di Marco Toscano
Cari di storiAmestre,
il libro Non uccidere. Considerazioni politiche è un Oscar Mondadori del 1987 che raccoglie scritti di Hermann Hesse dal 1914 al 1961; mi limiterò a illustrare le pagine relative alla prima guerra mondiale.
Quando il governo tedesco dichiarò guerra alla Francia, ai primi di agosto 1914, Hermann Hesse (1877-1962) aveva quasi quarant’anni e viveva con la moglie e i tre figli in una casa di campagna vicino a Berna, in Svizzera. Nato nel Württemberg da padre russo di origine baltica e madre svizzera francese nata in India, aveva la nazionalità tedesca, così come due delle sue sorelle; un fratello e una sorella, invece avevano quella svizzera. Hermann si era trasferito dopo il matrimonio con la moglie in un villaggio sul lago di Costanza, vicino al confine con la Svizzera. Nel 1913 aveva compiuto un viaggio in Oriente ed era rientrato in Europa da pochi mesi quando scoppiò la guerra. Trovandosi, come si è detto, in Svizzera, Hesse si presentò al consolato tedesco a Berna per mettersi a disposizione: era riservista inabile, un suo richiamo era molto improbabile. Nel suo diario scrisse che l’idea di combattere lo inorridiva.
In settembre uscì in Germania il manifesto dei Novantatré, dal numero degli intellettuali tedeschi che dichiaravano lo stretto legame tra cultura e guerra. Il direttore di un settimanale con cui collaborava proibì a Hesse di recensire opere di nazioni nemiche (francesi, russe, belghe e inglesi). Lui gli rispose con un articolo pubblicato ai primi di novembre del 1914 sulla Neue Zürcher Zeitung di Zurigo (con cui avrebbe collaborato durante tutta la guerra), sotto il titolo Non questi toni, amici!, che riprende le parole del coro nella Nona sinfonia di Beethoven. Hesse si rivolgeva a insegnanti, scienziati, artisti e letterati, che avrebbero dovuto mantenersi neutrali nel conflitto invece di fomentare, come invece facevano, l’odio tra i popoli. “Chiunque si trovi sul campo e ogni giorno rischi la pelle ha pienamente diritto all’esasperazione, e a volte all’ira, e all’odio, e lo stesso vale per ogni politico attivo; ma noialtri, noi poeti, artisti, giornalisti – possibile che sia nostro compito quello di rendere peggiore il male, di moltiplicare gli aspetti detestabili e deprecabili?” (pp. 14-15). Gli artisti dovevano servire l’umanità e gli ideali sovrannazionali, seguendo l’esempio di Goethe, in cui “l’amore per la germanicità, che conosceva e apprezzava come nessun altro, cedeva il passo all’amore per l’umanità” (pp. 16-17). La guerra c’era e a quel punto non ci si poteva sottrarre. Hesse, che dichiarava la propria estraneità nei confronti della mobilitazione, dichiarava di non voler mai “impedire a un soldato di compiere il proprio dovere” (p. 16), affidando piuttosto agli intellettuali il compito di fermare il sangue, facendo in modo di tornare “al più presto, a un’opera più alta e migliore” (p. 16). Agli intellettuali spettava “il compito di mantenere un barlume di pace, di costruire ponti, di cercare strade, non già di menar botte (con la penna!) e minare ulteriormente le fondamenta del futuro europeo” (p. 17). Esempio, ancora una volta, Goethe, rimasto estraneo alle guerre di liberazione tedesche del suo tempo. Dalla guerra infine poteva nascere qualcosa di buono. “Che l’amore sia superiore all’odio, la comprensione superiore all’ira, la pace più nobile della guerra, è cosa che proprio questa nefasta guerra mondiale deve insegnarci, marchiandocene più profondamente che mai. Altrimenti, a che servirebbe?” (p. 18).
