Prigionieri del pensiero nazionale che permea ancora quest’inizio di XXI secolo, nei paesi “extra-balcanici” e soprattutto in quelli balcanici si guarda ai movimenti nazionali come a momenti anzitutto emancipatori e progressisti. La violenza esercitata per metterli in piedi viene così ad essere implicitamente, e a volte del tutto spudoratamente, legittimata. Le guerre di conquista ottomane così sarebbero ovviamente ingiuste, mentre quelle di liberazione anti-ottomana sarebbero naturalmente (più) giuste.
Sono questi giudizi politici. Li riportiamo affinché il lettore ne sia pienamente consapevole e perché sia messo in guardia da certe facili, e diffusissime, interpretazioni. Nei grandi schemi che dividono la violenza in “legittima” e “illegittima”, raramente quella esercitata da uno Stato per la propria costruzione e poi per il proprio mantenimento è rubricata nel secondo gruppo. Ciò porta con sé un atteggiamento incline a soprassedere a certe forme di violenza legale, concentrando piuttosto la propria attenzione su quella extra-legale, sull’eccesso, inteso come ciò che esce dalla norma.
Questo capitolo, invece, si è sforzato di porre al centro dell’attenzione proprio la normalità della violenza statale, attraverso alcuni aspetti delle esperienze balcaniche. L’avvicendamento di imperi e le loro politiche di matrice colonialista, i giochi di potere delle Potenze straniere, i progetti di costruzione di Stati-nazione etnicamente omogenei, in reazione e opposizione proprio alle esperienze imperiali precedenti: sono queste alcune importanti caratteristiche dei Balcani otto-novecenteschi, che aiutano a inquadrare alcune forme di violenza collettiva e istituzionalizzata.
Nel corso dell’Ottocento, nei Balcani maturarono due fenomeni parallelamente: la democrazia, e il nazionalismo. Nessuno dei due, nemmeno il secondo, erano bell’e pronti fin dall’inizio delle varie esperienze risorgimentali, crebbero piuttosto nel corso del secolo. Nacquero le prime costituzioni, come quella greca del 1844, i parlamenti e partiti moderni progressivamente si fecero largo. Insieme, crebbe il pensiero nazionale, l’idea di una nazione pensata come etnicamente omogenea al proprio interno, racchiusa da confini chiari, tendenzialmente confini di Stato.
Anche gli imperi sono figli del loro tempo. Così che non sono estranei alla tarda esperienza asburgica e a quella ottomana esperimenti di nazionalismo imperialista. Nella metà ungherese, ad esempio, dopo il 1867 si mette in campo una politica di magiarizzazione assai decisa, che ebbe l’effetto anzitutto di stimolare ulteriormente i nazionalismi delle popolazioni suddite. D’altro canto, la trasformazione dell’impero ottomano in Turchia, con una forte accelerazione tra 1912 e ’22, è cosa nota. In questo caso, il nazionalismo turco iniziò fin da subito non solo a causare dibattiti politici e rivalità economiche, ma portò ben presto al primo massacro di tipo genocidale nella storia dell’Europa moderna, quello contro gli armeni del 1915-16.
Non si tratta quindi “solo” di Stati: sono tipi precisi di Stati. In questo capitolo si è parlato di Stati imperialisti, di Stati nazionalisti. Si è accennato ai timidi processi di democratizzazione, che arretreranno spaventati negli anni Trenta del Novecento. È la politica, quindi, a orientare quelle strutture storico-sociali sulle quali si è richiamata l’attenzione. Per capire le violenze degli Stati balcanici, occorrerà allora studiare anche le politiche che li hanno governati, a partire da quelle ideologie “modernizzatrici” che si riproponevano di creare comunità nazionali per mezzo di progetti statali. Erano ideologie che ponevano gli interessi della comunità nazionale al di sopra di tutto, al punto che quello delle “minoranze nazionali” divenne un problema risolvibile con un colpo di spugna.
I diritti delle minoranze, una dimensione nuova e che vide la luce nel periodo interbellico, con il caso polacco a fare da apripista, naufragarono. Le approfondite riflessioni della fin de siècle asburgica, sulla possibilità di convivere in una madrepatria multinazionale, pensando ad esempio alla tradizione degli austro-marxisti, non approdarono a nulla sulla penisola balcanica. Attraccarono altrove, nell’Unione sovietica, dove parzialmente andarono incontro a un’originale applicazione, come poi successivamente nella seconda Jugoslavia. Il che non impedirà certo a quegli Stati di praticare le loro forme di violenza istituzionalizzata, nei confronti delle proprie minoranze, politiche e nazionali.
La categoria di “violenze di Stato”, amplissima e vaghissima, potrebbe infatti essere declinata attraverso innumerevoli altri punti di vista. Al cuore, la biopolitica dello Stato moderno, che penetra ogni cittadino, con sempre maggiore intensità negli ultimi due secoli. E poi le violenze, episodiche, ideologiche e strutturali che i vari Stati balcanici otto-novecenteschi hanno animato: meritano di essere studiate nel dettaglio. A noi basti aver richiamato l’attenzione su alcuni, pochi esempi, da cui trarre l’insegnamento generale che la violenza, lontana da un fiume in piena, è spesso il frutto di una grande opera di ingegneria.
[Tratto da: Stefano Petrungaro, Balcani. Una storia di violenza?, Carocci, Roma 2012, pp. 29-46 (capitolo 2, “Violenza di Stato”).]