Romain Rolland lesse lo scritto e gli sembrò “un bell’articolo”, di uno scrittore “immune dal contagio tedesco”, anche se tendeva “ad esagerare il dovere dell’artista al silenzio” (I, p. 81). I due scrittori si conobbero e divennero amici: Hesse avrebbe dedicato a Rolland il suo libro più famoso, Siddartha. Rolland racconta nel suo diario una visita alla famiglia Hesse nell’estate 1915. Hesse si sforzò di parlare in francese, mescolandolo con espressioni tedesche. “Nella campagna circostante, si sentono i sonagli degli armenti”, scrisse Rolland nel suo diario, “mentre i nostri popoli si massacrano”. Hesse poteva forse essere richiamato in Germania per il servizio militare. Sperava di no; in ogni caso, disse, non si sarebbe presentato.
Nel 1918, a guerra appena finita, Hesse ricordò la situazione all’inizio del conflitto, spiegando il motivo della sua estraneità agli eventi che a tutti parevano invece “storici” e “grandi”. La causa era che molte persone, che “pensavano in termini storici” sapevano “che cosa fossero le epoche grandi” e avevano finalmente la possibilità di viverne una nell’estate del 1914. In molte persone, in altre parole, “per la prima volta balenava un frammento di vita interiore, l’anima faceva capolino” (pp. 51-52). Ed ecco vecchie zitelle curare ferite, ecco giovanotti mettere a repentaglio la propria vita perché “per la prima volta, con un profondo brivido, percepivano che cosa fosse la vita in tutta la sua pienezza” (p. 52). “Per noi invece, per i religiosi e i poeti, che credevamo in Dio anche nei giorni di lavoro, e ai quali l’esistenza dell’anima era nota già prima, l’epoca non poteva apparire né più grande né più piccola di qualsiasi altra, e cioè perché, con la nostra parte più intima e più profonda, non vivevamo in essa” (p. 52). “Noi poeti”, in conclusione, “eravamo diventati nemici della patria, disfattisti e sabotatori”, “denunciati, messi sulle liste nere”. A questo proposito Hesse riportò un episodio: “Quando, nella primavera del 1915, osai chiedere a un amico tedesco perché apparisse così spaventosa l’idea che, se le cose si fossero messe in un certo modo, avremmo dovuto restituire l’Alsazia, lui mi fece capire che personalmente era disposto a perdonarmi molte cose, ma che con discorsi del genere fatti con altri avrei rischiato letteralmente la pelle” (p. 51).
L’impegno di Hesse per fermare la guerra si accentuò nel corso del conflitto. Nell’agosto 1917 pubblicò una lettera A un ministro in cui accusava il ministro della Guerra tedesco (in realtà i ministri della Guerra di tutti i paesi) di parlare “per l’onore della sua nazione” e di non nutrire “alcun sentimento per l’umanità”, con il risultato di causare “alcune decine di migliaia di nuove vittime umane”. Tre anni di azioni militari si erano rivelate un completo fallimento: centinaia di migliaia di uomini erano stati uccisi senza che nessuno Stato avesse raggiunto i propri obiettivi militari. Hesse invitava il ministro ad ascoltare “una nobile musica” o a prendersi “un momento di tranquillità” per leggere “una parabola di Gesù, un verso di Goethe, un detto di Lao Tze”. Così avrebbe potuto vedere “il pianeta, il nostro antico, paziente pianeta, e lo scorgerebbe ricoperto di cadaveri di moribondi, sconvolto e distrutto, bruciato e violentato. Vedrebbe soldati che giacciono per giorni nella terra di nessuno, incapaci di allontanare, con le mani maciullate, le mosche delle piaghe di cui muoiono. Udrebbe le voci dei feriti, le grida degli impazziti, i lamenti e le proteste delle madri e dei padri, dei fratelli e delle sorelle, sentirebbero il popolo gridare per la fame”.
Hesse ripeté il suo appello a fermare la guerra nell’articolo Ci sarà la pace?, uscito nel dicembre 1917. Dinnanzi all’imminente “gigantesco bagno di sangue destinato a decidere delle sorti del conflitto, e che non lo deciderà affatto”, Hesse affermava il “dovere di tutti noi, unico e sacrosanto dovere di ogni essere umano di buoni sentimenti sulla faccia della terra, non già di palliarsi di indifferenza e lasciare che le cose seguano il loro corso, bensì di fare tutto quanto sta in lui per evitare questa estrema eventualità”. Rallegrandosi delle vittorie o deprecando le sconfitte della propria parte significava riconoscere “che la guerra è uno strumento della politica”. A parte “un piccolo ceto di affaristi”, nessuno voleva la continuazione della guerra: “E dunque, muoviamoci! Proclamiamo in tutti i modi la nostra volontà di pace!”. Lo scritto si concludeva con un appello a “ogni individuo di buona volontà” ad abbandonare la correità. I russi (erano iniziati i colloqui di pace a Brest Litovsk) avevano appena deposto le armi, concluso la guerra. Quindi “battere la guerra” era possibile. I russi avevano dato l’insegnamento, bisognava seguirlo. “Non occorre più mantenersi fedeli a meschini orgogli nazionali quando ormai tutti quanti ci siamo a tal punto macchiati di sangue!”.
Per la mia scheda ho scelto un brano dall’articolo Se la guerra dura ancora due anni, pubblicato a metà novembre 1917, in cui Hesse, che si firmava con lo pseudonimo di Emil Sinclair, immaginava di scomparire e di tornare sulla terra nel 1920, scoprendo in tal modo quello i danni che la guerra avrebbe lasciato all’umanità: in primo luogo la noncuranza con cui i bombardamenti arei, una novità della prima guerra mondiale, facevano stragi di civili.
Al termine del conflitto, nel 1919, Hesse si trasferì vicino a Lugano, dove visse fino alla fine della vita. Nel 1946 ottenne il premio Nobel per la letteratura.
Nel ringraziarvi ancora una volta, un caro saluto dal vostro
Marco Toscano
I bombardamenti aerei sui giusti e sugli ingiusti, di Hermann Hesse
Tornai che era il 1920, e con mia grande delusione i popoli ovunque erano impegnati a farsi guerra a vicenda sempre con la stessa, insensata, caparbietà. Alcune frontiere erano state spostate, certe regioni di cultura raffinata, antica ed elevata, erano state meticolosamente distrutte, ma a conti fatti ben poco era mutato, almeno esteriormente, sulla terra.
Grandi passi avanti si erano compiuti in fatto di uguaglianza. Per lo meno nelle nazioni d’Europa, a quel che udivo dire la situazione era ovunque la stessa, e la differenza tra belligeranti e neutrali era quasi completamente scomparsa. Dacché lo sterminio della popolazione civile veniva meccanicamente mediante dirigibili che da un’altezza di quindici o ventimila metri lasciavano cadere le loro bombe, i confini tra le nazioni, sebbene come prima attentamente vigilati, erano divenuti alquanto illusori. L’impressione di queste casuali incursioni aeree era tale che chi inviava i dirigibili poteva dirsi soddisfatto se non colpivano il proprio territorio, e non si preoccupava certo del numero di bombe che cadevano su paesi neutrali o magari sul territorio di alleati.
Era questo in effetti l’unico progresso compiuto dalla guerra in quanto tale: e in esso in fin dei conti il senso della guerra trovava chiara espressione. Il mondo era diviso in due partiti, ciascuno dei quali cercava di distruggere l’altro, e ciò perché entrambi aspiravano alla stessa cosa, vale a dire alla liberazione degli oppressi, la soppressione della violenza e l’instaurazione di una pace duratura. Nei confronti di una pace che non potesse durare in eterno, tutti si mostravano assai differenti; e, visto che la pace eterna era impossibile, si continuava con decisione l’eterna guerra, e la noncuranza con cui i dirigibili facevano piovere da incredibili altezze la loro benedizione su giusti e ingiusti, corrispondeva come ho detto al senso di quella guerra. Quanto al resto, essa veniva condotta alla maniera antica, con mezzi cospicui ma insufficienti. La scarsa fantasia di militari e tecnici aveva prodotto solo scarsi mezzi di distruzione, e quel visionario che aveva inventato il dirigibile bombardiere era stato l’ultimo della sua razza, perché poi scienziati, visionari, poeti e sognatori avevano sempre più perduto interesse per la guerra la quale, come s’è detto, era ormai demandata a militari e tecnici, ragion per cui faceva pochi progressi. Ovunque gli eserciti si fronteggiavano immobili con straordinaria tenacia […].
Nota. Tratto da Hermann Hesse, Non uccidere. Considerazioni politiche, trad. di Francesco Saba Bardi, Mondadori, Milano 1987, pp. 37-39. Il libro riprende alcuni brani da Guerra e pace (terza edizione ampliata 1962, la prima è del 1946). Gli articoli citati sono: Non questi toni amici!, pp. 13-18 (“Neue Zürcher Zeitung”, 3 novembre 1914); A un ministro, pp. 19-23 (“Neue Zürcher Zeitung”, 12 agosto 1917); Ci sarà la pace?, pp. 31-36 (“Neue Zürcher Zeitung”, 30 dicembre 1917); Se la guerra dura ancora due anni, firmato Emil Sinclair, pp. 37-44 (da cui il brano riportato; “Neue Zürcher Zeitung”, 15 e 16 novembre 1917). Notizie su Hermann Hesse nel 1914 in Alois Prinz, Vita di Hermann Hesse, Donzelli, Roma 2003, pp. 97-100. Le annotazioni di Rolland sull’articolo di Hesse del novembre 1914 in Romain Rolland, Diario degli anni di guerra 1914-1919, trad. di Giovanna Bonchio e Michele Rago, I, Parenti editore, Firenze 1960, p. 81, che traduce il titolo dell’articolo di Hesse con Amici, cambiate musica!; la visita di Rolland a Hesse, 12 agosto 1915, ibidem, pp. 378-380. (m.t.)
Le puntate precedenti:
22. Robert Graves, Quel giorno non facemmo prigionieri
21. Vera Brittain, Roland Leighton, Cos’hanno a che fare Giovinezza, Gioia e Vita con la guerra?
19. Fanny Dal Ry, Non obelischi, ma colonne infami
18. Erich M. Remarque, Nessuno vuol sapere la verità
17. Aldo Palazzeschi, Il mandolino è mille volte superiore al cannone
16. Romain Rolland, Opinioni di Albert Einstein sulla guerra in corso
15. Simone Weil, La società attuale è un’immensa macchina di cui nessuno conosce i comandi
14. Andreas Latzko, Malato io?
13. Józef Wittlin, I misteri della subordinazione militare
12. Elias Canetti, Inni nazionali e facce stravolte dall’odio
11. Karl Kraus, Davanti a una bottega di barbiere
10. Jaroslav Hašek, Quale Ferdinando, signora Müller?
9. Virginia Woolf, Togliere dai cuori degli uomini l’amore delle medaglie e delle decorazioni
8. La rivolta della Catanzaro, da Plotone di esecuzione
7. Emilio Lussu, Un episodio di decimazione
6. Corina Corradi, La scena si faceva sempre più spaventosa
5. Helena M. Swanwick, Il senso dell’onore è causa di guerre
4. Romain Rolland, Ciascuno ha il suo Dio e combatte quello degli altri
3. Guglielmo Ferrero, Cesarismo, burocrazia, esercito
2. Bertha von Suttner, La storia insegna l’ammirazione per la guerra